"Libro di Ipazia": in un mondo che cambia chi sa distinguere il tramonto dall’alba?

Giulio Gasperini
ROMA –
La verità più profonda è quella che pronuncia Sinesio: ha il sapore (l’ombreggiatura) d’una profezia che, a distanza di secoli, si sta compiendo anche nei nostri miserrimi anni Zero: “Quando si è in alto mare la luce del tramonto e quella dell’aurora non sono molto dissimili. Non so bene distinguere”. Come a voler dire che, in epoca di transizioni, quella che pare la fine potrebbe essere l’epilogo ma potrebbe ben essere pure l’inizio di qualcosa d’altro. Ed è proprio questa indecisione, questo dubbio feroce, che Mario Luzi ha voluto indagare, in questa sua raffinata opera, “Libro di Ipazia”, edita da Mondadori nel 1978.


Ipazia è donna combattiva, che non depone l’unica arma a sua disposizione – la parola, ovviamente – per esortare e convincere i suoi concittadini a non lasciarsi travolgere da un cambiamento incombente e preoccupante, inquietante. Ipazia sfida le folle cieche di violenza e sprezzanti del ragionamento, impavida sa che l’ora è compiuta e che i sofismi non son più validi: adesso c’è solo da impugnare il proprio volere e conquistare il rispetto di sé.
Ipazia si immola, su un prevedibile altare: verrà assaltata dalla folla e smembrata al centro di una Chiesa, come fosse un novello Cristo pagano. Lei difendeva la cultura ellenistica, erede legittima della cultura classica, in una città, Alessandria, che rinnegava il suo passato vivace e stimolante per soccombere a ondate di invasioni, più o meno pacifiche (“Ah città morente, città crepata nelle fondamenta, come ti divincoli nell’agonia credendoti viva”): prima la religione cristiana, che si edifica su quella classica, e poi i barbari, che distruggono e poco ricostruiscono (“Dappertutto c’è divisione: tra ciò che si muove e ciò che sta, tra ciò che si disgrega e corre verso la gola spalancata e buia del futuro e ciò che si aggrappa alle macerie per resistere”).
Ogni epoca ha i suoi cambiamenti, e ogni cambiamento fa paura, scuote le coscienze, allunga le ombre dell’inquietudine e dell’apprensione (“Non ci sono leggi che impediscano e neppure leggi che proteggano. Non ci sono leggi affatto. C’è solo chi fa la legge”). Dove porterà la mutazione, dove sarà l’approdo per una nuova rotta che non conosce nocchiere né stella a orientare?
Mario Luzi è un cesellatore del ragionamento, è un attento collezionista della parola. Non c’è un solo termine che non sia giustificato, non c’è un solo ragionamento che abbia un cedimento. Non c’è un solo personaggio che dica più del necessario, più di quello che è consentito dalla storia, dalla geografia, dalla religione.
C’è poi chi, come Sinesio, vive la conflittualità d’una vita precedente rinnegata e d’una nuova abbracciata senza troppa convinzione: dove andare? Che fare? Quale deviazione prendere? (“Lo stato delle cose muta e mutano i nostri giudizi sinceramente talvolta, più spesso per necessità”). Domande antiche, remote; ma che, a ogni crisi, si ripropongono e, per questo, sono sempre fin troppo attuali.

"Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita": un volto per tutti quelli che non disturbano la Storia.

Giulio Gasperini
ROMA –
Sono molte le latitanze per non disturbare la Storia: Elsa Morante, ad esempio, lo dimostrò e documentò magistralmente in quel capolavoro che intitolò, non casualmente, “La Storia”. Negli anni del ribattezzato “secolo breve” uno dei modi coatti, più vergognosi e turpi, nel quale violare e sacrificare le individualità, fu il manicomio. Tutto questo prima della legge 180/78, la legge Basaglia, che chiuse tali “istituti” col nobile proposito (ahimè, mai perseguito né realizzato) di accudire e seguire i presunti “malati” in altri contesti e in altre forme di socialità. Poche sono state le voci che, dall’inferno di codesti istituti, si sono sollevate e sono giunte a ripristinare e riconfermare una liricità d’esistenza, una fiera (e, in molti casi, lucida) cognizione del sé. Adalgisa Conti è una di queste voci: sua è una lettera, di spietato autobiografismo, datata 25 marzo 1914, e pubblicata nel 1978 da Gabriele Mazzotta Editore, che si apre con queste limpide parole: “Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita”.


