Vigne, persone, culture…i "Centovini" dei Trimani

Silvia Notarangelo

Roma Selezionare una cantina invece di un’altra, consigliare un buon rosso al posto di un bianco, dimenarsi, con successo, tra le denominazioni doc, docg, igt. Non tutti, bisogna ammetterlo, ne sarebbero capaci. Presunti intenditori o semplici appassionati di vino sono sempre più numerosi, spesso, però, si fermano all’apparenza, a quelle informazioni di servizio indispensabili ma aride, prive di qualsiasi connotazione.

Per conoscere davvero cosa si nasconde dietro una bottiglia, la casa editrice Donzelli propone Centovini, una rassegna curata dalla famiglia Trimani che ha raccolto un numero limitato di vini e spumanti, seguendo un proprio, personalissimo criterio.

E, del resto, chi meglio di una famiglia di vinai attiva nella Capitale da quasi due secoli avrebbe potuto cimentarsi in una simile iniziativa?
Il risultato è un percorso insolito e stimolante, in cui sono le storie che si celano dietro ad un’etichetta, storie note o sconosciute, a raccontare perché la scelta degli autori sia ricaduta proprio su quel vino. Non solo la gradazione, il gusto o il profumo. A distinguere una bottiglia da un’altra, a renderla davvero “speciale” sono gli aneddoti, le intuizioni, talvolta persino dei semplici tentativi andati a buon fine.
Ripercorrendo l’Italia da nord a sud, in un’articolazione che prevede cinque distinte sezioni geografiche, il lettore si imbatte nel Barbaresco della cantina Gaja e nei suoi vigneti soprannominati “sorì”, nelle bottiglie disegnate in esclusiva per il Gran Cuvée Brut dell’azienda bresciana Bellavista, nell’immancabile Sassicaia proposto dalla Tenuta San Guido, davvero sorprendente per la velocità con la quale ha saputo imporsi in tutto il mondo. Scendendo verso sud, si scopre la curiosa vicenda di “un’impenitente astemia”, Paola Di Mauro, divenuta produttrice di un vino che, oggi, non a caso, prende il nome di Donna Paola Marino. E, ancora, si riflette sull’importanza di una passione autentica come quella di Cosimo Taurino che, con il suo Patriglione, continua ad essere un punto di riferimento per l’intera regione pugliese.
La suggestione che si ricava è quella di un panorama italiano ricchissimo e diversificato, in cui a consolidate aziende familiari si affiancano nuove realtà propositive e innovative. Modalità e vigneti diversi per raggiungere, tuttavia, gli stessi obiettivi: qualità e attenzione verso un vino che sappia conservare “una forte e specifica relazione con il territorio d’origine”.

"Roma by Night", la guida per vivere la capitale a ogni ora

ROMA “Roma by Night”, pubblicata da Light-Box Edizioni è una guida alla Roma notturna, pensata per fornire uno strumento utile per muoversi nei principali luoghi della “nightlife” romana. La guida apre con due interviste: la prima a Pierandrea Righetti, meglio conosciuto come “The Professor”, dj storico di Roma, che ci racconta la Capitale dei club e dei party; la seconda a Rosario Giuliani, uno dei principali talenti jazz italiani. La guida è suddivisa in 8 grandi zone, ciascuna di queste con una propria mappa. Ogni zona viene poi analizzata su 5 temi: Mangiare e Bere, Locali, Shopping, Cultura. Per ogni tema troviamo una selezione di tutti i luoghi aperti fino a tardi.
L’ultima parte, con le principali manifestazioni notturne della città e un elenco di numeri utili, completa questo maneggevole prontuario alla vita notturna nella capitale.
(scheda libro a cura di Light-Box Edizioni)

