"L’acino della notte": del ciclo stagionale, ovvero della nostra sopravvivenza.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’uomo non può vivere senza la natura. La natura, viceversa, può esistere (e indubbiamente lo fa meglio) senza l’uomo. E non è un discorso soltanto ecologista, questo, ma, come appunto si scopre dalle poesie di Giuliana Rigamonti, è anche un discorso poetico. Sì, perché l’uomo è sempre vissuto suddito del ciclo stagionale: sono stati i freddi e i caldi, i dì brevi e i dì lunghi, il ritorno di Zefiro e la sua partenza, a condizionare le scelte, quelle più quotidiane ma più fondamentali, del genere umano tutto, in ogni sua latitudine e longitudine. “L’acino della notte” (eccellente volumetto pubblicato dalla grande casa editrice Scheiwiller, nel non remoto 2006) è un cammino iniziatico, fors’anche un po’ misterico (e in questo senso si spiega l’abbondante ricorso della poetessa ai geroglifici egizi, al loro potere significante e alla loro vastità di significato), in un’educazione stagionale che ci permetta di ritornare all’origine del nostro cammino.

Così ci convinciamo, di nuovo, dell’indispensabilità che la natura sia rispettata (e, soprattutto, obbedita).
L’uomo vive se (e solo se) segue docile il ritmo delle stagioni, il loro lente e persistente convertirsi dall’una all’altra, dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate, dall’estate all’autunno, dall’autunno all’inverno, rincorrendosi sempre in un ciclo continuo e costante; ma mai monotono – ed è questa la più straordinaria portata della poesia della Rigamonti. Ogni evento stagionale, pur nella sua prevedibile ciclicità temporale, lascia sempre l’uomo senza fiato, perché è pur sempre una prima volta: nulla è mai uguale, identico, se non l’idea che supporta il tutto. “Il grido di caccia / delle stelle”, le ombre che “cantano sempre da sole”, la “luce matura fra le persiane” sono tutti legami che (co)stringono l’uomo in un perenne debito di riconoscenza. La natura è feconda, generosa (“il geco scoppia di luna”); la natura è la referente di ogni declinazione d’umano (“Io comincio dove il tramonto brucia / nel tuo sguardo”); la natura vince e libera dalle avversità (“I limoni raschiano la nebbia”).
Ed è la natura la risposta al tutto. Anche in poesie di straziante contemporaneità, come quella intitolata “Clandestino”, nel quale Lampedusa si trasforma in pietosa spettatrice del dramma più sordo del nostro tempo: “Niente resterà di questo viaggio. / Per un giorno galleggerà il mio nome / nelle brevi di un giornale / tre righe che nessuno legge / nere / silenziosamente nere”.
Perché non rimane altro che perdersi nella natura, riconsegnarsi a lei, ingenuamente (nel senso pure del termine) e “spingersi oltre il limite delle dune / che non hanno limite e frugare le sabbie / che cadono fra le dita come giorni / nel granaio, per valutare il grano / rimasto e quello da versare”.

"Lettere dall’Africa. 1914-1931": se l’Africa ti sceglie come suo figlio prediletto.

Giulio Gasperini
ROMA –
La sua è una delle grandi fiabe del ‘900; una delle più grandi storie di avventura e determinazione, di caparbietà e lungimiranza, resa ancor più celebre dalla trasposizione cinematografica e da una superba interpretazione, con Meryl Streep nei suoi “ingombranti” panni.

Tutti noi sappiamo che Karen Blixen scrisse della sua attività imprenditoriale in Kenya nel suo spietatamente autobiografico Out of Africa, con quel magnifico e folgorante inizio: I had a farm in Africa, at the foot of the Ngong Hills. Avevo una fattoria in Africa, ai piedi delle colline Ngong. Forse pochi altri sanno, però, che il materiale più genuinamente autobiografico e crudelmente intimo e personale si trova in abbondanza nel corpus delle “Lettere dall’Africa”, che in Danimarca, molti anni dopo la morte della scrittrice, fu riorganizzato e editato. In Italia è stata una grande casa editrice, dalla solida tradizione intellettuale, la Adelphi, a farsi carico della pubblicazione di questo materiale di non facile accesso; ma di una bellezza struggente, e di un’eccellente profondità intellettuale.

Karen arrivò in Africa nel 1914; ne ripartì, definitivamente, nel 1931, senza più tornarci: queste lettere, scritte soprattutto alla madre, Ingeborg, ma anche al fratello Thomas e alla zia Bessie, edificano un cammino di profonda indagine personale e, insieme, tessono il più intenso (e fors’anche inatteso, per una bianca del profondo nord d’Europa) canto d’amore per una terra, quella africana, non certo accogliente e premurosa coi suoi conquistatori e colonizzatori.
Le lettere che accompagnarono questo suo viaggio africano sono frementi di passione, di orgoglio del proprio vivere, anche quando trasudano il dolore e la sofferenza prodotti sia dalla gestione fallimentare dell’attività, sia dai tanti problemi fisici che straziarono la sua esistenza (prima fra tutti: la sifilide). C’è anche una motivata e solida critica al fenomeno del colonialismo: Karen accusa, senza maschere né timori reverenziali, l’uomo bianco di star estinguendo la vera Africa, appropriandosi delle terre degli “indigeni” e cancellando, con una presunzione immotivata e sregolata, le loro tradizioni nel nome di una, chissà perché, presunta superiorità culturale (come non trovare delle tangenze con le amare considerazioni della Cialente sul fenomeno del levantinismo, nell’Africa mediterranea?).
Karen Blixen s’è salvata, con la scrittura: si è riscattata da un destino contrario e incattivito. Il peso della disfatta non l’ha gravata: perché non di disfatta si trattò. Ma di una lunga pagina di vita, approdata alla consapevolezza d’esser stata, per l’Africa, uno dei suoi figli prediletti. Tanto che (ancora oggi) un intero quartiere di Nairobi è stato battezzato Karen, col suo indimenticato nome.