Quasi sempre, infatti, i documenti che han riportato in vita quest’umanità dolente, questi uomini e donne di dolore, sono lettere, ritrovate un po’ per caso un po’ per sbaglio nei mucchi di materiale e di documentazione studiato, con coraggio e passione, spesso solamente da associazioni interessate a un recupero memoriale che non fosse solamente pura curiosità morbosa, ma consapevole resurrezione e redenzione di coscienze (le nostre, prima che le loro). Lettere che testimoniano quanto la scrittura fosse sentita dai “pazienti” come mezzo per preservare intatta la propria vita.
Un privilegio, quello di essere “alfabeta”, che pure Adalgisa scontò come una punizione, cercando di trovare nelle parole il suo affrancamento: dalla stesura della lettera, infatti, appena internata, trascorsero più di sessant’anni, nei quali Adalgisa tornò a essere di nuovo una lunga lista di appunti su una cartella clinica (e quasi tutti che la indicavano come “invariata”).
La vicenda di Adalgisa Conti è simile a quella di molti altri uomini e donne, i quali, come è scritto nell’Ecclesiastico, “svanirono come se non fossero esistiti; furono come se non fossero mai stati”. Molti, nelle loro lettere, chiedevano ai familiari di andare a trovarli, perché non riuscivano a capire la ragione della loro segregazione, della loro esclusione dal mondo.
Simone Cristicchi ci ha presentato, nel suo album “Dall’altra parte del cancello”, un certo Gottardo, che scrisse alla moglie, dal manicomio di Volterra: “È già diverso tempo che io mi trovo in questo manicomio ricoverato […] Non potete immaginare quanto brami di tornare a Cecina, che qui mi par d’essere in esilio”. La giovane Adalgisa, invece, chiese alla madre: “Devo aver fatto dei gran mali al mondo non è vero mamma?”; con uno sbigottimento che spezza il cuore.

"Sia dato credito alla poesia", ovvero come si allacciano realtà e interiorità.

Giulio Gasperini
ROMA –
Tutti noi, generalmente, ricordiamo qualche Premio Nobel, soprattutto della letteratura: sia perché qualcheduno lo studiamo pure a scuola, sia perché è il Premio, tra i tanti, forse più accessibile, più immediato. Il giorno dopo, entrando in una libreria, ci troviamo già sommersi dai titoli dello scrittore vincitore pubblicati in traduzione, decorati con fascette e richiami luccicanti da casinò. Non so, però, quanti di noi sanno che ogni premiato, durante la cerimonia, deve tenere un discorso: e che tali discorsi, in molti casi, son diventati opere illuminanti, frammenti di grandezza, umana e/o poetica, assolutamente imprescindibili per conoscere meglio un autore e la sua produzione intera. È il caso del discorso del Premio Nobel del 1995, il poeta irlandese Seamus Heaney, che lesse un appassionato testo intitolato (in traduzione) “Sia dato credito alla poesia” (Archinto, 1997).


Se Montale, trent’anni esatti prima (era il 1975), ritirò il premio chiedendo provocatoriamente a sé stesso e al mondo se la poesia avesse ancora un ruolo nella società, Heaney rispose non solo affermativamente ma con grande decisione e senza nessun tentennamento: la poesia ha un ruolo fondamentale, una funzione imprescindibile. L’uomo non può progredire senza la poesia; non può definirsi tale, l’uomo, né pensare di poter sviluppare le sue capacità più sane e meritevoli, senza confrontarsi con la parola poetica. Perché la parola, per Heaney, ha una funzione reale, concreta, deittica: di relazione, ovvero, diretta con la realtà, col mondo vissuto, coll’umanità che giornalmente, praticamente, si trova a vivere e a sopravvivere. La Poesia, “onesta e fedele” (come anche sostenne Saba), ha “pietà del pianeta”, perché riesce a “creare un ordine fedele all’impatto della realtà esterna e rispondente alle leggi interne dell’essere del poeta”. La poesia è, infatti, “nave e ancora”, riuscendo, nello stesso istante, a rispondere in maniera compiuta e degna a due esigenze profonde (e dolorose) dell’uomo e dell’umanità intera: “Il bisogno, da un lato, di dire la verità, dura e punitiva; dall’altro, di non indurire la mente al punto di rinnegare il proprio desiderio di dolcezza e di fiducia”. Carne e spirito, dunque, per Heaney: ognuno portato ai massimi estremi ma mai lasciato estremizzare.
Il discorso di Heaney si fa ancora più profondo quando riesce, con una leggerezza e una perizia miracolose, a saldare la sua teoria poetica con la realtà quotidiana (“quel secchio nel retrocucina, cinquant’anni fa”) ma anche storica in cui lui si trovò a crescere: quella, ovvero, della sua Irlanda straziata, negli anni ’70, dagli scontri feroci nell’Ulster, tra cattolici e protestanti (“Il tempo di guerra, in altre parole, fu per me tempo anteriore alla riflessione”). E arrivò alla conclusione che “A volte è difficile allontanare il pensiero che la storia sia istruttiva quasi come un mattatoio”. Ma laddove la storia può fallire, arriva la poesia a smascherare l’inganno e a ripristinare le giuste rotte di navigazione.

