Carnismo: perché mangiamo gli animali


Silvia Notarangelo
ROMA – A tutto c’è una spiegazione. E quella che fornisce la psicologa Melanie Joy è di quelle che non possono lasciare indifferenti. La questione è relativamente semplice ed emerge, con forza, già da un titolo capace di riassumerne l’essenza: “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”(Edizioni Sonda).

Carnismo. È così che Melanie Joy definisce quell’insieme di credenze che ci portano a mangiare alcuni animali, rifiutandone altri. È un’ideologia violenta, un sistema “crivellato di assurdità, incongruenze e paradossi (…) rafforzato da una complessa rete di difese che ci permettono di credere senza dubitare, di conoscere senza pensare e di agire senza sentire”.
Dai suoi studenti, interrogati sugli atteggiamenti che nutrono verso gli animali, l’autrice si sente ripetere sempre la stessa risposta:“Le cose stanno così”. In effetti, l’unica risposta (in)sensata che si riesce a dare è proprio questa. Non c’è un vero perché. O meglio, possibili argomentazioni non mancano, ma è il loro fondamento a lasciare molte perplessità. Perché allora si continua a perpetuare, in silenzio e quasi inconsapevolmente, un simile sterminio? Il carnismo ha messo in atto una serie di difese per tutelarsi e garantire la propria sopravvivenza, prima tra tutte l’invisibilità. Eppure “non vedere” non significa necessariamente “non sapere”. Ed è proprio qui che entra in gioco, secondo la psicologa, un altro meccanismo ancora più insidioso: si può essere a conoscenza di una verità spiacevole e continuare a far finta di niente, conservando inalterate false convinzioni. Si mangiano alcuni animali perché non si considerano tali e se ne prendono le distanze. Si pensa a loro come ad oggetti inanimati, privi di individualità, riducendosi a classificarli secondo un’asettica dicotomia: commestibile o non commestibile.
La chiave di svolta, ciò che potrebbe determinare un cambiamento nella comune percezione della realtà, ha un nome: empatia. L’autrice ne è convinta. Per porre fine al carnismo occorre recuperare la giusta sintonia con l’universo animale, lasciandosi trasportare da quell’innata capacità del genere umano di provare emozioni e, magari, renderle pubbliche con la forza della propria testimonianza.
Qualunque sia il personale punto di vista, questo saggio ha il merito, non scontato, di far riflettere, di approfondire con un’analisi meticolosa una tematica delicata, senza nasconderne gli aspetti “più provocatori, controversi e talvolta profondamente disturbanti”.