"Un inverno freddissimo": quanto può una donna sopportare(?)

Giulio Gasperini
ROMA –
Abbandonò (già dal titolo) le ambientazioni levantine dei suoi due romanzi precedenti Fausta Cialente quando, nel 1966, pubblicò con Feltrinelli il suo terzo romanzo, candidato poi al Premio Strega. “Un inverno freddissimo” è quello del ’46-’47: in una Milano ancora stordita e frastornata Camilla – una donna che la Cialente plasma con sapienza e consapevolezza, con orgoglio e fiducia – si sente investita dell’ingombrante compito di ricomporre i relitti di una famiglia che, come tante altre, la guerra aveva menomato e smembrato. Le colpe, i pregiudizi, le antipatie devon esser combattute e vinte, perché nulla più della famiglia può permettere all’individuo di tornare a vivere; e a riappropriarsi del proprio già incerto futuro. E l’umanità felpata che la Cialente mette in scena, orchestralmente, si muove in una disagiata (e disagiante) soffitta, divisa da sottili pareti di stuoia, dove il rispetto del privato è soltanto un miraggio lontano e l’insofferenza della promiscuità cresce alla presa di consapevolezza della fine della guerra.


L’impresa per Camilla sarà ardua, complessa: in questo suo mondo, diviso tra città e campagna, il passato non si chiude mai definitivamente e il presente si infesta di fantasmi e presagi che finiranno per tiranneggiare il futuro. Quel che la Cialente, però, mantiene sempre acceso e in estrema tensione, è l’incrollabile fiducia che il domani possa essere migliore; e che, con l’ultimo punto, la storia non finisca, ma possa, con sicuro sospetto, virare verso ben altri panorami.
Negli anni in cui la Cialente tornò in Italia l’attenzione degli scrittori, da Elio Vittorini (Uomini e no) a Luciano Bianciardi (La vita agra), era focalizzata – quasi ossessivamente – sulla condizione di Milano e degli italiani che, a Milano, vivevano un faticoso periodo di ricostruzione bellica e di ri-consapevolezza del sé. Sicché anche la Cialente decise, chissà quanto programmaticamente, di assumere il punto di vista di questa umanità che continuava a combattere, nonostante la guerra fosse ufficialmente (e burocraticamente) terminata. La sua, ovvio, non fu un’adesione al neorealismo; forse nemmeno una tangenza. Fu una vicinanza di ambientazioni. Ma in lei, come in Bassani, le intermittenze del cuore son troppo evidenti, le rapsodie mentali troppo importanti, per poter parlare di sua aderenza alla poetica del neorealismo.
Siamo lontani dalla dittatura del vero: il mondo della soffitta di Milano è tutto interiorizzato, attraverso punti di vista che gemmano e si moltiplicano, ma che si fondono in una vita altra; in un affresco dove esistono le ombre, dove i colori straripano e dove la linea – dolce e sottile – in definitiva un po’ scontorna.

"Siamo stati diseducati alla sopportazione della sofferenza". ChrL intervista Lorenzo Minoli.

Giulio Gasperini
ROMA – Capita spesso che autore e recensore non si accordino sulla comprensione di un romanzo. E che il confronto tra i due sia faticoso e finanche un po’ arido, se non si ha la possibilità di confrontarsi serratamente per edificare, insieme, una possibile chiave di lettura. In queste situazioni sarebbe più opportuno realizzare un’intervista con l’arte del contraddittorio. Ma, si sa, non sempre è possibile, soprattutto in quest’epoca dove, se si può affidare tutto alla procura d’un computer, nessuno riesce a sottrarsi. In questo caso è avvenuto così: non ho avuto la possibilità di confrontarmi passo dopo passo con l’autore, Lorenzo Minoli, sui tanti luoghi del suo romanzo, “Il momento perfetto”, sui quali mi sarei, con lui, confrontato apertamente.

Come prima domanda le darei l’opportunità d’un chiarimento (che serve in primo luogo a me). Dopo aver letto la mia recensione, lei mi ha scritto che l’aveva trovata un po’ “cattiva” e che, a suo parere, non avevo centrato il tema. Vorrei che mi chiarisse questa prospettiva, per la quale avrei frainteso il suo romanzo.