Tutte le più genuine ragioni per le quali la "Valle d’Aosta" è così "speciale".

Giulio Gasperini
ROMA –
Su una cartina, un mappamondo qualsiasi, la sua estensione (appena 3.263 kmq) occupa il tempo, quasi, di un errore. Bisogna sapere che esiste, altrimenti si smarrisce, persa in quelle increspature vertiginose di rocce che si chiamano Alpi, trovandosi, guarda caso, proprio in quel segmento dove le Alpi sono più alte – le più alte d’Europa! Lei, in realtà, è formata da quelle sottili valli che, da ogni direzione, si riversano nella vallata centrale, quella solcata dalla Dora Baltea e dalla sua acqua che pare torbida, sporca, ma che è soltanto fresca di ghiacciaio. “Valle d’Aosta”, la guida delle Edizioni Lightbox (2011), è stata scritta dalla popolazione locale.

Sicché è una guida alternativa, un valido aiuto per partire alla scoperta della Vallée più nascosta, meno frequentata ma più genuina, meno nota e meno maltrattata dalle orde dei turisti, che finiscon sempre per corrompere il vero significato del tutto.La Vallée è una regione particolare, “speciale” come il suo statuto dalle origini antichissime (la Charte des Franchises o dei Privilegi fu promulgata da Tommaso I di Savoia nel 1191). La differenza si coglie subito, si percepisce immediatamente percorrendo la SS26, lasciandosi alle spalle Carema e entrando a Pont-Saint-Martin, prima città della Vallée con già un nome francese. La Vallée è, infatti, un’isola. Un’isola immersa tra vette montuose e ghiacciai, un’isola aspra e difficile, nella quale però l’uomo ha sempre voluto rimanere, saldo e stabile. E ce lo dimostrano i vari castelli che, uno dopo l’altro, di epoche e rimaneggiamenti diversi, si susseguono, quasi in un delizioso campionario, percorrendo la SS26: Bard, Verrés, Issogne, Montjovet, Fénis, Sarre, Aymavilles, Saint-Pierre, Villeneuve, Introd e Avise, soltanto per citarne alcuni. Tutte preziose testimonianze (insieme ai tanti e tanti terrazzamenti che l’uomo ha da sempre usato con intelligenza per coltivare la terra, senza mai, prepotente, violarla) di quanto questa terra fosse amata, pretesa e irrinunciabile da un punto di vista strategico e umano.
Chi, meglio dei valdostani, o di nascita o di adozione, potrebbe spiegare meglio questa terra, questo scrigno così chiuso ma al tempo stesso per molti aspetti progredito, proiettato verso un futuro decisamente migliore (nel 1866 Aosta fu la prima città in Italia a inaugurare l’illuminazione elettrica pubblica)? Chi meglio di coloro che l’hanno studiata, che la studiano, che la calpestano, che la scalano, che la promuovono e che tentano di salvaguardarla e preservarla col suo tesoro di lingua (in particolare, il patois valdostano, ovvero un dialetto francoprovenzale, e la lingua dei Walser, sparsi nella valle di Gressoney, dove sorge il castello amato da Margherita di Savoia, alle pendici del Monte Rosa) e tradizioni? Nessuno, ovviamente, se non i suoi figli: coloro che tra le sue dure zolle son stati partoriti, che con l’acqua dei suoi ghiacciai si son abbeverati, che sui suoi sentieri faticosi si son orientati, che alle sue vette altissime hanno sempre rivolto gli occhi, inventandosi un sempre più luminoso orizzonte.