Negli “African graffiti” l’unicità d’un continente.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non si può raccontare l’Africa se si prescinde dalle persone. Forse nessun altro continente, come l’Africa, affida ancora la sua storia a quelle singole degli individui: lì non esiste, almeno fin adesso, l’idea del destino comune, della meccanizzazione dei destini, dell’inviolabilità del futuro. Forse perché in Africa il futuro ha ben poca importanza in confronto all’adesso, a quello che sta accadendo nell’attimo in cui si parla. E anche perché le incognite, le variabili, non sono preventivate: l’uomo non può immaginarsi ogni casualità, ogni possibile futuro; perché allora doversene preoccupare?
“African graffiti”, la raccolta di storie di Marco Aime, edita da Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri (2012), è tutto questo: una galleria di volti, di persone, di nomi precisi, di gesti identificabili. Marco Aime, nei suoi lunghi anni di studio come antropologo delle terre africane, sa che non si può parlare di futuro, per l’Africa, in termini universali, generici. È troppo grande, l’Africa; è troppo composita, varia, multiforme. L’unico modo per capire l’Africa è cercare di capirne i singoli frammenti, i tanti tasselli che la formano. L’Africa ancora non è collettività anonima, industriale, riconducibile a calcoli matematici ed economici. L’Africa è ancora un intreccio e un collegamento di comunità, di nuclei umani. Sicché l’umanità è qualcosa da cui non si può prescindere per descriverla e per capirla.
A cominciare dall’unicità dei cartelloni pubblicitari e delle insegne commerciali: “Sono dipinte a mano, ognuna con un suo stile, colori suoi. Al contrario delle nostre insegne standardizzate, che rimandano a marchi industriali, queste sono dei veri non-loghi, perché sono estremamente personalizzate. Non ce ne sono due uguali”. L’Africa è così, proprio come le sue insegna: è la terra per eccellenza del no-logo, della personalizzazione, dell’esclusività. È una terra dove ancora alcuni valori riescono a sopravvivere, dove ancora si ascolta e dove ancora l’uomo non è soggiogato al tempo incalzante e prepotente.
E la galleria di ritratti che Marco Aime ha messo diligentemente insieme ci conferma tale sensazione. Lui stesso è consapevole di quanto il suo lavoro possa apparire inutile e sterile, di quanto corrompa il pensiero e di quanto si rischi, insistendo, di perdere la meraviglia dagli occhi e dalla mente, non lasciandosi più sorprendere da nulla e attendendosi già tutto. Ma è anche consapevole, Marco Aime, che l’Africa sa sempre come riprendersi la rivincita e come offrire sempre un nuovo motivo, un nuovo gesto, un nuovo sguardo, per far sorprendere, per rimanere ancora una volta senza fiato, e chiedersi qual è quel potere che incatena l’uomo. Che fa stancare dell’Africa il secondo giorno che vi si sbarca ma che la fa mancare, perdutamente, già al secondo giorno del rientro in Italia.

“Lasciami andare”, perché io possa tornare

Marianna Abbate
ROMA  Una figlia che conosce solo suo padre. Una vita avvolta in un velo di maya che nasconde segreti e a volte scopre mezze verità. E’ questa la storia al centro del romanzo di Fulvia Degl’Innocenti “Lasciami andare”, pubblicato da Fanucci.

16 anni, già da soli bastano perché una ragazza abbia dei dubbi generici sull’esistenza propria, sul mondo e sui genitori. Ma quando ai timori adolescenziali si aggiungono alla misteriosa nostalgia materna e vengono stimolati da una sospetta e rabbiosa tristezza dell’unico genitore conosciuto, ecco che la macchina del cervello si accende. Bisogna sapere, bisogna scoprire. Il desiderio di conoscenza spinge oltre ogni confine, calpesta ogni lealtà. Diventa sete. Tanta è l’arsura da insinuare il più terribile dei sospetti.

Eleonora si ritrova tra carte, persone e storie che non le appartengono, ma che l’hanno vista protagonista ancora in fasce. E così, la ragazza accompagnata da un fedele amico, sulle tracce del proprio passato, come un detective, si trova in mezzo ad un mondo che non è il suo, a storie che non avrebbe dovuto sapere e a emozioni che non avrebbe dovuto mai provare. Ma solo toccando con mano questo mondo da cui era stata esclusa, potrà ritrovare la serenità, la fiducia e sentirsi un po’ meno sola.

Commovente questo romanzo, un racconto di formazione. Quello che mi ha colpito di più è l’atemporalità dei sentimenti, delle emozioni e dei sospetti. Una scrittura realistica e introspettiva, che mostra il quotidiano nella sua oggettività, spiegando nel contempo la relatività nella ricezione personale dello stesso.

 

 

I 10 Libri del Natale di Alessia

 

Alessia Sità
ROMA – La tradizione vuole (e in un certo senso impone) che a Natale ci si scambi dei doni… Se siete a corto di idee e anche di euro, vi suggerisco qualche spunto di lettura che vi assicuro non avrà grosse ripercussioni sulle vostre finanze. Nella speranza di essere stata utile, auguro a tutti gli amici di ChronicaLibri di trascorrere un sereno Natale.

