Un sogno ad occhi aperti: “Il paese del caos”

Silvia Notarangelo
ROMA – Alcuni lo sognano, altri lo temono. C’è chi lo considera un habitat ideale, chi inorridisce soltanto al pensiero. Il caos non mette tutti d’accordo, anzi. Ordine, norme, disciplina fanno parte della nostra vita, ma è innegabile quanto le imposizioni di qualunque genere, siano mal digerite. Cosa potrebbe succedere, allora, se ad essere imposti per legge fossero il caos, il disordine, l’illusoria assenza di regole? Sarebbe un mondo fantastico o, almeno, così deve averlo immaginato Flavia, la piccola protagonista de “Il paese del caos”, il nuovo libro di Marcella Russano pubblicato da Fanucci.

Niente cameretta da sistemare, niente giochi e barbie da mettere a posto, pena la tanto temuta e detestata punizione. Un “sottile ricatto” messo in atto da molti genitori a cui i bambini (non tutti) si piegano più o meno coscientemente. Niente e nessuno può, però, arginare la loro fervida immaginazione. Anche l’autrice si lascia guidare dalla fantasia in un viaggio magico ed entusiasmante, lungo il quale non mancheranno risposte a quei piccoli e grandi dubbi che già si insinuano nelle menti dei bambini.
È un sogno ad occhi aperti, un’avventura piena di insidie e di sorprese, quella in cui si ritrovano catapultate Flavia e Martina, la sua migliore amica.
La “Repubblica libera del caos” le accoglie rivelando tutta la sua stravagante normalità. È un mondo apparentemente alla rovescia, un mondo in cui tutti sono alla ricerca di qualcosa perché non si trova mai nulla e nessuno, per legge, ha il potere di mettere ordine. Per chiunque disobbedisce le porte del carcere sono pronte a spalancarsi.
Il “sottile ricatto”, insomma, si ripete, sotto diverse spoglie, ma con analoghe, odiose conseguenze. Venire a contatto con questa realtà, dominata da regole-non regole e caratterizzata dall’infelicità dei suoi abitanti, si trasformerà in una sfida avvincente per le due bambine, chiamate a superare le loro paure, a battersi per una giusta causa, scoprendo, non da ultimo, un’amara verità: talvolta, le regole, se giuste e condivise, possono servire a qualcosa.

“Adotta una parola” affinché l’italiano sopravviva!

Giulio Gasperini
AOSTA – L’italiano è la dodicesima lingua più parlata al mondo: ragioni culturali, e non certo di diffusione geografica, le permettono di guadagnarsi questa posizione. Ma l’italiano è anche la lingua, tra quelle neolatine, che può contare più lemmi e vocaboli. L’italiano è una lingua poetica, estremamente versatile e piuttosto creativa (avrebbe anche poco bisogno di prestiti esterni, data la sua ricchezza verbale!): e non lo scriviamo per razzismo culturale o preferenza materna, ma perché i dati dicono questo, e noi siamo felici di riportarli e sottoscriverli.
La Società Dante Alighieri, fondata alla fine dell’800 da, tra gli altri, Giosue Carducci, ha sollecitato l’aiuto di quattro tra i più importanti dizionari dell’italiano contemporaneo (il Devoto Oli, il Sabatini Coletti, lo Zingarelli e il Garzanti) per cercare di salvare le parole italiane dall’oblio della dimenticanza e, cosa ancor più grave, della mancanza di utilizzo. Perché si sa che una parola sopravvive soltanto se si usa: altrimenti diventa un polveroso relitto per fare la felicità di qualche remotissimo filologo. Ma la lingua è bella perché usata, perché parlata, perché utilizzata per confrontarsi con la realtà circostante, col mondo, per misurarlo, quantificarlo e significarlo. Chiamare le cose col loro vero nome, con quello storico, magari con l’unico corretto a differenza di altri, è come riscoprire, come riportarle alla luce la prima volta: un rinnovato battesimo che ciascuno di noi ha il potere di compiere. Basta conoscere le parole, basta saperle utilizzare; basta volerlo, insomma.
Ad oggi, le parole adottate sono state quasi 30.000. Basta connettersi a questo sito: http://adottaunaparola.ladante.it/ Alla fine, vi sarà dato anche un attestato, con la vostra parola, e con l’impegno di usarla il più possibile, a ogni occasione (mai a sproposito) per far sì che qualchedun altro si accorga di lei e della sua esistenza. Siamo tutti lì… Io, per via del mio lavoro, ho adottato “rifugiato”, la direttrice “concepibile” (e non ho indagato il motivo)…
Voi, quale? Scrivetecelo!