Innanzitutto mi pare che ci sia una differenza importante tra il commento/giudizio in generale e le stelle date (si tratta del sistema di voto di http://www.anobii.com/ N.d.I.). Non che onestamente mi importi più di tanto ma mi piacerebbe capire come si va da quel che viene scritto sul libro ad una valutazione così bassa. Infine non ho proprio capito il penultimo paragrafo “Le prove si susseguono, con i soliti padri autoritari, le madri soffocanti d’affetto, le fidanzate asfissianti, le crisi prodotte dalla fine delle illusioni: ogni volta la storia pare un copione perfetto, con ritardi più o meno bilanciati, ma pur sempre con tappe obbligate, che non possono esitare nel presentarsi. Lorenzo Minoli gioca a riscrivere la sua personale versione del perfetto copione del perfetto adolescente: che ogni volta ha un nome e un carattere diverso, un fisico e un colore di occhi nuovo, ma che, alla fine, indaga sempre per le stesse risposte.” In realtà sembra che si sia letto un altro libro, non ritrovo nulla di tutto questo nella storia. Le fidanzate non sono asfissianti: sono incerte e spaventate dall’insicurezza del giovane che non ha gli strumenti emotivi e culturali per capire cosa succede intorno a lui. Di madri soffocanti d’affetto non ce n’è neanche una, semmai una (quella di Francine) comprensiva e “madre”; l’altra proprio l’opposto della madre affettiva. Infine proprio non ho capito il concetto di riscrittura della stessa storia con caratteri diversi. Quali sono questi caratteri diversi?

Mi pare persino troppo banale chiederle che tipo di apporto abbia avuto, nella stesura del romanzo, la sua esperienza come sceneggiatore. Quel che invece mi interessa chiederle è se, secondo lei, sia facile scrivere la sceneggiatura di un film, cosiddetto, “di formazione”. Ne abbiamo visti tanti, di codesti film, ma molti sono tutt’altro che riusciti; e tanti altri ancora contrabbandati come tali ma totalmente lontani dall’essenza della definizione stessa…
Non è banale, la domanda, perché in realtà questo è sempre stato il mio modo di scrivere ispirato dalla letteratura sudamericana; da certa letteratura nordamericana. Certo l’essere anche sceneggiatore mi da i “tempi” ma è tutto li. In quanto a film di “formazione” la definizione mi pare molto ampia: Qualcuno volò sul nido del cuculo, Zabriski Point, Blow Up, Un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Uomini contro tanto per citarne alcuni mi sembrano films di “formazione” in quanto tendono a “formare” animo e cuore. Certo se si vuol parlare di Laura Antonelli e Momo allora sono d’accordo quelli erano films lontani dall’essenza della formazione, ma così non lo erano, ad esempio, La guerra dei bottoni e I ragazzi della via Paal.

Fausta Cialente, nel suo racconto Pamela o la bella estate, condanna la sua eroina a un destino simile al protagonista del suo libro. E anche Woody Allen, in Vicky Cristina Barcelona, pare sottostare allo stesso concetto di fondo: l’estate è la stagione in cui, più di altre, si rischia la crescita, la maturazione, il compimento un cammino cominciato magari altrove ma mai concluso. La sua scelta dell’estate, come scenografia temporale del romanzo, sottostà a questi ragionamenti o ha altre motivazioni?
Nella mia storia l’estate è casuale ed è anche una breve presenza. La storia è in flash back, copre tutte le stagioni. Poi si può dire che l’estate facilita certe situazioni sentimentali ed esistenziali perché col tempo libero specie quando si è studenti si pensa di più al proprio “io” perché ce lo si può permettere e io credo anche perché lo “spogliarsi” fisicamente dei vestiti ci spinge quasi naturalmente verso una libertà esteriore e interiore più difficile quando siamo “vestiti”, “protetti” da vari strati di indumenti. Una mia ipotesi, forse troppo cinematografica anche questa.

Adesso una domanda un po’ campanilista: come mai è così affezionato (come parrebbe dalla lettura del romanzo) a quelle che sono i miei luoghi, le mie coste, i miei piccoli angoli di paradiso, ovvero alla Maremma grossetana?
Sono arrivato in Maremma nel 1963. C’erano stradine di terra (poche), cinghiali (tanti) zanzare (tantissime e grandi come elicotteri). Pochi coraggiosi villeggianti e tanta, tantissima libertà e felicità. Da allora ho passato TUTTE le mie estati in Maremma almeno per un mese. Anche durante i miei vent’anni di USA ho portato tutte le estati i miei figli a passare le vacanze in Maremma, che per me è Maremma non Toscana. Amo le pinete, i venti, i rumori dei boschi, il mare, la durezza della terra e la bellezza della stessa. È nel mio cuore, scolpita e indelebile.

La feroce ma fredda rabbia (per l’impotenza e magari il rimpianto) di Gianni, lo smarrito e impacciato dolore di Maria, la presenza incombente di Francine: crede possibili tali sentimenti ancora ai nostri tempi, nei quali la velocità delle nostre vite rende ogni scalino umano di crescita più un inciampo che un’occasione per maturare?

Credo che il problema, perché è un problema, al giorno nostro è che siamo stati diseducati alla sopportazione della sofferenza, non fine a se stessa ma come necessario e certe volte ineluttabile, passaggio per il raggiungimento dei nostri traguardi crescita compresa. La sofferenza (della quale non ci si deve compiacere ovviamente) è una parte necessaria per prepararci alla separazione finale. Ma la cultura attuale ha diseducato particolarmente i giovani ed ha fatto un pessimo servizio perché la continua ricerca ad evitare la sofferenza devia certe volte la vita di alcuni di noi e ne varia le aspirazioni finali, abbassandone la qualità. Lo sport lo insegna: con allenamenti duri, con determinazione e tenacia si può aspirare a vincere. Senza si può aspirare semmai eventualmente forse certe volte quando le gare sono proprio facili a partecipare.