1. “Una notte di Natale a New York” di Kane Henry, Pollilo Editore
2.”Italiani di domani – 8 porte sul futuro” di Beppe Severgnini, Rizzoli
3. “Cinquanta sbavature di Gigio” di Rossella Calabrò, Sperling&Kupfer
4. “Cinquanta smagliature di Gina” di Rossella Calabrò, Sperling&Kupfer
5. “La doppia vita dei numeri” di Erri De Luca, Mondadori
6. “Grace Kelly, principessa di ghiaccio” di Andrea Carlo Cappi, Aliberti Editore
7. “Il corpo umano” di Paolo Giordano, Mondadori
8. “Venuto al mondo” di Margaret Mazzantini, Mondadori
9. “Grandi speranze” di Charles Dickens, Einaudi
10. “I giorni chiari” di Zsuzsa Bánk, Neri Pozza

“Novelle e impressioni” di Gino Racah

Silvia Notarangelo
ROMA – Personaggio di spicco del sionismo milanese delle origini, Gino Racah (1865-1911) dedicò la sua breve esistenza al tentativo di risvegliare le coscienze e le energie ebraiche che “tendevano a scomparire”, convinto della necessità di riscoprire e difendere la fede e le tradizioni giudaiche. A distanza di poco più di un secolo dalla sua morte, Carlo Tenuta ha curato, per Mucchi Editore, una raccolta di scritti dell’autore milanese da cui emerge prepotentemente tutta la sua passione, le sue convinzioni, ma anche una crescente preoccupazione per le sorti della sua religione.

Novelle e impressioni” raccoglie nove episodi di vita e di storia ebraica. Una narrazione scorrevole, lucida ma profondamente sentita, in cui le novelle sono solo uno spunto, un modo per affrontare temi e problematicità particolarmente care allo scrittore. Gli episodi, in parte a carattere autobiografico, seguono un ordine cronologico, un arco temporale che ha inizio in epoca precristiana, attraversa alcuni momenti salienti della storia fino ad arrivare ai primissimi anni del Novecento e proiettarsi in una Gerusalemme futura.
Protagonisti della quasi totalità dei racconti sono ebrei fieri delle loro origini, fedeli al proprio credo e alle tradizioni, disposti a tutto, anche a sacrificare la propria vita pur di non arrendersi e soccombere sotto i colpi di “energumeni fanatici o empi depravati”.
Con il passare del tempo, le insidie cambiano. Non sono più il cristianesimo o il paganesimo i nemici da cui tenersi lontani, non ci sono più guerre da combattere: la fede va salvaguardata da altri pericoli, forse meno evidenti ma altrettanto insidiosi.
Anche la riflessione di Racah cambia prospettiva, affrontando nuove, delicate questioni divenute cruciali: i matrimoni misti, la rinuncia o l’abbandono della fede ebraica, un persistente sentimento antisemita. È la “crescente assimilazione” una delle cause, secondo l’autore, di questa pericolosa deriva. Non sorprende, quindi, che protagonisti degli ultimi racconti siano una vecchia suocera, costretta a conservare in segreto la propria fede, e un padre che, al contrario, sembra riscoprire, l’importanza delle proprie origini. Ed è proprio a questo padre, tormentato dalla scelta della figlia di diventare monaca di clausura, che Racah affida un messaggio di speranza: “il lamentarsi senza agire è da sciocchi e da imbelli (…) insegnerò agli altri a mantenere raggiante e puro il focolare della famiglia israelitica”. Un impegno a cui l’autore ha dedicato tutta la vita.

“Eden”: il romanzo d’esordio di Alessandro Cortese

Alessia Sità
ROMA –Il…Male?/Non sai cos’è?/ Spiegami, te ne prego./ Il settimo giorno il Grande creò gli angeli. Noi, primi tra i Suoi figli./ Voi siete il Male?/No. Siamo il mezzo attraverso il quale il Male ha preso forma e coscienza. La vita creata.