La sapienza più giusta è proprio quella de "I bambini".

Giulio Gasperini
ROMA –
Sono senza dubbio anomali “I bambini” che Fausta Cialente getta, discreta e devota come sempre, sul palcoscenico narrativo di questi brevi ma sapidi racconti, pubblicati la prima volta nel 1976, da Editori Riuniti. La loro stesura è remota, è quasi contemporanea alla composizione del capolavoro, quel “Cortile a Cleopatra” che riteniamo uno dei maggiori romanzi italiani del Novecento. Tutti i racconti riportano la data in calce, e capiamo che non son stati più rivisti dalla scrittrice errante; tutti tranne uno, il primo, quella “Canzonetta” che dal titolo pare, invece, anticipare le tematiche dell’altro grande romanzo egiziano, “Ballata levantina”.

I temi, infatti, nella scrittura della Cialente, si ripetono con una certezza disarmante. Ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, la sapienza narrativa della scrittrice, la sua perizia immaginifica sono tali che pur essendo gli stessi i temi non si ripropongono secondo le solite declinazioni, ma si diversificano, si significano sempre nuovamente. Tutto questo depone, chiaramente, a favore della maestria e dell’abilità della scrittrice, che insieme a Elsa Morante può vantare un discreto plotone di racconti d’alto livello (ed è noto come sia molto più difficile scrivere un racconto che un romanzo di vera qualità).
I bambini della Cialente edificano dei mondi fantastici, mondi nei quali l’onirico penetra discreto ma prepotente: dove le statue prendono vita e accompagnano alla fine delle sofferenze, dove le donne fragili si lasciano soffocare dalla vita opponendo, come unica resistenza, il loro genuino (ma insufficiente) sorriso, dove si creano alleanze e si organizzano ribellioni, dove ogni piccolo tradimento è valutato come la fine d’ogni legame. Sono storie, quelle della Cialente, dove le stagioni scandiscono la crescita e dove, inevitabilmente, ogni bambino finisce per maturare un’assennatezza, una saggezza di vita, che proprio per la sua spontanea fioritura finisce per confermarsi più autentica di quella nata e nutrita dall’accumulo polveroso degli anni.
Il punto di vista è spietato: è soltanto quello dei bambini. E la Cialente ce lo presenta senza la pretesa che noi lo consideriamo quello più importante; ma suggerendoci che, in realtà, potrebbe essere, per molti aspetti, il migliore. Ed ecco che una vedova diventa quasi una fata, che assume il significato della vita, della freschezza, della ribellione a un destino inglorioso. Ed ecco che, al momento della sua scomparsa, i bambini rifiutan tutto il resto, tutto quello che si vorrebbe loro imporre. Loro soli, infatti, sanno quel che è vero e quello che non lo è. O, se non lo sanno, se lo immaginano, senza sottostare ai condizionamenti.
I bambini, si sa, credono prima di tutto alle loro creazioni. E separarsi da queste, per loro, è sempre una violenza.

"Il bacio di Lesbia": quando un bacio può essere tutta una vita.

Giulio Gasperini
ROMA –
Cantò l’amore estremo, Catullo, quello che devasta e brucia, che distrugge e sconvolge. L’amore che fa odiare e amare con la stessa intensità, con lo stesso cieco furore, con la stessa caparbietà dell’errore. Ma come nacquero le sue poesie? Come si plasmò la sua vena poetica, la sua ispirazione d’amore? Alfredo Panzini accorre in aiuto alle carenze storiche – come molte volte accade nella storia letteraria – scrivendo “Il bacio di Lesbia” (Mondadori, 1937): un romanzo d’ipotesi, nel quale la storia si allaccia alla letteratura e poi alla politica e poi alla filosofia e poi alla religione e, perché no, alla leggenda che codesti personaggi innegabilmente nutrono e alimentano.