“Fuga dal paradiso”: come Katrina ha riunito una famiglia

Michael Dialley
AOSTA – Diana Abu-Jaber presenta una nuovo romanzo, edito da Nutrimenti, dal titolo “Fuga dal paradiso”, che ci porta a Miami nel periodo dell’arrivo di Katrina, l’uragano che nel 2005 ha causato la morte di 1833 persone. Storia di una famiglia apparentemente normale: Avis, donna che ha trasformato la cucina di casa in una pasticceria, il marito Brian, avvocato, e i due figli, Felice e Stanley. Tuttavia, una famiglia che risente molto della fuga di Felice, bellissima adolescente, che tutti paragonano a Elizabeth Taylor, ma che a un certo punto sente di non essere amata e capita e decide di scappare, a tredici anni, e di vivere in spiaggia, facendo da modella per tatuaggi.
Avis risente più di tutti di questa assenza: ricorda spesso la sua, di madre, così intenta a leggere e studiare tanti scrittori e intellettuali – tra cui Dante, Hegel e Voltaire – da lasciare costantemente la figlia senza nulla da mangiare; tanto che, per questo, Avis inizia ad accostarsi alla cucina, e in particolare alla pasticceria, come reazione opposta a questo trattamento materno nella sua infanzia.
Un dramma si consuma quindi all’interno di questa madre che, unito al dolore anche del marito e del figlio, porta la famiglia ad un graduale sgretolamento, a un lento ma inesorabile allontanamento; seppur nella drammaticità e nella catastrofica forza, l’uragano Katrina riesce, alla fine, a riavvicinare queste persone, ormai quasi sconosciute le une alle altre, facendo riemergere l’amore familiare perduto cinque anni prima.
L’autrice utilizza questo contesto perché lei era proprio a Miami quando l’uragano è arrivato ed si è sorpresa di quanto questi eventi tragici siano in grado di riavvicinare persone e porre rimedio a situazioni apparentemente irreparabili: e questo lo sappiamo anche noi, lo sanno anche tutti gli italiani che hanno vissuto gli ultimi catastrofici terremoti, le alluvioni dello scorso anno che hanno distrutto luoghi stupendi, oltre che le case di tantissime persone.
E colpisce questa grande contraddizione espressa anche nel romanzo: le famiglie e le persone sono più interessate al successo, alla carriera, ai soldi, a tutto ciò che porta al giovamento fisico ed all’affermazione nella scala sociale, perdendo però di vista i veri valori, quelli che permettevano fino a qualche decennio fa di mantenere la famiglia unita e piena di amore ed affetto, ma che poi durante avvenimenti tragici, catastrofici, permeati di dolore, paura e morte si riscoprono, quasi a voler chiedere perdono di anni di sofferenze, quasi a chiedere un’ultima assoluzione nell’eventualità più buia.
Nell’individuo, questo aspetto è una costante: non si comprende davvero fino in fondo ciò che si ha fino a quando non si è sul punto di perdere tutto.