Non sono una grande conoscitrice delle Sacre Scritture, ma devo ammettere che la lettura di “Eden”, il romanzo di esordio di Alessandro Cortese, edito da ArpaNet, mi ha fatto venir una gran voglia di rivedere con attenzione il passo della Genesi. Il dualismo fra bene e male, fra luce e tenebre, è alla base di questo piccolo capolavoro.
Stravolgendo completamente la tradizionale storia della Creazione, l’autore racconta come sia avvenuta la caduta di Lucifero. Gli oscuri segreti del Paradiso Terrestre vengono svelati senza esitazione. Al centro della vicenda ci sono gli Angeli bramosi di conoscere e appropriarsi definitivamente della propria libertà; questo incessante desiderio li spinge a ordire un complotto contro il Grande Padre. La cospirazione però viene scoperta dai cherubini e dall’Arcangelo Michele che, per punizione, strappano le ali ai traditori prima di scaraventarli dalla cima del Gòlgota nell’Abisso infernale. Lucifero, però, riesce – nonostante la terribile tortura inflittagli – a sopravvivere all’impatto col baratro. La descrizione del custode della luce, l’immagine eterea di Eva, la figura di Adamo affascinano e coinvolgono il lettore, spingendolo quasi a provare un sentimento di compassione nei loro riguardi. Il continuo gioco di luce e ombre, alimentato anche dalla presenza delle maschere indossate dai protagonisti che popolano Eden, contribuisce a creare un’atmosfera senza tempo e un alone di mistero a tutta la storia della Creazione.
Con un linguaggio elegante e ricco di riferimenti biblici, Alessandro Cortese ci guida in un viaggio sospeso fra mito e leggende, ribaltando completamente l’opinione comune sulla Genesi. Se desiderate avere un quadro completo su come sia avvenuta la cacciata degli angeli e della razza umana dal Paradiso Terrestre, seguendo sempre l’interpretazione di Alessandro Cortese,  vi segnalo inoltre l’uscita del suo secondo romanzo, “Ad Lucem”, venerdì 21 dicembre.

Antonio Di Costanzo: tra cronaca e giallo, ecco il papà di Jacopo Fernandez

Marianna Abbate

ROMA – Come avrete capito dalla mia entusiasta recensione, che potete leggere qui, Antonio Di Costanzo è un tipo simpatico. E, nonostante le nostre divergenze filologiche sulla questione del qual (che lui vede come un troncamento, mentre io sostengo essere un’elisione) l’intervista che segue vi dimostrerà quanto accennato in precedenza. Tra orari di lavoro impossibili e impegni imprescindibili, ha trovato il tempo per raccontare ai lettori di Chronicalibri un po di sé.

Da giornalista a scrittore, o da scrittore a giornalista: qual è il mestiere che ti senti cucito addosso? 

“Entrambi. Dipende dai giorni e, soprattutto, dall’umore. Ma forse la mia è solo un’illusione”.

Scrivere: quali sono i sacrifici e le soddisfazioni di questo mestiere?

Chi fa il giornalista sacrifica famiglia e amicizie. Lavora il primo dell’anno, il 26 dicembre, alla Befana e a Pasquetta. Ha orari folli e una vita poco regolare. Ma tutto questo forse, a pensarci bene, non è un sacrificio è una scelta. Scrivere libri, invece, per me sono brevi momenti di follia che si accendono e spengono a intermittenza”.

Perché scrivere un giallo? In cosa si differenzia il tuo libro dai gialli classici?

“Ho scritto romanzi perché quando ho deciso di farlo mi sembrava un’idea intelligente. Il tempo mi dirà se avevo torto o ragione. Il mio dovrebbe essere un giallo-comico, ma sono contrario alle etichette. Posso dire che è incentrato sul protagonista, un uomo scorretto, un cronista beone pieno di difetti e socialmente sconveniente. Jacopo è la tipica persona che una ragazza non potrebbe mai portare a casa per presentarlo come fidanzato ai propri genitori. Dicono che è molto divertente”.