Leggenda che non diventa mai gossip, ovviamente; ma che anzi si configura come storia concreta, allettante, divertente perché si declina nelle forme tangibili di persone, di caratteri, di profili, ombre e luci eleganti.
Ci sono tutti, in questo romanzo che diventa simpatica commedia: c’è Cicerone che si barcamena tra gloria e politica, c’è Cesare che si prepara alla conquista del potere, c’è Crasso che con le sue ricchezze si preannuncia come pedina fondamentale, c’è il vivace mondo culturale romano, ci sono le donne (sorelle, madri, amanti) che diventano pedine nello scacchiere della politica, c’è il presentimento – che diventa poi cocente certezza – della fine della libertà romana, della sapienze democratica, della pace che ha chi sa di poter permettersi anche di sbagliare, pur di non perdere la loro possibilità dell’errore.
C’è, soprattutto, Lesbia: una donna brillante, intelligente, disinvolta. Una donna che il mondo lo sa affrontare e sconvolgere. Una donna che sa il mondo com’è, e lo sa analizzare, lo sa far gemmare, lo sa dischiudere di fronte alla propria capacità di tirare le somme, di collegare le cause e gli effetti. Ma, con la stessa intelligenza, lo sa anche ignorare, codesto mondo che si sgretola e che lascia al suo posto l’ansia dell’ignoto (o del troppo prevedibilmente noto). Lesbia è una donna che bacia, inoltre. È una donna che sa dar vita ai sentimenti, alle passioni, alle perturbazioni del cuore e alle sue intermittenze.
Catullo esplode nella poesia perché la poesia esplode nelle figure dei due amanti, trasformandoli in due entità quasi divine, in un’esperienza collettiva che si declina secondo tutti gli aspetti della realtà e della vita collettiva. Catullo esplode nella poesia, nel canto monodico, nel flusso cocente delle emozioni, perché il bacio di Lesbia lo dischiude, lo cinge di potenza verbale e immaginifica, lo solleva dal suolo che i comuni mortali calpestano, dalla storia che avanza e tritura quel che, di solito, pare estraneo alla vita e all’uomo. Perché un bacio può essere, spesso, un’intera vita.

"I ca dao del Vietnam": la poesia del quotidiano che nutre l’uomo.

Giulio Gasperini
ROMA –
La poesia, si sa, nacque esattamente quando nacque l’uomo. Prima della narrativa l’uomo manifestò la sua coscienza artistica tramite versi, tramite il modulare di ritmi e suoni. Ed era una poesia, come Omero insegna, che discettava del quotidiano, che nella vita di ogni istante, di ogni attimo, sapeva gemmare ed elevarsi a voce dell’eterno, in un laccio così stretto e inscindibile tra la materialità dell’esistenza e la validità acronica dei sentimenti. I primi poeti furon tutti anonimi, senza voci né volti, proprio perché la visione poetica era di competenza comune. “I ca dao del Vietnam” (pubblicati dalla ObarraO edizioni nel 2000) proprio questa ricchezza possiedono: quella, cioè, d’esser stati composti da uomini comuni, da contadini, da barcaioli, che possedevano la ricchezza piena della lingua e sapevano accordarla sontuosamente con gli elementi naturali, coi loro moti interiori, coi profili degli altri uomini e delle altre donne.


La lingua vietnamita è una lingua dolce e complessa, dalla storia travagliata e dagli apporti consistenti dal cinese e da altri idiomi. Per questa la traduzione contravviene molto al messaggio originale. Però le immagini che codesta poesia sa evocare, i legami d’assoluta perfezione, disarmanti nella loro semplicità e purezza, la perfetta corrispondenza tra sensi umani e potenza naturale non si incrina, ma riluce splendida e cristallina anche tramite l’interpolazione d’un traduttore (“Io sono una goccia di pioggia che cade, cade nel pozzo, cade nel roseto. Io sono una goccia di pioggia che cade, cade sul palazzo, cade nella risaia”).
I ca dao hanno formato non soltanto la coscienza poetica del popolo vietnamita, ma finanche quella politica e sociale, perché diventarono uno strumento privilegiato della resistenza, un tentativo di non cedere e di mantenersi saldi al proprio impegno prioritario di libertà (“Mangio germogli di bambù, mangio bambù grosso, in giro vedo solo bambù, nessun amico”, “se non vado in miniera tu cosa mangi?”). E poi c’è l’amore, il perfetto argomento poetico, che qui si colora di note lontane dalle nostre tradizioni, e ci si presenta diverso, remoto, e ancor più interessante: “Ti amo, è la mia piccola sorte”, “tante tegole ha il dinh, tante volte ti amo”, “Amarsi, non c’è bisogno di letto e stuoia, basta una grande foglia per coprirsi della rugiada”. E poi c’è la tradizione, la saggezza, la ricchezza dei vecchi che vedono passare le stagioni e imparano come vivere, assecondandole e rispettandole: “Pioggia fine del nono mese, vento gelato, sollevo il secchio come mani tremanti”, “Vado a lavorare la risaia comune, scodella grande, soldi in mano”.
Oriana Fallaci ha scritto che questo piccolo paese, il Vietnam, ci aveva dato troppo: “Ci ha dato la coscienza d’essere uomini”. Lei parlava della guerra; io credo che si possa dire anche per la poesia.