Le professioni amiche dell’ambiente in “Guida ai green jobs”


Silvia Notarangelo

ROMA – Il monito lanciato poco tempo fa, “50 mesi per salvare il pianeta”, fa davvero paura. Perché non si tratta di uno dei tanti allarmi, purtroppo, sistematicamente ignorati (o quasi). È un vero e proprio ultimatum, un grido disperato per scongiurare un pericolo che si fa sempre più concreto e drammaticamente vicino. La terra è arrivata al limite. Mai come ora, occorre intervenire e farlo al più presto, perché il sistema si sta rapidamente avviando al collasso. La questione ci coinvolge tutti da vicino, ognuno con il proprio bagaglio di piccole o grandi responsabilità. L’attenzione e l’interesse per il tema devono essere alti. Per fortuna, opportunità concrete e progetti importanti non mancano, come emerge anche dall’interessante ed accurato saggio “Guida ai green jobs”, scritto da Tessa Gelisio e Marco Gisotti per Edizioni Ambiente.
Un testo prezioso, un’analisi ampia e articolata che si avvale dei numerosi contributi raccolti dai due autori e che abbraccia moltissimi comparti produttivi: dalle energie rinnovabili alla mobilità sostenibile, dall’ecofinanza alla green fashion. Attraverso le risposte di imprenditori ed esperti del settore, si delinea un profilo dettagliato della green economy italiana: che cosa significa oggi puntare sul verde, quali sono i profili professionali più ricercati, quali le sfide da affrontare e gli aspetti da migliorare. La parola d’ordine è efficientamento, ovvero “riduzione dei consumi energetici e più in generale di materie prime, ottimizzazione dei processi produttivi, creazione di modelli di consumo e risparmio”.
Una riflessione, però, è d’obbligo: se alcuni settori, come quello edilizio e chimico, fanno registrare incoraggianti segnali positivi, in tanti altri siamo appena all’inizio di un percorso lungo e certamente non facile, che necessita di scelte coraggiose e di nuove professionalità. E allora, di che cosa devono occuparsi e quale formazione è più indicata per quanti intendono intraprendere un lavoro green? Tra professioni ormai diffuse e consolidate, si inseriscono alcune interessanti novità. Per gli amanti del mare, si può contribuire attivamente alla salvaguardia del Pianeta in veste di bagnini sostenibili. Ma ci sono buone prospettive anche per amministratori di condominio con il pallino della sostenibilità, per ecovigili, disaster manager, wedding planner sensibili all’ambiente e al portafoglio.
Dunque, come dimostrano i due autori, le possibilità sono numerose. L’importante, ora, è prestare attenzione affinché “l’onda verde che sta spazzando il paese non si infranga contro interessi antichi e una politica cieca”.

Dalla realtà al palcoscenico. Adriano Marenco racconta “Il pasto degli Schiavi”