Una domanda, per concludere, che noi di ChronicaLibri rivolgiamo a ogni scrittore: potrebbe dirci quali sono (e per quale motivo) le sue tre parole preferite?
Preferite non so; importanti:
Morte. È la fine, oppure l’inizio? E’ un dilemma che mi intriga.
Speranza. Senza non si vive, senza non si butta il cuore oltre l’ostacolo ed allora si vive una vita noiosa
Donna. È tutto. Continuità, madre, moglie, piacere, folle incomprensione, totale coinvolgimento. È tutto e il contrario di tutto.

“I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni". ChrL intervista Luigi Farrauto

Giulio Gasperini
ROMA –
Non potevo certo esimermi dall’intervistare Luigi! Troppe le passioni comuni, dai viaggi ai suq dell’oriente; troppi gli stessi richiami ad attrarci, le stesse seduzioni a vincerci. Troppo appassionante è stata la lettura del suo romanzo per non avere mille e una domanda da rivolgergli; troppe curiosità che volevano, perentoriamente essere soddisfatte. Ne è venuto fuori un confronto amichevole e stimolante, come se due vecchi amici si fossero fermati, per un attimo, e si fossero ritrovati sotto un medesimo cielo, a distanza di tempo in quantificabile; e si volessero confidare a vicenda tutte le strade percorse. L’intervista è lunga, quasi una doppia confessione (e, come tale, non ho voluto tagliare neppure una virgola!); abbi la pazienza di arrivare sino in fondo. Perché non ne sarai per nulla deluso.

Io sono un adoratore di Oriana Fallaci. E lei scrisse un romanzo che, come il tuo, ha come palcoscenico privilegiato il Medio Oriente. In questo romanzo Oriana costruì la sua particolare teoria del caso e del destino. Nel tuo libro ugualmente queste due entità quasi mitiche hanno un ruolo fondamentale. È per caso la cultura mediorientale che, più di altre, pone irrimediabilmente di fronte a queste due grandi estensioni causali che riguardano l’uomo?
Caso e destino sono entità forse onnipresenti in ogni forma di cultura, tradizione, arte. Non so se in Medioriente queste due estensioni abbiano una valenza diversa, o tanto diversa dalla nostra. Non ho le competenze per dirlo con precisione.
Nel romanzo il mio rimando al destino è sempre a un “destino tangibile”, un destino modificabile come le impostazioni di una macchina fotografica. Dunque il destino di un’immagine diviene “il restare appeso a testa in giù, in attesa di un Giudizio Universale, e magari finire nel cestino in mille pezzi”, e il protagonista “è come un dio minore alle prese con esercizi di creazione”, come un padre che può decidere quale sarà il carattere di suo figlio…
Di sicuro fare esperienza del Medioriente espone al mito, al fascino della storia, perché sono ovunque, è impossibile per chi viaggia in quei paesi non notarlo. E come tutti i luoghi che sono anche ‘luoghi dell’anima’, il Medioriente porta a riflettere molto, forse anche su caso e destino, sul concetto di distanza e di sorte. Poi, credo sia il ‘destino’ di chi si innamora di quei luoghi, il doverli raccontare e condividere…
Nel descrivere lo scenario della narrazione ho cercato di evocare le atmosfere più magiche legate al termine “medioriente”. Quelle delle Mille e una Notte, un romanzo in cui il ‘destino’ è affidato al racconto: Sherazad vince la morte descrivendo mille vite, una dentro l’altra. Mille mondi. Quello è il mondo arabo a cui faccio riferimento: imperfetto e umano, atmosferico e sensazionale.
Riguardo alla Fallaci, non conosco la sua particolare teoria su caso e destino. Né ho letto i suoi romanzi ambientati in Medioriente. Oriana Fallaci ha raccontato per una vita, e con passione, quella terra che entrambi amiamo. Ma del mondo arabo abbiamo due visioni totalmente opposte. Quello che ho descritto io non è affatto lo stesso mondo, lei lo vedeva un po’ come una minaccia, per rimanere in tema ‘destino’… A mio avviso così facendo si alimenta il fuoco della paura, esotizzando il mondo arabo inutilmente. Io credo che il ‘destino’ dell’umanità sia creare ponti, e percorrerli in entrambe le direzioni. Onestamente non ho mai compreso questa sua paura di una “islamizzazione dell’Occidente”, mi piace vedere la contaminazione culturale come un valore, che può farci crescere tutti, creando significati nuovi e più ricchi. È un processo che dura da millenni…