"Giovanna d’Arco": le nuove confessioni d’una donna (forse martire e fatta santa)

Giulio Gasperini
ROMA –
Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orléans, morì veramente arsa sul rogo? Era Giovanna quella donna condannata e incappucciata che fu sacrificata alla punizione suprema, con l’accusa d’essere strega ed eretica ma con la reale motivazione d’una vergognosa e umiliante sconfitta militare? Maria Luisa Spaziani recupera non soltanto una versione differente e divergente della storia ma persino un metro popolare della poesia italiana per ridare voce, consapevole, all’eroina del Medioevo, a una donna che fu bambina, che fu soldato, che fu martire in uno spazio ridotto al capogiro, e alla fine, come riscatto dei colpevoli, riverita come santa. “Giovanna d’Arco” (Marsilio, 1990) è un poemetto in ottave, il metro dei canti popolari e poi cavallereschi (quello, per intendersi, dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata), anche se la Spaziani non lega gli endecasillabi con le rime, ma li lascia sciolti, più ariosi; li fa respirare e a noi ci culla nella loro musicalità ammaliante.

La primavera di Giovanna cominciò nel momento della sua vocazione, grazie a quell’angelo che scese sicuro e potente a chiamare chiunque all’azione: Giovanna sentì e Giovanna partì, giovane giovane e insicura persino del suo nome. Si fidò della voce. E la stessa voce la salvò, la preservò dalle fiamme che bruciarono un altro corpo e la protesse dall’offesa, dalla quale fu purificata e riscattata per un umano pentimento di chi, quella fanciulla, l’aveva sacrificata e fatta morire. Giovanna però visse, perduta in un luogo remoto, amata da un uomo che sapeva di non essere riamato e che, per non soffrire più, partì volontario per una terra dalla quale sapeva che difficilmente sarebbe tornato.
Giovanna soffrì, nell’esilio; soffrì la lontananza dai campi, dalla polvere, l’inedia che assoggetta anche l’animo più nobile. Lei volle sempre fare, agire, per servire un bene più grande di lei. In quel castello, umido e buio, non trovò amore, né gioia. In quel riposo forzato, in quella noia paralizzate, Giovanna si sentì fors’anche in colpa, per esser fuggita, suo malgrado, al destino per lei apparecchiato: nessuna fiamma l’aveva arsa, nessuna morte l’aveva accolta.
E decise di tornare, un’ultima volta, a calpestare quella terra che l’aveva vista protagonista di imprese leggendarie. Tornò, incauta, a Orléans; lì la riconobbero, perché la vera pure d’animo non si può nascondere. L’acclamarono quasi regina, la celebrarono già santa. Ma la Pulzella doveva esser morta, perché è “difficile spiegare, a chi è mortale, come la morte può fingersi vita”.

"Siamo state a Kirkjubaejaklaustur", fuggendo tutto e tutti (tranne sé stessi)

Giulio Gasperini
ROMA
Un reportage, più intimo che sentimentale, di un viaggio in Islanda, terra remota e d’arcane definizioni, redatto da Valeria Viganò: ecco “Siamo state a Kirkjubaejarklaustur” (paese che, se pur tentando, non può nulla, in lunghezza, con Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch, in Galles), pubblicato da Neri Pozza nella collana Il cammello battriano nel 2004. Due donne italiane partono per un viaggio on the road, desiderose di spazi vuoti e vuoto di rumori, di orizzonti sconfinati e vaporosi, del sotto che si confonde col sopra, e delle direzioni che paiono stordirci ma non depistarci.