"Cibi Killer", la nuova inchiesta di William Reymond

Marilena Giulianetti
ROMA – Infermiere avvolte in candidi camici e fitto via vai di sedie a rotelle per il viale che conduce al parcheggio. Non siamo nella sala d’attesa di un ospedale. Troppo facile e scontato. Soprattutto: troppo sano. No, è il toxic food che avanza, su invitanti piatti serviti con il provocatorio nome di “bypass” in locali specializzati come l’Heart Attack Grill – dove i clienti diventano “pazienti”, il direttore di sala il “dottore”, si ingurgitano più di 8mila calorie a pasto e il cibo è “buono da morire”, come recita lo slogan. Non soltanto qui però, ed è la vera beffa. In “Cibi Killer” la nuova inchiesta pubblicata da Nuovi Mondi (la prima è contenuta in “Toxic” pubblicato nel 2008 sempre dalla stessa casa editrice) il giornalista francese William Reymond riprende la sua scottante indagine sull’industria agroalimentare partendo da lontano; i primi anni ’70, gli anni del cambiamento nell’industria alimentare degli Stati Uniti, ma anche della vecchia Europa.
“Cibi killer” non è il solito libro sui rischi di una dieta ricca di grassi. E’ un’inchiesta che toglie il velo ai veleni che da anni non sappiamo di mangiare e che finiscono regolarmente nei nostri piatti – sotto forma di coloranti, conservanti, pesticidi usati in fase di coltivazione, benzoapirene o acidi grassi parzialmente idrogenati poco importa. Il mercato tenta di togliere il libero arbitrio, costringendo tutti ad una alimentazione non solo povera di nutrimento (quattro mele di oggi non raggiungono i nutrienti contenuti in una mela negli anni ’50) ma potenzialmente dannosa per il nostro organismo.


L’inganno è sotto gli occhi di molti, eppure tutto tace. Pesa la connivenza tra industria agroalimentare e farmaceutica, secondo Reymond provata anche da numerosi studi – sistematicamente ignorati – condotti nel tempo da ricercatori autorevoli. Così si continua a parlare di “prevenzione” sotto forma di monitoraggio clinico (vedi costose visite mediche, vedi costose operazioni e terapie medicinali), ma non sotto forma di cambiamento delle abitudini alimentari che, se mutate, abbasserebbero la media di malattie cardiovascolari, ictus, ma anche di certi tipi di tumori. A toccare gli interessi delle industrie si muore, in tutti i sensi. Con “Cibi Killer” Reymond lancia il sasso contro Golia espandendo la ricerca iniziale e offrendo uno spaccato ampiamente documentato e a tratti desolante. I nemici sono insidiosi, abitualmente presenti tra gli ingredienti dei cibi industriali, dati in pasto al bestiame negli allevamenti o utilizzati nelle coltivazioni. “Sommergendoci di cibi che ci fanno ammalare, i colossi del toxic food dimenticano uno dei comandamenti fondamentali del commercio: non uccidere il tuo cliente”.

"Il Francese senza sforzo" con Assimil non è un problema

Marianna Abbate
ROMAHo conosciuto il metodo Assimil durante un corso universitario di Russo. La professoressa ci fece acquistare questo libro, così diverso dagli eserciziari che solitamente si usano per imparare l’inglese, e dopo un paio di lezioni  mi trovai a chiacchierare sul teatro Balshoj di Mosca.

Quando il mio ragazzo mi chiese di insegnargli il polacco non ebbi alcun dubbio nel consigliarli di acquistare la guida Assimil “Il Polacco senza sforzo”.
La casa editrice nasce in Francia nel 1929 con un corso d’inglese per francofoni, in Italia è presente dagli anni cinquanta e dal 1995 i corsi in italiano sono pubblicati direttamente in Italia, e la disponibilità di lingue è in continuo aumento.
Ma qual è il segreto di questo metodo? Le guide Assimil si basano sull’apprendimento intuitivo, lo stesso tipo di apprendimento che hanno i bambini nel momento in cui imparano a parlare, ovviamente  adattato all’intelligenza di un adulto. Lo studio si suddivide in una fase passiva, di ascolto lettura e familiarizzazione di suoni, e una fase attiva, che inizia dopo circa cinquanta lezioni e che ripercorre tutte le lezioni già studiate nella prima fase.
Per chi deve studiare da solo è pertanto assolutamente necessario acquistare anche il cd audio del corso, mentre chi sceglie di studiare con un insegnante madrelingua può risparmiarsi la spesa e costringere la povera fidanzata (il mio caso) a leggere ad alta voce e registrare le lezioni. 
Vi stupirete con quanta facilità le conoscenze vi rimangano impresse e desidererete avere una guida Assimil per tutte le materie. 

"In viaggio con Kapuściński", dialogo sull’arte di partire

Silvia Notarangelo

ROMA – Nasce da una profonda e sincera ammirazione, unita ad una passione condivisa per il viaggio, il breve profilo che il giornalista Andrea Semplici dedica a Ryszard Kapuściński, reporter polacco scomparso nel 2007.
“In viaggio con Kapuściński”, pubblicato da Terre di Mezzo Editore (collana I singoli), attraverso rapidi flash sulla vita e sugli scritti del reporter, offre una riflessione sulla condizione del viaggiatore, di colui che sceglie di farsi guidare dalla curiosità per scoprire e conoscere nuovi territori.
Semplici racconta al lettore il “suo” Kapuściński, o meglio Kapu, come amava farsi chiamare. Un uomo che ha rifiutato la qualifica di giornalista sentendosi più vicino ad un “interprete”, impegnato a tradurre “da una cultura ad un’altra”.