Quanto di te c’è in Jacopo Fernandez, il protagonista dei tuoi romanzi? Cosa ti accomuna a lui, quanto vorresti ti accomunasse e cosa odi di lui?

Bho, posso dire solo che i miei non sono libri autobiografici. Quando però invento un personaggio saccheggio nella mia vita, in quella di amici e parenti e di tutti quelli che ho incontrato. Adoro Jacopo Fernandez, è quello che vorrei essere anche se so che non accadrà mai”.

Cosa significa essere un giornalista eroe? E’ un valore che si raggiunge per merito o un’etichetta mediatica?

“Ah dovresti chiederlo ai giornalisti eroi, non di certo a me. Comunque posso dire che questa è la tipica etichetta che qualcuno appiccica addosso a certi cronisti che magari hanno sacrificato la propria vita soltanto facendo il proprio lavoro. Gli stessi cronisti che quando erano sconosciuti, magari erano vessati, tenuti a distanza e infangati da chi poi li esalta per specularci sopra”.

Esistono ancora giornalisti eroi? Potresti citare qualche esempio?

“No non ho esempi da fare, anche perché il termine eroe non mi piace e secondo me non è corretto. Ci sono cronisti bravi e meno bravi. Gli eroi lasciamoli stare, anche perché storicamente fanno una brutta fine”.

Che cos’è l’ispirazione?

“Non ne ho idea. Io mi metto al computer e scrivo romanzi quando non riesco a prendere sonno la notte. Forse l’ispirazione si chiama insonnia”.

Chronicalibri si occupa di mostrare il volto della piccola e media editoria italiana: com’è il tuo rapporto con Cento Autori?

“Ecco. Ripensandoci, un uomo che si avvicina al prototipo dell’eroe l’ho conosciuto: si chiama Pietro Valente ed è il fondatore della mia casa editrice: Centoautori. Di professione fa il farmacista, ma quello che guadagna l’investe nella casa editrice per diffondere la cultura a Napoli e provincia. Ha avuto anche il coraggio di pubblicare libri scomodi come il Casalese e lo fa soltanto per spirito di servizio e per migliorare la sua terra, rimettendoci tempo e soldi. E poi è una persona corretta. Mandai il primo libro in casa editrice, mi contattarono dopo qualche mese e mi offrirono un contratto per pubblicarlo. Senza tante chiacchiere e false promesse. Una vera rarità”.

Che consiglio potresti dare a chi vorrebbe approcciarsi alla scrittura? Cosa deve fare un aspirante scrittore?

“Non ascoltare i consigli degli altri aspiranti scrittori. Sono ideologicamente contrario a dare consigli”.

“Trambusto”, ultima chiamata per il futuro

Silvia Notarangelo
ROMATrambusto è una particolare prigione, un luogo sospeso tra passato e futuro da cui si può uscire redenti o definitivamente dannati. È l’ultima chance, il bivio per decidere che cosa fare della propria vita. Peccato, però, che non bastino insegnanti, laboratori, regole e vigilanza per superare il vero trambusto, il più difficile da affrontare, quello che ognuno si porta dentro, frutto di scelte, di esperienze, di sofferenza. È un ritratto lucido e disincantato quello che Luca Gallo delinea nel suo secondo romanzo “Prossima fermata Trambusto”, pubblicato da Intermezzi. Una storia tormentata e, al tempo stesso, di speranza, perché se è vero che a dominare sono spesso prepotenza e arroganza, è altrettanto vero che il giorno in cui scegliere da che parte stare arriva per tutti. Paradiso o inferno: è il momento di decidere anche per i tre giovani protagonisti del libro.