Io non credo al destino. La trovo una presuntuosa maniera, dell’uomo, di scaricarsi di responsabilità: come se ci si volesse smarcare dal potere dell’iniziativa e dalla nostra capacità di saper contrastare le situazioni, sia avverse che alleate. Potresti esporci la tua personale visione del caso e del destino?
Sono d’accordo con te. Non ci credo nemmeno io, al destino; sono convinto che sia solo l’individuo l’artefice del proprio futuro. Però credo alle coincidenze. Di quelle il mondo è pieno. Di ‘casualità’. E se guardiamo la terra come una rete fittissima di connessioni, le coincidenze si spiegano facilmente. Niente metafisica o escatologia. Io sono una di quelle persone a cui si è inceppata la “sospensione del giudizio”. Non credo a niente che possa muoversi senza essere mosso. Non amo la fantascienza, nemmeno al cinema, non mi coinvolge.
‘Destino’ è una parola di cui si fa grande uso. Il romanzo ne è pieno. Nella mia mente, comunque, caso e destino differiscono solo per significante. “La fortuna è questione di geografia”.
Nella narrazione ‘caso’ e ‘destino’ hanno molta importanza. Sono le infinite combinazioni foto-chimiche di un’immagine, le infinite strade che si possono percorrere durante un viaggio. Sono le strade prese e quelle perse. È la consapevolezza che in un rullino ci siano concesse solo 36 foto.
Nella camera oscura, come nella finzione letteraria, non c’è limite, non c’è destino. C’è inventio e dispositio. Tecnica e sensiblità. Quello è il bello…


Questi tuoi personaggi, così distanti e manichei, a un certo punto si incontrano nella dimensione del viaggio, in quell’esperienza che Kapuscinski avrebbe definito del “varcare la frontiera”. Quanto ti sei divertito a immaginare i viaggi dei tuoi eroi? E ancora, quanto ti sei divertito (e ti diverti) tu in primis, a viaggiare?
Adoro Kapuscinski. Lui è uno che il mondo lo ha percorso per davvero, e con curiosità. Mi ha insegnato che il “Varcare la frontiera” non è solo un movimento del corpo. C’è un universo intero dentro quelle parole.
Il viaggio ‘vero’ mi dà dipendenza non perché mi diverte, ma perché mi arricchisce. Io visiterei qualunque paese del mondo, senza fermarmi mai, se solo potessi. Viaggiare soddisfa la mia curiosità, ma è una droga sottile ed efficace, difficile smettere.
I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni.
A piccole dosi. Progettare, descrivere e raccontare un viaggio immaginario, un viaggio di altri, è stato bizzarro. È un’attività emozionalmente complessa. Da un lato, la vertigine di libertà data dal poter raccontare, potenzialmente, di qualunque paese del mondo. Quindi in un certo senso ‘visitarli’. Anche quelli più sperduti, o in cui nessuno si sognerebbe mai di andare. Dall’altro lato, la frustrazione che evocare certi luoghi provoca, perché a furia raccontarli ci si affeziona, e ci si vuole andare davvero, e al più presto… Per cui si scende a compromessi, luoghi ed esperienze vissute e accessibili…
Scrivere di viaggi altrui è un po’ come lavorare per un’agenzia turistica: gratifica, apre l’immaginazione ma fa rosicare.


Come te, adoro i suq. Mi sono smarrito in quello di Gerusalemme, coi suoi quattro quartieri, sempre cogli occhi rivolti al cielo, ai colori, ai suoni e agli odori; mi son divertito in quello di Luxor, trattando per l’acquisto di due bellissime sciarpe di seta; ho mangiato il kebab più buono della mia vita in quello di Betlemme, in Palestina. Io cerco sempre di descrivere (e far capire) agli altri il fascino di questi luoghi, ma certe volte non son convinto di riuscirci. Tu come tenti, di solito, di stupire il prossimo nella scoperta di un luogo?L’unica soluzione è “mandarli a quel paese”. Nel vero senso della parola, intendo. Non c’è modo migliore, per comprendere le atmosfere del Medioriente, che andarci. Fare il passaporto e prendere un volo. A parole è difficile. Le foto un po’ aiutano, ma è l’esperienza diretta che colpisce. Il vento della Palestina, l’odore di Damasco, la vitalità del Cairo… le parole non bastano per raccontarli, non trovi? Occorre andarci di persona. Perdercisi dentro. Poi ne riparliamo. Per questo spero che il mio romanzo venga visto come un “invito al viaggio”, al valicare la frontiera…


Ps.: a Betlemme fanno anche l’hummus migliore di tutto il Medioriente!


