Silvia Notarangelo
ROMA – Salvatore Marchese è giornalista attento e scrupoloso come conferma nel suo ennesimo lavoro “Cucina di Lunigiana”, pubblicato da Franco Muzzio Editore.
ROMA – Salvatore Marchese è giornalista attento e scrupoloso come conferma nel suo ennesimo lavoro “Cucina di Lunigiana”, pubblicato da Franco Muzzio Editore.
Se, soffermandovi sul titolo, vi sembrasse un classico libro di ricette, dovreste ricredervi in fretta. Perché “Cucina di Lunigiana” è anche un libro di ricette, ma è, soprattutto, altro.
È una guida accurata, documentata, ricca di testimonianze storiche e aneddoti, in grado di smentire la comune definizione di cucina povera, attribuita abitualmente alla tradizione culinaria della zona. Il cibo è, nella Lunigiana (zona tra la Liguria e la Toscana), elemento imprescindibilmente legato alle risorse locali e, nelle sette sezioni del libro, nulla viene trascurato: l’origine di alcuni alimenti, la loro lavorazione e gli strumenti utilizzati, la diffusione e le varianti con le quali si presentano.
Un ruolo importante è ricoperto dal castagno, vero emblema di tutto il territorio, il cui apporto è risultato, nel tempo, fondamentale. Tagliatelle, castagnacci, frittelle sono solo alcuni dei piatti che sfruttano a pieno le potenzialità delle castagne, da cui si ricava una farina, proposta a lungo, come unica sostituta di quella di frumento. La scarsa reperibilità del grano, fonte di sostentamento puramente occasionale, non ha, tuttavia, impedito l’affermarsi di una solida tradizione, legata, ancora oggi, alla preparazione di testaroli, focacce lievitate e polente incatenate.
Ritenuta da sempre cibo per signori, la carne trova spazio in significative attestazioni che ne confermano la scarsa accessibilità: manzo e vitello erano prerogativa di pochi, per quanti vivevano nella campagne la carne era quella del coniglio o, in alternativa, del pollo. Insostituibile quella di maiale, un vero e proprio toccasana per la produzione di insaccati, carni da salare, lardo e trippa.
Una positiva accoglienza, a partire dal XV sec., viene inoltre riservata a baccalà e stoccafisso, ben presto associati alla polenta di granoturco, e, successivamente, a patate, pomodori e melanzane, la cui introduzione non ha, comunque, pregiudicato l’uso delle preziose erbe spontanee destinate al ripieno di torte e ravioli.
I dessert, con l’immancabile spongada, un “miscuglio a base di frutta secca e canditi”, e i liquori, tra cui spiccano il nocino e il rosolio, concludono una guida capace di stupire per la
sua originalità e trasversalità.