Alessia Sità

ROMA – Dopo il romanzo breve “La palude e la balera”, Adriano Marenco racconta ai lettori di ChronicaLibri la sua ultima fatica letteraria: la piéce teatrale intitolata “Il pasto degli schiavi”. Il lavoro appartiene alla collana teatrale, “Scenamuta” edita da Edizioni Progetto Cultura, della quale l’autore si occupa come direttore artistico.
Come nasce “Il pasto degli Schiavi”?
In gran parte per caso. Una di quelle situazioni che non sai mai dove finisce la casualità o dove comincia il destino. Dovevo fare un altro spettacolo. Già si era avanti con le prove. Un paio di settimane prima della prima l’attrice ha dovuto rinunciare. Ovviamente è stata bruciata viva. Insomma mi trovavo solo con l’attore. Allora ho cominciato a rielaborare il pezzo per farne un monologo. Provare a salvare capra e cavoli. E mi sono trovato in mano un testo che raccontava tutto quello che sentivo di dover dire sul tema del potere in quel momento. Ma quel momento è valido in ogni tempo. È stata un’esplosione. Ha letteralmente fatto bum. È sgorgato. Tutto il sedimentato interiore di anni è traboccato fuori. Non vedeva l’ora. Come punti riferimento, oltre a quello evidente, ci sono Trujillo, Caligola e Sarah Kane, Thomas Bernhard, Ho cercato di dire tutto quello che avevo sullo stomaco. E’ un monologo forte condensato, tra la preghiera e l’imprecazione.
La condizione di degrado esistenziale descritta in questa piéce si riallaccia in qualche modo alla condizione disumana ampiamente affrontata nel tuo romanzo breve “La Palude e la Balera”?
Il potere è il pasto degli schiavi, esattamente come il cecchino il pasto dei resti umani della palude. In un qualche modo il potere e il cecchino sono due facce della stessa medaglia. essi sono il padrone di quegli altri. Ma in fondo quegli altri lo vogliono. Non saprebbero farne senza. Questo degrado che tu dici è il tessuto del nostro tempo. Quindi è inevitabile che si rifletta nei miei scritti. Il pasto è una vivisezione del potere e soprattutto, e questa è la parte che più mi inquieta, di come il potere sia in qualche modo, oscuro ma imprescindibile, contagioso. Di come il carnefice si attacchi dentro di noi. Per attrazione. Il potere che ci marcisce dentro richiama e vuole quello esterno. Siamo noi che lo cibiamo. Siamo noi che ci cibiamo.
Qual è il vero significato del continuo gioco di buio e luce?
Il gioco buio-luce è solo un entrare e uscire dalle sbarre e da noi stessi. E’ un altro modo per indicare lo scambio tra due cause ed effetti che non possono fare a meno l’un dell’altro. Insomma il carnefice non esisterebbe senza la vittima e viceversa.
Come mai hai scelto il genere del monologo e non hai optato per un faccia a faccia fra il potere e gli schiavi?
Servivano due attori per un faccia a faccia! La verità è che avrei potuto usare uno specchio. Anzi potrebbe essere un’idea per un prossimo allestimento. Il potere è lo schiavo e viceversa.
Perché proprio il potere? Pensi che sia quello il vero male della nostra società?
Il potere non è il problema principale. Il potere è. E’ ineludibile. È le fondamenta della nostra civiltà.
L’uomo in gabbia è la metafora di chi si rinchiude nel proprio apparente benessere protetto dalla ‘sporcizia’ sociale o è il vero ‘schiavo’ del potere che non ha il coraggio di ribellarsi alla logica di un sistema corrotto e spietato?
La gabbia deve permettere di uscire. Le sbarre non possono essere troppo strette. Perché il potere non è ingabbiabile. Lui è talmente forte che può tranquillamente affermare che è lui che si protegge, ma ovviamente come lui può uscire gli altri possono entrare. Egli però è talmente convincente che lui può uscire ma gli altri non arrivano all’evidenza di poter entrare. Lui è già dentro di noi. Così come la sporcizia  fuori è lui stesso. Pervade ogni cosa. Stiamo parlando in un certo modo, evidentemente, di dio. Di una proiezione distorta e ingannevole. Come le scimmie. Credo siano l’imitazione trionfante della vita. Sfacciate. Pulciose. Orgogliose di esserlo. C’è in effetti un mucchio di ciccia al fuoco.
Progetti per il futuro?
Tra pochi giorni andrà in scena un mio testo nuovo, “Jansi, la Janis sbagliata”. Un monologo quasi cantato su Janis Joplin. E dato che non sia mai che faccio qualcosa appetibile al pubblico, è senza neanche una canzone. In compenso è davvero una partitura per voce e basso. È praticamente un concerto. Un concept album di interiora di Jansi. Quando seguo le prove lo faccio ad occhi chiusi. Muovendomi come ballassi dentro. Meglio solo dentro che sono una frana. Mi preme per chiudere, dire che “Il pasto degli schiavi” è il primo numero di una collana teatrale della quale mi occupo come direttore artistico. “Scenamuta” edita da Edizioni Progetto Cultura. Sono già stati pubblicati talenti veri del teatro. Affermati e altri nascenti come Fabio Massimo Franceschelli con “Veronica”, Dario Aggioli con “Autore chi guarda” e Silvia Pietrovanni con “Bada-mi”.
Tre parole per definire “Il pasto degli Schiavi”?
Le scimmie scorrazzano.

 

L’Amantide: una donna e la sua missione


Silvia Notarangelo

ROMA – Dopo “Diecipercento e la Gran Signora dei tontiAntonella Di Martino presenta ai lettori di Chronicalibri il suo nuovo, intenso e spietato racconto, pubblicato nella collana Atlantis di Lite Editions.