Sai che la geografia sta letteralmente sparendo dai programmi scolastici? Come me provi un incontenibile moto di disgusto per queste infauste decisioni (io, tanto per dire, tengo appesa a una parete della mia stanza un enorme planisfero anticato della Terra)?
Sono contento che tu mi faccia questa domanda. La questione della geografia è preoccupante. Sono un appassionato di cartografia, sto facendo un dottorato sulle mappe e l’immagine della città, la mia è una sorta di perversione iconica per le mappe. Ne ho di ogni forma e colore, e sapere che faranno la fine dei vinili, dimenticati e schiacciati dalle tecnologie, mi rattristisce molto. Quando sfoglio un atlante provo le stesse sensazioni che si hanno guardando un animale in via di estinzione, destinato a diventare vintage e chissà pure un po’ chic.
A mio avviso il recente attacco alla geografia nelle scuole pubbliche è uno dei tanti simboli del degrado culturale che l’Italia sta vivendo negli ultimi anni. Mi piace come hai definito la tua reazione, “incontenibile moto di disgusto”. Ecco, i termini sono quelli. La geografia dovrebbe essere una conoscenza propedeutica a qualunque studio, ma nel trivio e quadrivio dell’Italia non c’è spazio per queste conoscenze. Ma se ci pensi la tecnica funziona. Meglio non sapere che quasi condividiamo più cose col mondo arabo che con gli inglesi, meglio lasciare le città mediorientali nel retro delle nostre mappe mentali, nella parte più nascosta possibile, così continueranno a farci sempre più paura; meglio ignorare chi ci sta attorno, meglio lasciare la ragione al suo sonno, così i mostri saranno sempre più avvincenti…
Mi rendo conto che la geografia non sia proprio il problema principale del nostro paese, però è l’ennesima frustrazione.
Nonostante il mondo sia sempre più a portata di mano di chiunque, nonostante ora sia possibile in qualunque momento ottenere informazioni su tutti i meandri del mondo, la conoscenza della geografia è diventata obsoleta, retrò. Gli unici posti che appartengono alle nostre mappe mentali sono vaghi scenari di guerra e bombe, villaggi vacanze tutti uguali e città di cui si ha letto qualcosa. Per questo motivo ho voluto dare tanta carica simbolica alle mie descrizioni del Medioriente. Volevo aggiungere un pezzo alla mappa mentale dei miei lettori. Come ogni mappa offrendo una visione parziale e mediata, ma per una volta dalla curiosità piuttosto che dalla paura. Ho messo il mio. Almeno ci ho provato…
Tornando alla geografia, la società moderna ci ha illusi di conoscere il mondo solo perché abbiamo le tecnologie più moderne per attingere a dati e informazioni, in ogni momento. Ma la conoscenza del mondo è altro. Il mondo è fatto di connessioni, di contaminazioni, di storie, di significati, difficilmente inferibili con l’iPhone. Non c’è niente attorno alla mappa di Google Earth consultabile anche seduti sul water. Hic sunt leones. Tutta arabia, quella…


Luigi, adesso una domanda che noi di ChronicaLibri rivolgiamo spesso agli scrittori: quali sono le tue tre parole preferite?
Ma intendi per suono o significato?
Per il significato “contaminazione”, “chilometri” e “oriente”
Per il suono la mia preferita è “sicché”, anche se non la uso mai, e dovrei.

"Senza passare per Baghdad", quando è la strada a guidare il Caso.

Giulio Gasperini
ROMA –
Forse è vero che è tutto scritto nel destino; che tutti noi abbiamo, nei palmi delle nostre mani, la mappa della nostra vita. Ma è altrettanto vero (e forse più affascinante) pensare che le uniche mappe che ci potrebbero riguardare sono quelle dell’atlante, quelle del mappamondo che s’accende e brilla come lampada, quelle del planisfero appeso alla parete della nostra camera. Ed è altrettanto affascinante che per quelle strade del mondo sia il Caso a calarci, a guidarci divertendosi dei nostri imbarazzi, e delle nostre perplessità.
Luigi Farrauto di cartine se ne intende: ed è lodevole il suo tentativo di nobilitare la geografia come scienza della concreta vita, una specie di dimensione perfetta nella quale non possiamo non stare a nostro agio, addirittura sentirci più forti e vivi.
“Senza passare per Baghdad”, pubblicato nel 2011 dalla casa editrice romana Voland, è il romanzo di un’affermazione e di una crescita, di due deviazioni che portano a una tangenza in un luogo dove nessuno avrebbe mai pensato.

Alex e Jari sono due amici, due opposti che proprio per questo si armonizzano alla perfezione, in un gioco a rincorrersi che si definisce anche dal continuo palleggiarsi i punti di vista: prima l’uno e dopo l’altro giocano a dare ognuno la propria versione dei fatti, confermando a noi (e a loro stessi) che chi si conosce realmente non ha bisogno di parole per comunicare. A loro, per esempio, son sufficienti le fotografie: entrambi, infatti, scattano foto da ogni angolo di mondo. Per esigenze diverse, è ovvio. Ma, a loro, le sillabe non appartengono, non servono più di tanto. Loro comunicano tramite le immagini; tramite i risultati dei loro scatti si descrivono le emozioni, si indagano a vicenda, si completano quei luoghi bui, inesplorati, che ognuno di noi ha, inevitabile, in un angolo del sé.
I chilometri li dividono, coinvolgendoli in esperienze diverse e fors’anche distanti. Però poi, complici incidenti e inevitabili sconfitte, il loro avvicinamento sarà determinante: l’autore non ci dice dove la strada condurrà queste due anime di ragazzi, ma ci fa intendere che Damasco è soltanto l’inizio. Che tutto il prima è stato soltanto un’anticipazione. E che non bisogna per forza passare per Baghdad per rendere il cammino più agevole.

"Il momento perfetto": basta un’estate per tutta una vita.