Tarek, abbandonato dalla madre, vive con lo zio da quando il padre di origine tunisina non c’è più. Lavora in un’agenzia di servizi per cani e gatti anche se non ha mai abbandonato il suo sogno di studiare. Chioma proviene da una famiglia agiata, crescendo ha scelto di ribellarsi ad una vita ovattata e ora ha un chiodo fisso nella testa: battere Orso, il suo rivale nelle consegne, per diventare il più veloce tra i facchini. Lama ha deciso di dire addio ad un passato turbolento e tornare ad essere Christian, un lavoratore serio ed affidabile, segretamente appassionato di arte.
Apparentemente i tre ragazzi non hanno nulla in comune, fatta eccezione per quell’intento, non nascosto, di provare a raddrizzare un’esistenza che non sembra finora essere stata particolarmente generosa. Talvolta, però, le buone intenzioni non sono sufficienti. Si infrangono o, più semplicemente, devono fare i conti con i tanti imprevisti della vita. Ed ecco, allora, che basta davvero poco per essere risucchiati in situazioni che non forniscono vie d’uscita se non quella di rassegnarsi a pagare un prezzo non dovuto.
Trambusto”, è qui che i tre accidentalmente si ritrovano. Un carcere a cielo aperto, un progetto destinato ad accogliere, su tram trasformati in piccoli appartamenti, tutti coloro che si sono resi autori di reati non gravi.
Durante la sua breve esistenza, nonostante schegge impazzite e tentativi di affondarlo, Trambusto si rivelerà molto di più di una semplice e inconsueta prigione. Sarà un’occasione per riflettere, per mettersi a nudo, per ricordare ciò che a volte si dimentica o si finge di dimenticare ma, soprattutto, sarà il momento giusto per fermarsi e capire che direzione stia prendendo la propria vita, se proceda nel verso desiderato o occorra dare una sterzata e ripartire da zero.
Tarek, Chioma e Lama torneranno alla “normalità” con desideri e propositi diversi, ma uniti da una stessa consapevolezza: Trambusto è stato solo un punto di partenza, l’ultima fermata prima del futuro.

“50 smagliature di Gina”: dalla trilogia alla sana ironia

 

Alessia Sità

ROMA – “Hai dei bellissimi piedi. Hai una bellissima voce. Hai una bellissima protesi sulla testa del femore. Quando una Gina invecchia, coi complimenti si è costretti a scavare il fondo del barile.”
Gina: s.f. Femmina della specie umana, dotata di grande capacità autocritica e di 50 mila smagliature di interiorità ed esteriorità. Insofferente a qualsiasi attività fisica – che non sia lo shopping sfrenato – e tragicamente affetta da diverse sindrome: da quella di Stendhal o dello stendino a quella della Piccola Fiammiferaia. Tratti particolari: la Gina, generalmente è accoppiata, sposata o impegnata con un esemplare gigiesco.
Quello appena tracciato non è che un sommario identikit della tipica Gina di cui parla Rossella Calabrò nel suo ultimo lavoro: “Cinquanta smagliature di Gina”, edito da Sperling&Kupfer. Dopo aver svelato ‘il lato b della trilogia più hot dell’anno’ (“50 sbavature di Gigio“), in cui descrive l’apparente ‘dramma’ di aver un Gigio per casa, la brillante blogger torna in libreria con una sana dose di umorismo per parlare – da Gina a Gina e da Gina a Gigio – di quelle piccole imperfezioni che ci accomunano e allo stesso tempo ci rendono uniche nel nostro universo femminile. Non è facile scegliere quale smagliatura raccontare, dal momento che sono una più divertente dell’altra; ma sappiate che per ognuna di esse esiste un’unica soluzione. Nessuna arma, infatti, è più potente dell’autoironia per combattere inestetismi, imperfezioni e dilemmi esistenziali. Quante volte ci perdiamo nei meandri della nostra mente, nel tentativo di decifrare quel presunto messaggio subliminale che si nasconde dietro un’osservazione esterna? Basta poco per mandarci in crisi. Per esempio, se un’amica ci trova un po’ stanche, noi pensiamo subito di essere terribilmente brutte. Se il nostro uomo riceve un banale sms, il nostro istinto deleterio ci porta subito alla conclusione che ha l’amante. Se la bilancia ci ‘annuncia’ di aver ‘guadagnato’ un etto in più, ecco che davanti a noi si palesa la triste e tragica (ir)realtà di essere ormai obese e senza alcuna speranza. Alt!!!! Fermiamoci. Ricomponiamoci e resettiamo queste assurde convinzioni.  La speranza c’è, e – come dice, anzi scrive Rossella Calabrò – ‘è l’ultima a smagliarsi’. Basta arrovellarsi la mente e il corpo per compiacere i nostri compagni o mariti. Proviamo a guardarci con altri occhi e a sorridere delle nostre smagliature, dei nostri rotolini di ciccia, delle nostre ‘braccia a pipistrello con conseguente onda d’urto’. Non esiste trattamento più efficace dell’autoironia per renderci irresistibili. In fondo, “quando con un uomo ci sentiamo libere di essere totalmente noi stesse, quello è l’uomo giusto”; e pazienza se il nostro Gigio continuerà a baciarci sugli occhi appena truccati… Ricordate: la perfezione non esiste, anzi come dice Rossella Calabrò: “La perfezione è un’immensa cazzata”.