“L’Amantide”, una storia dal titolo affascinante che racconta…

Racconta diverse storie, condensate in una.
C’è la storia di una donna che ha deciso di trasformare la sua rabbia e i traumi della sua infanzia in un lavoro, che è anche una missione.
C’è la storia di una famiglia infelice, arrivata a un punto di non ritorno.
C’é la storia di una moglie e madre che ha deciso di cambiare il suo destino con un mezzo insolito.
C’è la storia di un omuncolo, una creatura che vive in un piccolo senza speranza, un luogo triste in cui rinchiude le persone che gli vivono accanto.
C’è la storia di una breve vacanza, che inizia come un sogno e termina con una brusca caduta.
Infine, ultimo ma non meno importante, c’è il cuore di Nizza, la sua atmosfera, i suoi profumi, i suoi colori.

Suggestioni e fonti di ispirazione?

L’omuncolo letterario si ispira a un omuncolo conosciuto personalmente anni fa. Era il patrigno di una mia amica, la quale mi raccontava spesso le “fisime” che infliggeva alla famiglia. Lo ricordo come una delle persone più odiose che io abbia mai incontrato. Non è la prima volta che mi sono ispirata alla sua personalità, per arricchire le caratteristiche dei miei personaggi più grotteschi.
L’Amantide non l’ho mai conosciuta. L’ho costruita un pezzo alla volta: ho preso in prestito le parti più rabbiose, inquietanti e distruttive della mia immaginazione; ho aggiunto alcune caratteristiche raccolte qua e là dall’immaginario collettivo; sono stata attenta a conservare le contraddizioni; ho ritagliato le parti in eccesso e ora l’Amantide vive di vita propria.

Tre aggettivi per descrivere L’Amantide

Folle, razionale, tagliente (sorride ndr).
Dell’Amantide apprezzo soprattutto i contrasti. È una criminale, ma ha una scala di valori tutta sua, costruita con razionalità impeccabile e lucidissima follia. Il suo lavoro è vendetta, ma anche missione, rivincita, piacere. Si intuisce che il mondo le ha fatto molto male: un male che lei tenta di restituire con garbo, selezionando i bersagli giusti. Il suo sguardo, incisivo come i punteruoli da ghiaccio e tagliente come una lama, coglie gli aspetti migliori e peggiori della vita che incontra.
L’Amantide rispetta con scrupolo le sue regole, ma cerca anche uno spazio per conquistare pezzi di vita liberi dal dolore e dal lavoro: cerca di adeguarsi senza adattarsi, di strappare i fiori più profumati che sbucano in questa valle di lacrime.

La sua lettura è rivolta a…

A chi ha il gusto per l’insolito e le tinte forti, ma non per la volgarità; a chi ama le storie sensuali che vadano oltre i sensi; a chi non ha paura di sbirciare negli angoli più nascosti di quella che chiamano realtà.

“Il pasto degli schiavi”: il monologo esistenziale di Adriano Marenco

Alessia Sità

ROMA –Un uomo in gabbia. Una gabbia con le sbarre larghe. Ci si può passare senza problemi. Egli non può avere problemi a passare.
Si apre così “Il pasto degli schiavi”, l’ultimo lavoro di Adriano Marenco pubblicato da Edizioni Progetto Cultura. In una continua alternanza di buio e di luce, ha inizio il monologo dell’autore, incentrato su una condizione umana ed esistenziale ai limiti del grottesco. Non siamo molto lontani dal degrado già descritto da Marenco nel suo precedente romanzo breve: “La palude e la balera”.
Al centro della piéce è il potere in tutte le sue sfumature. La scelta del soliloquio non è casuale, ma quasi necessaria per rendere bene l’idea di come il potere non sia in grado di instaurare un dialogo oltre se stesso. Dall’altra parte, ci siamo noi, “le scimmie”, spettatori quasi impotenti della miseria e dello squallore del nostro paese. Marenco porta alla ribalta una triste realtà, quella costituita essenzialmente dai più deboli, dai ‘poveri’ costretti a “strisciare” dappertutto. L’umanità che “striscia per un’opportunità”. L’uomo che nella didascalia iniziale è chiuso in una gabbia non è stato confinato brutalmente. Sceglie di restare nella propria prigione dorata, protetto dal mondo, in quanto consapevole di quello che c’è sulla terra: solo “untume e resti umani”. “Noi siamo sani e dobbiamo proteggerci dobbiamo proteggere la nostra famiglia la nostra famiglia la nostra famiglia e perciò ci rinchiudiamo sempre di più (…) dobbiamo comprare e comparire e infilarci nelle nostre ville bunker almeno chi se le può permettere. Ma anche una gabbia va bene. Che ci protegge dalla sporcizia di fuori”.
Con un linguaggio forte e a tratti surreale, Marenco porta in scena la triste realtà di un paese, il nostro, logorato dalla mancanza di moralità, in cui tutte le anime sono barattate per un nulla. Un paese in cui “un’anima vale meno di una crosta di pane’.