Il suo desiderio di varcare quelle frontiere dove regnano “silenzio e mistero”, la sua irrefrenabile sete di conoscere l’ignoto “che sta oltre la linea dell’orizzonte” lo portarono, complici una serie di fortunate casualità, ad intraprendere un viaggio durato una vita intera. La prima, inaspettata meta del giovane inviato è stata l’India, seguita dall’Africa, e da dieci lunghi anni trascorsi a raccontare le sue drammatiche rivoluzioni.
Fra i tanti paesi visitati da Kapu non è mancata l’Italia, dove ha avuto modo di intrattenersi, per qualche giorno, proprio in compagnia di Semplici.
Dell’incontro, tanto atteso, il giornalista italiano ricorda la timidezza e la curiosità del collega, la sua capacità di restare nell’ombra, di mimetizzarsi tra le persone che incontrava mostrando, per tutti, grandissimo rispetto, perché senza gli altri “non ci sarebbero storie da raccontare”. Un uomo che ha fatto del nomadismo la sua ragione di vita, che ha preferito indossare le ali e non piantare più facili radici, che si è sforzato di diventare parte di quel mondo che voleva descrivere, perché un viaggio ha senso solo quando diventa “territorio di incontri, saperi e conoscenze”.

Hans Blumenberg e la sua "Teoria dell’inconcettualità"

Silvia Notarangelo
ROMA – La collana Terrain vague della :duepunti Edizioni si è recentemente arricchita dell’opera postuma di Hans Blumenberg, “Teoria dell’inconcettualità”, destinata a rappresentare il testamento spirituale del noto filosofo tedesco. Il testo, nato da inedite carte d’archivio raccolte da Anselm Haverkamp, sebbene ancora allo stadio di progetto, delinea, tuttavia, i fondamenti della prassi metaforologica, già espressi non solo all’interno di una serie di lavori preparatori, ma anche nel corso di una lezione accademica tenuta dal filosofo nel 1975.
Il saggio parte dalla definizione di concetto in quanto insieme di contrassegni mediante i quali è possibile selezionare quali rappresentazioni appartengano o meno ad un oggetto.

Esso possiede, quindi, un proprio campo di applicazione e si configura come il risultato di quella necessità, tipicamente umana, di operare con una certa “distanza spaziale e temporale”, nasce, in altre parole, dall’esigenza di dover rappresentare non tanto il presente, quanto “l’assente, il distante, il passato o il futuro”. Pur essendo un prodotto della ragione, il concetto non coincide con essa, dal momento che non riesce a realizzare tutto ciò che la ragione richiede. Tale lacuna viene colmata, secondo Blumenberg, dalle metafore, le quali, pur essendo già insite nel concetto, sono chiamate a supplire alla sua inadeguatezza, alla sue carenze, ai suoi limiti. La loro capacità di produrre qualcosa in più rispetto alla mera descrizione di uno stato di fatto, fa sì che riescano a coniugare “l’abito linguistico primario del riferimento alla realtà con quello secondario del riferimento alla possibilità”.

La metaforologia non può, dunque, limitarsi a considerare la metafora come un semplice ausilio alla costruzione di concetti ma deve inserirla all’interno di una più complessa teoria dell’inconcettualità, che il filosofo si augura riesca a ricostruire quegli orizzonti dai quali sono scaturiti gli “atteggiamenti e le costruzioni concettuali”.

"Strada India", un viaggio alla ricera di sé

Silvia Notarangelo

ROMA “Strada India” di Daniela Morgante, Editrice effequ, è il racconto di un viaggio compiuto a metà degli anni Settanta dall’autrice, allora studentessa universitaria.

In quel periodo, per i giovani occidentali, era “più che una moda, un rito, una febbre”, partire per l’Oriente alla scoperta di qualcosa di nuovo e di più vero in cui credere, da contrapporre alla mentalità e ai valori dominanti.
Il viaggio rappresentava una strada per la ricerca di sé e di nuove mete per costruire una società migliore.
Nel presentare questa personale, significativa esperienza, la scrittrice oltre a rendere il lettore partecipe delle emozioni e delle sensazioni scaturite dall’incontro con una realtà e con un mondo così diversi dalla sua Maremma, vuole anche coinvolgerlo nell’atmosfera di quegli anni, offrendogli una chiave per comprendere il contesto in cui maturarono i sogni, le idee dei ragazzi di allora.
I luoghi, le persone incontrate, i profumi, i colori dell’India sono rievocati con uno sguardo intriso di affettuosa nostalgia, ma nello stesso tempo ormai distaccato per la lontananza che pone il tempo trascorso.
Con uno stile essenziale, ma di grande efficacia narrativa, Daniela Morgante conduce il lettore nell’itinerario di viaggio da lei condiviso con tre amici, vissuto con giovanile allegria e con una certa ironia tutta toscana, capace di sdrammatizzare le situazioni più spiacevoli.