 

Un libro e gli scaffali. Sui vantaggi degli sconti promozionali, dal produttore al consumatore.

Alberto Gobetti
Tirano (SO) – Non esistono molti studi sul rapporto che intercorre fra reddito e consumo di libri. Fra i pochi disponibili a riguardo, ve ne segnalo uno in lingua inglese, facilmente scaricabile a questa pagina. Tale indagine, riguardante il mercato domestico norvegese, rileva una stretta dipendenza del consumo di libri dal reddito: più questo è elevato, vi si legge, maggiore è la propensione all’acquisto di questo particolare genere di bene d’intrattenimento. Dati provenienti dal mercato svizzero parrebbero confermare in toto quest’analisi: i 7,5 milioni di svizzeri acquistano 40 milioni di libri all’anno (dati 2007) corrispondenti ad un valore di mercato di un miliardo di franchi (830 milioni di euro). In Italia, ove la popolazione è di 8 volte superiore e il reddito medio è inferiore del 40%, si sono venduti nel 2011, 106 milioni di pezzi per un valore di 1.398. Il confronto fra spesa media procapite è eloquente: 110 euro per la Svizzera, 23 per il nostro paese. Notarsi, per altro, che il costo medio per pezzo del libro svizzero risulta assai maggiore che in Italia: 21 euro contro 13. Un pronunciamento referendario ha recentemente bocciato la legge federale che obbligava editori e importatori a fissare il prezzo di copertina. Tale legge, fortemente appoggiata dai librai indipendenti e osteggiata dalle grandi catene, si poneva l’obiettivo di calmierare i prezzi. In Italia, la norma entrata in vigore l’anno scorso ha cercato di regolamentare scontistica e offerte, fissando specifiche condizioni di tempo e di durata per le promozioni. I fautori del libero mercato vi hanno visto una distorsione delle regole della concorrenza, i librai l’hanno salutata come una misura opportuna contro chi ha opportunità finanziarie ed organizzative incommensurabilmente superiori alle loro (in primis, le grandi vetrine di vendita online, Amazon e Ibs su tutte).
La nuova legge è stata accolta con molte remore dai grandi editori. Fra i big, se Mondadori si è mostrata più ligia e rispettosa delle regole, Rizzoli (che comprende i marchi Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Adelphi, Marsilio, Etas, Archinto, Sonzogno e Skira) ha adottato da subito un comportamento spregiudicato, che non è piaciuto all’Associazione Librai Italiani (ALI).
Che è accaduto? Eccolo spiegato in breve.
Molti di voi avranno acquistato l’ultimo Ken Follett, o Jeffery Deaver, o Paolo Coelho, approfittando dello sconto del 25% sul prezzo di copertina. E qualcuno di voi avrà trovato strano una promozione così forte già a partire dal primo giorno di uscita. La cagione di essa è spiegata dalle leggi che regolano il rapporto fra domanda e offerta di libri. Nello specifico, benché l’affermazione non goda di consensi unanimi, pare che la domanda di libri sia piuttosto sensibile alla variazione di prezzo. Uno studio danese risalente al 2000 citato nel documento norvegese sopra riportato stima un coefficiente di elasticità di circa 1,4. Ciò significa che a fronte di uno sconto del 10% il venduto incrementa del 14%. Pare anche che la domanda aggregata sia meno sensibile al prezzo di quanto non lo siano le vendite del singolo titolo. Il che vuol dire che pochi