La loro guida è Auden, che viaggiò in Islanda, beandosi della sua latitanza, e scrisse delle struggenti Letters from Iceland, nelle quali si scontorna il limite tra percezione sensoriale, visione paesaggistica ed evoluzione sentimental/esistenziale.
Cosa spinge due donne a sfidare l’Hringvegur, l’unica superstrada d’Islanda, la numero 1, che da Reykjavik torna a Reykjavik dopo aver compiuto un giro di perfetto anello? Cosa le costringe a meravigliarsi di fronte allo sterminato orizzonte di ghiacci, che le obbliga a confrontarsi con il nulla, col deserto che, solo, stabilisce le leggi e regola i limiti?
I luoghi desertici, che siano aridi o gelidi, impongono agli uomini una terribile violenza: il trovarsi di fronte a sé stessi, senza salvezze né vie di fuga. Noi, nel deserto, siamo gli unici nostri interlocutori. Ecco perché, qualche volte, in un qualche momento per tutti differente, sorge in noi il desiderio, se non addirittura il bisogno imperativo, di smarcarsi dall’umanità, di disertare il consorzio civile per ritrovarsi con noi stessi, e per riflettere sulle proprie condizioni e suoi propri spasimi. Per dare risposta alle domande, o magari solo per bearsi delle domande senza risposta.
L’Islanda pare una terra appropriata, per fare questo. Perché non si incontrano macchine per chilometri, perché la tecnologia pare ingoiata dalla natura, perché il mondo, quello continentale, pare lontanissimo. Ma anche qui l’uomo rovina, la natura soccombe. E questa pare una delle sole conseguenze che non hanno soluzione. Un peccato per la remissione del quale non esiste nascondiglio mai troppo lontano.

"La storia d’Italia in 200 vignette": poche parole e tanto grottesco per un’Italia che pare non crescere mai.

Giulio Gasperini
ROMA

Si principia con Romolo e Remo abbandonati dagli uomini e si termina con un’amara confessione: “– Io sono onesto. – Non si preoccupi, vedrà che ci sarà un’amnistia”. Tra questi due momenti – alfa e omega – si ride (sempre a denti stretti) e si riflette sulla lunga e corposa storia della nostra penisola. Il grande vignettista e giornalista Giovanni Mosca ha raccolto, in questo “La storia d’Italia in 200 vignette” (edito da BUR nel 1975) tutti i vizi e le virtù del popolo italico, folgorando momenti storici e personaggi nella loro limitata attualità, ma offrendo a loro (e a noi) la possibilità di superare questi limiti imposti e di offrirsi quasi come una sorta di exemplum: in ogni vignetta siamo ammoniti noi, abitanti di un’Italia diversa e futura, perché vale sempre lo stesso principio, incrollabile e inconfutabile, che se si comincia a ignorare il passato non si potrà evitare un suo ritorno.
Giovanni Mosca sceglie la vignetta, come strumento, come vettore di analisi storica e contemporanea. Perché le vignette sono appunto dei flash, dei condensati sapienti di linee e di parole (poche, in verità, ma tutte funzionali e nessuna inerte, inutile). Sono dei prodotti che, per loro stessa definizione e ancoraggio col presente, durano il tempo di un mattino, d’una lettura di giornale.
O meglio, quasi tutte. Perché queste di Giovanni Mosca hanno la grande proprietà di non limitarsi, claustrofobicamente, a una dimensione troppo ridotta del loro messaggio, ma di potenziarsi attraverso un aggancio a una dimensione sovratemporale, senza (quasi) mai però scadere nell’anacronismo o nel “fuori luogo”. Qualche passo falso, in realtà, c’è: come, ad esempio, nella vignetta di Giacomo Casanova, dove la prospettiva diventa persino un po’ razzista e omofobica. Però, per il resto, l’andamento è abbastanza spumeggiante, intelligente e finanche sorprendente: non si ride mai a bocca spalancata, a polmoni spiegati, ma si rimane sempre con quel gusto amaro in bocca che dovrebbe servire a valutare la situazione, e a adoperarsi per convertire le mancanze in potenzialità, e gli aspetti negativi in aspetti finalmente estinti.

Da Il cavallo fatto senatore da Caligola a La battaglia di Calatafimi, da Le crociate al 25 aprile, da Aldo Manuzio a Montecassino si analizza (e un po’ si piange) un’Italia che, grottescamente, diventa sempre più vecchia ma pare non crescere mai.