"Il vino a Roma", un guida utile e indispensabile per tutti

Marianna Abbate
ROMA – Ci capite di vini? No? Bene, credo che siamo rimasti solo io e voi. “Capirci di vini” è diventato un must negli ultimi anni. Un sine qua non nelle cene tra amici, nelle discussioni di lavoro e persino nei pettegolezzi tra commari: “Hai visto Giovanna ha portato quel finto Barolo, l’avrà pagato due euro”, “Certo che Luca è proprio un uomo di classe, che figurone con quel – Chianti!”.

Persino io, che di vini ci capisco poco, partecipo con grande faccia tosta a queste disquisizioni: “Ma vi pare? E’ antico pensare che con il pesce si abbini bene solo un bianco!” Citando quelle frasi fatte originale a Decanter, la trasmissione cult di Radio2.
Volete fare anche voi la figura di chi sa di cosa sta parlando? E’ qui che entra in scena la guida “Il vino a Roma – guida alle migliori aziende vinicole del Lazio e ai locali in cui bere bene nella capitale” edita da Castelvecchi e scritta con maestrìa e chiarezza da Slawka G. Scarso.

Innanzitutto sfaterà il mito che nel Lazio non si faccia del buon vino, e già questa è un’informazione da esperti nel campo. Ma in più, se siete romani, vi tirerà su il morale, perchè dovreste essere davvero ciechi e sordi per non conoscere almeno un paio delle aziende citate. Io,ad esempio, otre alla commercialissima cantina Bernabei che fornisce alcolici a tutta la città, conoscevo l’azienda vinicola Cavalieri. Ma devo rivelare un trucco: sono i medesimi proprietari della famosa pasticceria Napoleoni di via Appia.
Dite che non è abbastanza per autoproclamarsi sommelier? Allora aspettate un attimo, mi lascerò ancora guidare dalle guide!

"Bloody Europe!", un’alternativa all’Europa (vera)

Giulio Gasperini

ROMA – Hai mai passeggiato sulla Prenzlauerallee, a Berlino, pensando a quanti, prima di te, l’han già percorsa e a quanti, dopo di te, la percorreranno? Sei mai andato da Manarola a Corniglia, seguendo a piedi il sentiero, a strapiombo sul mare? Oppure, ti sei mai chiesto che incontri potrebbero accadere nelle Lowlands scozzesi? E ancora, hai mai immaginato cosa potesse succedere nelle terre dell’Est, per così tanti anni sprangate alla curiosità e alle ragioni dell’Occidente?
Ognuno di noi potrebbe raccontare ogni spazio d’Europa da un’angolazione alternativa; filtrata attraverso un’esperienza che sia sua e inconfutabilmente sua. Ecco il motivo per il quale si fa così interessante questo volume, edito nel 2004 dalla Playground, fiera e orgogliosa casa editrice romana. “Bloody Europe!” è una raccolta di gioiose e gaie declinazione d’un’Europa che si affaccia al nuovo millennio, sospesa tra il suo ingombrante retaggio di Vecchio continente e le nuove sfide lanciate dalla modernità.
C’è voce e spazio per tutti, in codest’Europa, dalle frontiere che magicamente, come al suono d’una parola magica, si schiudono alla scoperta e alla rivelazione. Ed è, soprattutto, un’Europa che non conosce inibizioni, né tentennamenti: un’Europa coraggiosa di sé e della propria identità, che affronta il cambiamento e la sua fisiologica metamorfosi con il coraggio – e l’orgoglio – della terra che è, ricca del suo patrimonio culturale e umano. E su questo patrimonio si adagia e si affida, sicura che saranno spazi tranquilli a custodirla, alla fine.
Grandi scrittori, molti all’epoca quasi esordienti (come Valeria Parrella, Rossana Campo, Elena Stancanelli, Gianni Farinetti, Giancarlo Pastore, Ivan Cotroneo) ci plasmano figure quasi mitiche, d’un’Europa che scorre intorno a noi, nel cui flusso anche noi siamo, consapevolmente o meno, immersi. Che tu sia stata battezzata, da altri, Annemarie Schwarzenbach e sia una femmina intellettuale svizzera, per molto tempo ritenuta pazza; o che tu ti sia volontariamente battezzata Tina e sia un transessuale genovese pazzo di Madonna, immersa nei problemi “che abbiamo tutte noi material girls”; che tu sia un ragazzo folgorato da un colpo di fulmine al Gay Pride di Roma; o che tu ti chiami Ruben Zaldarriaga, perseguitato dal regime fascista dell’Argentina ma, perché gay, ignorato dalla burocrazia e dalla statistica ed escluso dalle liste dei desaparecidos, non avrai problemi: ché l’Europa narrativa, riscattando la reale Europa politica e sociale, è capace d’accoglier tutti, rispettosa e fiduciosa.
Perché qui, in “Bloody Europe!”, l’Europa trova la strada giusta: scopre il coraggio di perdonarsi; e di diventare adulta.