 

“Come leggere un libro”: i preziosi consigli di lettura di Virginia Woolf

Alessia Sità

ROMA“Il lettore comune, come suggerisce il dottor Johnson, differisce dal critico e dallo studioso. E’ meno istruito, e la natura, quanto a talento, non è stata così generosa. Legge per il proprio piacere e non per impartire conoscenza o correggere l’opinione altrui.”
Così scriveva Virginia Woolf (1882-1941) – una delle più grandi icone letterarie del Ventesimo secolo – nel prologo a “The Common Reader. First Series, 1925”.
Per carpire ogni piccolo segreto su come il lettore dovrebbe approcciarsi alla lettura di un testo, Passigli editore ha pubblicato “Come leggere un libro”, una piccola preziosa guida. La raccolta è costituita dal prologo al saggio ”Come si dovrebbe leggere un libro?” – testo originariamente pensato come conferenza per una scuola femminile e poi pubblicato sulla “Yale Review” nell’ottobre 1926 e inserito in “The Common Reader. Second Series, 1932 – e da “Che effetto fa un contemporaneo”. Quest’ultimo apparve sul “Times Literary Supplement” il 3 aprile 1923 e solo dopo qualche revisione venne pubblicato in “The Common Reader. First Series, 1926.
Con grandissima attualità e accuratezza, Virginia Woolf descrive e spiega l’ambiente letterario. La lettura di un romanzo non è mai un atto semplice, ma richiede sensibilità, fervida immaginazione e capacità di confronto con le passate esperienze. Avere un termine di paragone è fondamentale per poter gettare le basi del nostro giudizio in previsione delle opere future. Non sempre, però, il “lettore comune” dispone di strumenti adeguati per comprendere testi particolarmente complessi, un esempio citato dalla scrittrice è “Ulysses” di James Joyce, pubblicato proprio in quegli anni. Infine, riferendosi ai contemporanei Viriginia Woolf scrive: “La nostra è un’epoca di frammenti. Alcune strofe, alcune pagine, un capitolo qua è là, l’inizio di questo romanzo, la fine di quello corrispondono al meglio di qualsiasi epoca o autore. Ma davvero possiamo passare alla posterità con un fastello di pagine sciolte, o chiedere ai lettori del futuro, con tutta la letteratura di fronte a loro, di separare con il setaccio le minuscole perle dai nostri cumuli di spazzatura?”. Arriverà il momento in cui il lettore, un tempo amico dello scrittore, si trasformerà in giudice e condannerà tutti quei libri poveri intellettualmente. Con estrema delicatezza e acuta lucidità, Virginia Woolf propone idee e suggerimenti su come ogni lettore possa scegliere in totale libertà cosa leggere, seguendo semplicemente il proprio istinto e tralasciando qualsiasi altro giudizio che non sia quello personale.

 

“Le confessioni di Noa Weber”. Gerusalemme diventa Manhattan

Marianna Abbate
ROMA – Una carriera di successo, la fama e il benessere. Una vita passata tra l’elite culturale di Gerusalemme, mille amori e una figlia. Sembrerebbe quasi la trama di un telefilm americano.

E invece è un libro, “Le confessioni di Noa Weber” e tutto si svolge a Gerusalemme. Come è facile immaginare l’ambientazione stravolge completamente la visione del romanzo e con essa la vita della protagonista. A partire dal fatto che ha dovuto sposarsi giovanissima per evitare il servizio militare (questo non sarebbe mai potuto succedere a New York).