Giulio Gasperini
ROMA –
Che cosa sia “il momento perfetto” non ve lo dico, ovviamente. Però sappiate che tutto il romanzo è una ricerca, stagione dopo stagione, errore dopo errore, (quasi una battuta di caccia con appostamenti e trappole) di codesto momento. E la ricerca, come su un set cinematografico, si compone di fotogrammi, che si legano uno all’altro, in una striscia continua di primi piani e di fermo immagine. Gli inquadramenti, in effetti, in questo “Il momento perfetto” (romanzo primo di un, guarda caso, sceneggiatore: Lorenzo Minoli, pubblicato dalla bolognese Pendragon nel 2011), sono in sovrapposizione e in continuo spostamento, tra un flashback e una proiezione nel futuro.
Quella che si squaderna per tutto il libro è l’educazione sentimentale del protagonista, un giovane studente di giurisprudenza, che si trova a conoscersi e a lentamente smascherarsi durante soprattutto l’estate (a Punta Ala, nella Maremma grossetana), la stagione che più di tutte è stata scelta come miglior scenografia della maturazione e della presa di coscienza della nostra stessa libertà di scegliere, di un puramente umano libero arbitrio.

Il protagonista gioca, con la sua parvenza di timidezza, a costruirsi un futuro. Gioca a creare e disfare, a esagerarsi supremo giudice della piccola umanità che vede ruotare intorno a sé stesso e alla sua vita. Fino ad arrivare all’epilogo estremo, all’evento che in un’ottica di fatalismo da manuale conclude e suggella la sua crescita emotiva e umana, lasciandoci forse con un po’ di fiele per la non perfetta conclusione sentimentale, è tutto un accelerare di emozioni e di interpretate decisione, in uno scavo che soltanto apparentemente può parere superficiale, ma che perfora la superficie nei punti giusti, andando a toccare i nervi scoperti, quelli che, in ogni ferita, fanno più male.
Le educazioni sono sempre feroci, crudeli, persino un po’ sadiche. Ogni romanzo di formazione si sbilancia tra l’ansia della crescita e la crudeltà della consapevolezza. Le prove si susseguono, con i soliti padri autoritari, le madri soffocanti d’affetto, le fidanzate asfissianti, le crisi prodotte dalla fine delle illusioni: ogni volta la storia pare un copione perfetto, con ritardi più o meno bilanciati, ma pur sempre con tappe obbligate, che non possono esitare nel presentarsi. Lorenzo Minoli gioca a riscrivere la sua personale versione del perfetto copione del perfetto adolescente: che ogni volta ha un nome e un carattere diverso, un fisico e un colore di occhi nuovo, ma che, alla fine, indaga sempre per le stesse risposte. E ricerca sempre per il più perfetto dei momenti.

"Le vie cave etrusche": le "tagliate" e la sbalorditiva arte del tufo.

Giulio Gasperini

ROMA – Sovana, Sorano, Pitigliano: tre punti persi nella carta geografica della provincia di Grosseto, ma tre gioielli, tre piccole gemme dai tanti tesori. La zona è quella antica degli Etruschi, una delle popolazioni italiche più oscure e tutt’ora incomprese del passato pre-romano, dalla lingua impenetrabile, dalle provenienze misteriose. La Laurum editrice (con sede proprio a Pitigliano) ha dedicato una guida (scritta da Giovanni Feo) a questa zona di impressionante bellezza e incanto ancestrale: “Le vie cave etrusche” (2007). Sovana e Sorano sorgono nella zona del tufo, una roccia magmatica; Pitigliano ha case, addirittura, a strapiombo su uno sperone di tufo: una delle sue particolarità, insieme a quella di essere un importante centro per l’ebraismo, con un’antica e frequentata sinagoga.
Tra questi paesi gli etruschi hanno scavato, con impressionante maestria e perizia, le cosiddette “tagliate”, ovvero dei corridoi semisotterranei che si snodano tra le montagne e la vegetazione rigogliosa, ramificandosi intorno ai luoghi sacri e alle antiche necropoli.
E anche le necropoli son scavate nel tufo: tombe immense, entrate nascoste, passaggi celati. Il tutto inserito in un contesto naturale ancora incontaminato e inviolato. Sulle pareti di tufo son stati incisi segni, figure e forme che non smettono di interessare e incuriosire gli studiosi di tutto il mondo, continuando a richiamare le attenzioni di tutto il mondo scientifico e archeologico. C’è solo da meravigliarsi di fronte all’inesplicabile grandezza della Tomba Ildebranda o alla profonda impresa della Via Cava di San Sebastiano, o ancora di fronte alla semplice nudità (e alle misteriose scritture) dell’eremo medievale di San Sebastiano, in origine una tomba etrusca.
Il tufo, nella zona di questi tre dimenticati paesini, è fondamento della vita: gli Etruschi lo piegarono alle loro nascoste necessità, alle loro occultate esigenze.
Ancora oggi, nessun archeologo ha saputo fornire una spiegazione sufficientemente convincente sulle funzioni di queste “vie cave”: il mistero degli Etruschi si amplifica, in ogni aspetto della loro civiltà.

"Perversioni all’Avana": il fascino, scandaloso, d’una città di carne e di fiato.

Giulio Gasperini

ROMA – L’Avana è una città di fiato e di carne, di battiti e respiri. È una città di estrema passione, di languido scandalo, di prostrato pudore. Ma L’Avana non è soltanto la città: L’Avana è tutti gli avaneri che, nelle loro frammentate coscienze, ne ricostruiscono il profilo, ne ricompongono il mosaico. Miguel Mejides, con l’esperto occhio del patologo ma con l’acuta grazia del cesellatore, “monta” (nel vero senso del termine) questo romanzo, questo “Perversioni all’Avana”, pubblicato (in prima edizione nel 2006) dalle Edizioni Estemporanee, una casa editrice dall’interesse prettamente rivolto verso la letteratura caraibica, del centro e del sud America, in una (ri)scoperta di gemme rare e preziose, con la vocazione di affrancare tale letteratura dai soliti (e asfissianti) nomi, quelli degli oramai soliti noti. Nel romanzo ogni storia, breve e folgorante nella sua scarna compiutezza, si allaccia all’altra, quasi si salda, in un continuo scambio di prospettive, in una commutazione continua di punti di vista, in una permuta di coscienze e di sentimenti.