Patrizia di Carrobio ci porta tra i "Diamanti"

Giulia Siena
ROMA – Donne e diamanti, un legame antico e indissolubile che ha portato una donna che di mestiere commercia diamanti a scrivere una guida pratica e completa pubblicata da Astraea. ChronicaLibri ha intervistato Patrizia di Carrobio, autrice di “Diamati, una guida personale”. 
 

Come è nata l’idea di una guida tutta dedicata ai diamanti? 
L’idea di una guida dedicata ai diamanti è maturata nel tempo, lavorando a contatto con le persone e rendendomi conto di quanto la gente fosse confusa dalle troppe informazioni reperibili sui libri, su internet o anche solo per sentito dire. Al posto di avere un’idea chiara su cosa fossero i diamanti, come andassero scelti e tutto quello che potesse interessare loro, le persone avevano un’idea del diamante e del gioiello unicamente basata sulla cosiddetta ‘leggenda metropolitana’. Con la mia guida, Diamanti, voglio cercare di mettere chiarezza e offrire delle informazioni quanto più vicine alla quotidianità di chi il diamante lo deve acquistare, per sé o per qualcun altro. 
Nel libro ci spieghi che per scegliere un diamante è essenziale affidarsi  alla teoria delle “quattro C” e al buon gusto, ma c’è qualcosa che fa di un gioiello un oggetto davvero di cattivo gusto? 
Con gli anni mi sono resa conto che ‘buon gusto’ e ‘cattivo gusto’ sono due concetti del tutto relativi. Così come un vestito può essere immettibile per qualcuno e stupendo per qualcun’altro, nello stesso modo, quello stesso vestito, per esempio, se indossato da una donna può apparire in un modo e se indossato da un’altra in modo diametralmente opposto. Ciò che sta male a una persona può stare bene a un’altra. La stessa cosa vale per il gioiello o per il diamante.
La mia opinione, ovviamente strettamente personale, è che sia il connubio oggetto-persona a determinare quanto quell’oggetto possa essere o meno di buon gusto. Credo, inoltre, che stare bene con se stessi aiuti a indossare con più naturalezza qualsiasi cosa, gioielli, abiti e quant’altro.
Come tu ci spieghi, dopo la seconda guerra mondiale tra le donne e i diamanti è iniziata  una lunga storia d’amore, questa storia d’amore oggi è ancora salda, nonostante i problemi  finanziari dell’ultimo periodo? 
Sono convinta che la storia d’amore tra le donne e i diamanti sia del tutto indipendente rispetto ai soldi o a una condizione economica più generale. Per questo credo che questa love story duri ancora oggi, indenne e incolume.
Tu hai lavorato in Italia, Inghilterra, America, come cambiano i gusti degli acquirenti in materia di diamanti? 
Le persone, ovunque si vada, sono molto influenzate dalle mode e dai costumi.
Negli Stati Uniti si usa molto volersi far notare (questo è un paese dove avere dei soldi e mostrarlo viene visto come qualcosa di positivo) e per questo forse i diamanti e i gioielli indossati qui sono in generale più vistosi. Diversamente dall’Italia dove per una questione culturale e sociale si tende più alla sobrietà, considerando la vistosità qualcosa di un po’ ‘cafone’.
I diamanti che scelgono le donne per se stesse sono diversi da quelli che scelgono gli uomini per donarli alle donne?
Credo si tratti di una questione del tutto personale: quanto più un uomo si trova sulla stessa lunghezza d’onda della sua donna, tanto più tenderà a scegliere quello che lei avrebbe scelto per se stessa.  
La recensione di “Diamanti, una guida personale” sarà online giovedì su ChronicaLibri