libri promozionati stimolano la domanda assi più di molti libri promozionati. Sulla base di queste constatazioni, la scontistica sulle novità di Rizzoli sembrerebbe destinata a dare un ritorno economico apprezzabile e a tradursi – addirittura – in un incremento del ricavo rispetto alla vendita a prezzo pieno. Ovviamente, tuttavia, l’effetto primario di una tale mossa afferisce alla dimensione dell’immagine, poiché va a stimolare la sottile sensazione di gratitudine che ogni cliente avverte a fronte dello sconto riconosciutogli.
A fronte di tanti vantaggi per compratori e venditori è importante capire perché l’ALI abbia così aspramente criticato la mossa di Rizzoli. Furono i librai sardi, la scorsa estate, a denunciare la campagna sconti intrapresa sul bestseller di Carofiglio “Il silenzio dell’onda”. Come ben spiega l’articolo reperibile a questa pagina il motivo della polemica riguarda il maldestro tentativo da parte di Rizzoli di accollarne il costo ai librai, senza prevedere in loro favore nessuna compensazione. A questo proposito è bene ricordare che su un libro da 19 euro (tale era il prezzo del testo incriminato) il libraio indipendente che goda condizioni di trattamento ordinarie da parte del grossista ha un margine di 5,47 euro lordi (pari al 28,8%), anche se coloro che trattano direttamente con l’editore possono incrementare questo margine di un 5/7% aggiuntivo. Al netto delle spese di porto-imballo e di trasporto (l’una imposta per coprire le spese di imballaggio, l’altra a compenso del vettore), il 29% pocanzi calcolato (o 34/36% come piace) cala fino al 26 (o 31/33). Nell’ipotesi di uno sconto del 25%, quindi, il margine del libraio si riduce a meno del 2% (0,32 centesimi, stando alla nostra simulazione). In pratica, una vendita a prezzo di costo: con massimo vantaggio per l’editore e sacrificio tutto a carico della parte più debole della catena commerciale (con buona pace delle dichiarazioni paradossali e mistificatorie del direttore commerciale di Rcs).
Alla denuncia non si è ovviato con misure compensatorie. I librai che si servono dai grossisti, ad esempio, sono oggi costretti ad acquistare i libri promozionati con sconti del 25% usufruendo di ribassi del costo di acquisto nell’ordine del 9%. Una ripartizione non proprio equa dei sacrifici…
In questo cozzar d’interessi parrebbe emergere un unico vantaggio certo, quello del consumatore finale di libri. Ma è così? Può darsi. Eppure, se si guardano i prezzi di copertina, qualche dubbio viene. La domanda dovrebbe essere: cosa giustifica un esborso di 25 euro per il nuovo Ken Follett? Fintanto che lo si acquista in promozione lo si paga 18,75 ma, terminata quella, il prezzo torna pieno. Mi si dirà che l’analogo americano in hardcover costa 36 dollari: ma è pur vero che nei paesi anglosassoni tale opera è uscita immediatamente anche in brossura, al prezzo di euro 15,90. E non è il costo industriale della copertina rigida ad incidere (in genere il costo s’aggira sull’euro a copia per tirature medie). E’ ovvio che la fissazione del valore commerciale di un bene sconta molte variabili e incorpora valutazioni complesse. Eppure resto convinto che gli alti sconti servano a distrarre l’attenzione dall’eccessivo costo dei beni promozionati.
Una mia opinione, naturalmente.