Trovare una trama unitaria è impossibile: ed è questo il gioco più affascinante, più delizioso; pare un’umanità esplosa, deflagrata: tante schegge di vita che si proiettano nelle direzioni più disparate, verso le mete più distanti. Di ognuno ne possiamo ricostruire il percorso, sospettare gli approdi, verificarne le partenze: ma ognuno di loro conserverà ai nostri occhi il mistero di una vita che non è compiuta, perché inarrestabile nel fluire, nel modificarsi al cambiare delle incognite.
L’Avana ci mostra tutta la sua potenza, la prorompente vitalità d’un popolo che, per vivere, deve adattarsi, per non soccombere. E che adattandosi si trasforma in un manipoli di eroi, di bugiardi, di falsari, di santi. È la vita a definire questi ruoli. È la città che li riassume e che, in sé, li raccoglie.
I protagonisti, in questo pulsante carnaio, sono tanti: tutti diverse declinazioni della stessa Avana, potente dèa, entità quasi materna e al tempo stesso tentatrice. Perché la madre e la puttana sono i ruoli antitetici per eccellenza, anche se un po’ tangenti, e sicuramente ugualmente potenti (per sottomettere un uomo). Ogni storia si lega all’altra, si travasano i personaggi, se ne continuano separatamente le vicende, le progressioni, le accelerazioni al dolore e alla gioia, alla soddisfazione del desiderio e alla frustrazione della disfatta.

"La nave dei miliardari": un’esasperata (quanto inutile) diserzione dal mondo.

Giulio Gasperini
ROMA – Fu uno dei pochi, pochissimi giornalisti nel riuscire a intervistare Marilyn Monroe (e per questo litigò aspramente con Oriana Fallaci, negli anni del grande giornalismo italiano). Poi Nantas Salvalaggio si dedicò esclusivamente alla narrativa, scrivendo romanzi di estremo successo: come Il campiello sommerso, pubblicato finanche in Russia. Nonostante questa deviazione di carriera, il giornalismo è sempre stata la prima e profonda sua vocazione, tanto che persino in questo romanzo dimenticato, “La nave dei miliardari” (Rizzoli), la cronaca sociale e politica entra prepotente, e condiziona la trama, l’assurdo allacciarsi degli eventi. L’anno era il 1978: un anno particolare e delicato, per l’Italia.

Rino Gaetano aveva partecipato a Sanremo con Gianna; a Roma le Brigate Rosse avevano ucciso Aldo Moro; fu approvata la legge 174 sull’interruzione di gravidanza; Giovanni Leone (a seguito anche del libro-biografia di Camilla Cederna, immediato best seller) si era dimesso da Presidente della Repubblica; dopo solo 33 giorni di pontificato era morto papa Giovanni Paolo I e era stato eletto un polacco, Karol Wojtyla. In questo clima storico e politico dove se ne vanno i ricchi, preoccupati che i terroristi li rapiscano e li derubino? Ma ovvio: se ne vanno in crociera, cercando in alto mare una fuga dal mondo e dai problemi reali dell’esistere. Una crociera molto particolare, in un viaggio attraverso il mondo che porterà, porto dopo porto, terra straniera dopo terra straniera, a dare la giusta prospettiva alla situazione mondiale.
I favolosi “cento” più ricchi della nave, in un viaggio che solo a una prima e superficiale lettura potrà sembrare inutile e stomachevolmente lussuoso, si troveranno a essere comparse (magari ignare) di tutto quel che nel monto ribolle, di tutto quello che la società affronta e attraversa: nella Cina “rossa” non saranno accolti bene, in nave faranno sfoggio e vanto dei loro soldi, i nuovi dèi della nascente era post-moderna. Ma nella coscienza dell’individuo son sempre le solite, antiche questioni che dominano, con atto furioso: e così la vicenda viene plasmata attraverso gli occhi di un moderno mozzo, che si trova in eredità un lavoro che non conosce, che non desidera, che non lo riguarda. Ma che gli servirà per crescere, e per liberarsi dai fantasmi di un passato, se non ingombrante, comunque sempre in subbuglio.

La nave rimane un microcosmo che esiste solo nella prospettiva dell’errore, una sorta di modellino in scala di quel che il mondo, in più estese coniugazioni, comporta e giustifica. E il mondo esterno incombe, su quest’apparente isola di pace e tranquillità. Incombe e, soprattutto, filtra attraverso mille crepe, mille pertugi che incrinano una campana di vetro dall’aspetto indistruttibile, invalicabile, inviolabile.
I soldi paiono uno scudo, una protezione dal male, dalle cattiverie del mondo; in realtà, i soldi esistono per sé stessi. Perché l’uomo non ne è protetto; né è nobilitato.