Eppure i sentimenti sono gli stessi in tutto il mondo e l’amore adora fare scherzi inopportuni. Così Noa, la donna amata e ammirata da tutti, è schiava di una storia antica- di un amore finito e forse mai iniziato.

Quello studente anarchico, quel giovane promettente che l’ha sposata per solidarietà sociale ed è subito sparito dalla sua vita, è entrato nei suoi sogni, nei suoi pensieri e nel suo ventre. Perché quella figlia, così bella, non fa che ricordarle ogni giorno l’uomo perduto.

E non servono a nulla gli uomini che passano per caso dal suo letto, se non riescono ad aprire il suo cuore. Tra flash back e quotidiano riviviamo passo dopo passo i fatti e le sensazioni che l’hanno portata ad un oggi nostalgico e agguerrito. Noa non si arrende: aspetta ogni istante il momento del ritorno di quel ragazzo, ormai adulto, che le ha rubato il sonno tanto tempo fa. Un amore che diventa ossessione, pensiero fisso- martellante.

Capitoli brevi, sussultori- un paio di pagine appena, molti dei quali portano il nome di Alek, quasi a scandire il tempo passato lontano e quello passato insieme- fosse anche solo nei pensieri.

Una narrazione emotiva e coinvolgente che ha fatto di Gail Hareven una scrittrice pluripremiata tra Israele e Stati Uniti. E ora grazie a Giuntina, possiamo leggerla anche in Italia.

 

ChronicaLibri ha intervistato Veronica Elisa Conti, autrice de “Le nebbie di Vraibourg”

Alessia Sità

ROMA – ChronicaLibri ha intervistato Veronica Elisa Conti, autrice de “Le nebbie di Vraibourg” edito da MUP. La giovane e brillante scrittrice racconta come è nato il suo primo romanzo – vincitore nel 2011 del prestigioso Premio Luigi Malerba di Narrativa e Sceneggiatura – svelando i retroscena di un lungo lavoro nato dall’amore e della passione per la letteratura francese e inglese e non solo.
Cosa ha ispirato “Le nebbie di Vraibourg”?
In questo lavoro, che per me è il primo in assoluto, confluiscono tutti gli autori, i luoghi, le opere che ho amato, sognato, letto e riletto. Il gioco dei nomi riconduce alla tradizione letteraria francese e inglese del Romanzo Gotico, ma ci sono dei testi a cui mi sono riferita come una vera e propria documentazione. Innanzitutto l’amato “ Il ritratto di Dorian Gray “. Ho immaginato che la madre del “mio” Dorian avesse letto questo capolavoro e, consapevole della bellezza del figlio, l’avesse così nominato. Il grande Dorian Gray vive un’evoluzione dall’innocenza al piacere senza coscienza, sino all’orrore per se stesso e il contrappasso della morte. Dorian Des Essarts è portatore di bellezza, ma non la cerca, si crede libero, ma la sua presunta libertà è data solo dalla paura che suscita. Finita questa, anche lui rimane prigioniero dello squallore della vita. Altri due titoli sono stati per me fondamentali. “ Il calore del sangue “ di Irène Némirovsky , il cui  ritratto della profonda provincia francese, delle sue meschinità, di quel passato che perseguita il presente mi ha condotto per mano in ogni parola. Infine il meraviglioso “Thérèse Desqueyroux” di Mauriac. Come nel libro di Irène Némirovsky, siamo immersi nella provincia della Francia che tanto amo. Mauriac riesce a far amare la figura di Thérèse , carnefice e vittima, persa tra i sogni e i suoi pini secolari. Una grandissima opera dallo stile moderno, immediato, che suscita mille interpretazioni, il cui finale aperto ci porta a nuove domande, come nella vita. Potrei citare ancora mille opere, immagini e suoni, ma credo e spero che ciascun mio lettore possa trovarli da solo e dare una sua personale risposta.
Il tuo romanzo ha vinto nel 2011 il Premio Luigi Malerba di Narrativa e Sceneggiatura. E’ una bellissima soddisfazione. Secondo te, qual è stato il vero punto di forza del tuo lavoro?
Credo la consapevolezza di quello che stai facendo, di chi sei e chi non puoi ancora essere. Ho cercato, seppur nel mio piccolo, di essere me stessa, riconoscendo con quanta più obbiettività, le mie caratteristiche e potenzialità. Questo mi ha portato a una scrittura personale, nata dalla scuola delle mie numerose letture, ma anche dal sincero riconoscere quanto lungo possa essere il proprio passo.
Leggendo “Le nebbie di Vraibourg” mi sono completamente immersa nell’atmosfera gotica che avvolge il mistero del Castello della Guyenne e dei personaggi che vi abitano. Sei appassionata di letteratura gotica? C’è un autore in particolare che ha determinato il tuo approccio a questo genere letterario?
La Letteratura Gotica di stampo settecentesco, romantico sino a quella del Novecento mi ha appassionato in tutte le sue declinazioni. Potrei citare , andando alla mia libreria, autori dai più celebri a quelli di nicchia  che ho amato e che mi hanno fatto tremare. Tra di loro c’è una  grande Signora del Novecento che mi ha ispirato: Dafne  du Maurier. Personalmente ritengo il suo lavoro gotico, come si può vedere nel suo romanzo più famoso “Rebecca la prima moglie”: il castello, i segreti, l’abile gioco di manipolazione psicologica, portano ad uno stato di tensione che, pur non presentando componenti surreali, sono propri dell’anima nera del Gotico. Poi ci sono i suoi bellissimi racconti: “ Non voltarti ” , “Monte Verità“ , “Il melo“ , “Il piccolo fotografo“ , “L’alibi“ , dove la paura s’ingigantisce in forme inaspettate, surreali e magnetiche, predette da una vecchia indovina o nascoste sulla vetta di un’ impenetrabile montagna. Infine nel romanzo “ Il capro espiatorio “ la realtà della vita dei personaggi, abitanti di un castello francese, è abilmente tagliata in mille sfaccettature che portano il lettore a riflettere sulla natura umana.  Per questo amo Dafne du Maurier: una grande scrittrice, una signora della tensione e dell’insinuazione, maestra nel presentare le maschere della realtà.
I personaggi che popolano il tuo romanzo sono molto ben delineati. Qual è stato quello più complicato da descrivere e in un certo senso da ‘animare’?
E’ stato Etienne.
Ho cercato di rendere credibile sia la sua ingenuità iniziale sia il bisogno di affetto e stabilità che lo immobilizzano in uno schema prestabilito da altri. Mentre scrivevo mi dicevo: “io farei proprio diversamente“ . Ma io non sono in miei personaggi. Pensavo alla sua infanzia,  al suo forte desiderio di stabilità affettiva e anche al contesto temporale in cui viveva. E’ forse il personaggio  per me più difficile da giudicare : avrei voluto da lui più forza, più durezza. Ma Etienne non è così. Non potevo fare diversamente.
Durante la costruzione dell’intreccio narrativo, c’è stato un momento in cui ti sei ritrovata a dover tornare sui tuoi passi per poter garantire al lettore il finale decisamente inaspettato?
Fortunatamente no. Ho cercato di creare con cura un’ “impalcatura“ narrativa che sostenesse bene il gioco in maschera dei personaggi. Sin dal principio ho avuto chiara la fine, o meglio, è proprio dalla fine che ho ricostruito ogni singolo passo della storia. Una tela tessuta a ritroso, ma così ho evitato i nodi.
Cosa vuol dire per te scrivere?
Scrivere è per me avere una seconda vita, quella circolare delle parole. E’ costruire una nuova realtà, ma anche trasporla su carta seguendo non le tue leggi, ma le sue. E’ conoscere intimamente ciascun personaggio e guardarlo fino a renderti conto che anche lui guarda te e che, anche se tu lo hai creato, non ne conosci il più profondo segreto. E’ costanza, esercizio, disciplina, ma soprattutto necessità.
Tre aggettivi per descrivere “Le nebbie di Vraibourg”.
Ambiguo
Ironico
Vendicativo