Marianna Abbate
ROMA – Come potevo non approfittare della rubrica vintage per tessere le lodi di un mio compaesano. “Quo vadis” il romanzo che nel 1905 valse il Nobel a Henryk Sienkiewicz è un’opera mastodontica.
Grazie a questo romanzo Sienkiewicz raggiunse la fama internazionale, già molto conosciuto in Polonia per i suoi numerosi libri sulle vicende legate ai Cavalieri Teutonici. La sua Trilogia, che tratta le vicende belliche polacco-prussiane gli ha conquistato l’eterno amore del popolo polacco, che lo ha celebrato regalandogli una villa, costruita appositamente per lui ad Oblegorek (proprio a pochi chilometri di distanza dal mio paesino).
Questo romanzo conferma le sue doti di narratore epico e la sua abilità a ricostruire la realtà del’epoca, inserendo spunti romanzeschi originali, ma totalmente verosimili.
La trama, come è facile intuire dal titolo, tratta la tematica delle prime persecuzioni cristiane ad opera di Nerone. La vicenda dell’apostolo Pietro e dei suoi seguaci fa da sfondo alla tormentata storia d’amore tra Licia, nobile cristiana forestiera, e Vinicio, giovane patrizio Romano.
Se aggiungiamo che la giovane ha attratto l’interesse di un focoso e malvagio Nerone, e che a difenderla nell’arena sarà il fido gigante Ursus, ecco qui presentati tutti gli ingredienti per uno spettacolare Kolossal cinematografico.
E infatti “Quo vadis” è stato oggetto di diverse trasposizioni cinematografiche di cui la più importante è quella del 1951, vincitrice di 2 Golden Globe, che vede Robert Taylor nei panni di Vinicio e Peter Ustinov nei panni di Nerone.
Non è un caso, infatti, che tutti i film tratti dai libri di Sienkiewicz abbiano riscosso un notevole interesse in Polonia, decretando il successo di attori e registi.
Una lettura sempre appassionante per un romanzo senza tempo.
Categoria: Letture vintage
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"La nave dei miliardari": un’esasperata (quanto inutile) diserzione dal mondo.
Giulio Gasperini
ROMA – Fu uno dei pochi, pochissimi giornalisti nel riuscire a intervistare Marilyn Monroe (e per questo litigò aspramente con Oriana Fallaci, negli anni del grande giornalismo italiano). Poi Nantas Salvalaggio si dedicò esclusivamente alla narrativa, scrivendo romanzi di estremo successo: come Il campiello sommerso, pubblicato finanche in Russia. Nonostante questa deviazione di carriera, il giornalismo è sempre stata la prima e profonda sua vocazione, tanto che persino in questo romanzo dimenticato, “La nave dei miliardari” (Rizzoli), la cronaca sociale e politica entra prepotente, e condiziona la trama, l’assurdo allacciarsi degli eventi. L’anno era il 1978: un anno particolare e delicato, per l’Italia.

La nave rimane un microcosmo che esiste solo nella prospettiva dell’errore, una sorta di modellino in scala di quel che il mondo, in più estese coniugazioni, comporta e giustifica. E il mondo esterno incombe, su quest’apparente isola di pace e tranquillità. Incombe e, soprattutto, filtra attraverso mille crepe, mille pertugi che incrinano una campana di vetro dall’aspetto indistruttibile, invalicabile, inviolabile.
I soldi paiono uno scudo, una protezione dal male, dalle cattiverie del mondo; in realtà, i soldi esistono per sé stessi. Perché l’uomo non ne è protetto; né è nobilitato.
Campo libero all’immaginazione con "Se una notte d’inverno un viaggiatore"
Stefano Billi
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"Il prato in fondo al mare": il ‘cold case’ della morte di Ippolito Nievo

ROMA – Giorni famosi, eran quelli. Giorni di febbricitante esaltazione, di tremori, di rischi corsi ma affrontati col coraggio di chi sa che, per suo merito, i suoi figli avranno qualcosa di cui esser grati. Un giovane, dal destino furioso, dal carattere ombroso e schivo, scelse la letteratura come arma di riscatto e di educazione, di coinvolgimento e di speranza: si chiamava Ippolito Nievo. Scrisse molto, nella sua vita: poesie, drammi, novelle. Ma il suo nome splenderà solo con la pubblicazione, postuma ben s’intende, delle Confessioni di un italiano, colossale romanzo scritto in breve tempo, quasi di getto, e così sfacciatamente patriottico fin già dal titolo.
Il pronipote Stanislao, in “Un prato in fondo al mare” (Mondadori, 1974), dopo più di un secolo, provocatoriamente, torna a discutere e a parlare della fine, misteriosa quanto crudele, del suo antenato. La morte d’Ippolito sarebbe, nella nostra epoca di serial televisivi, un cold case, un caso mai chiuso perché mai affrontato concretamente. Quanto mistero, quale potente ombra d’omertà si allunga sulla morte di quest’uomo – giovane uomo – che si era unito alle truppe garibaldine: perché, come tutti i grandi uomini, capì che la letteratura non poteva essere disgiunta dall’azione, dalla responsabilità del fare attivo, del fare pratico.
Difese a tal punto l’amministrazione garibaldina che si recò a Palermo, nel 1861, per raccogliere la documentazione necessaria per smentire una campagna diffamatoria. Il 4 marzo si imbarcò a Palermo, lui che non amava il mare, a bordo del vapore Ercole. Ed è da qui che comincia il mistero: un mistero su cui Stanislao cercò di portare un po’ di luce, un minimo di chiarezza. Cosa accadde alla nave? Perché non venne soccorsa durante un’improvvisa tempesta? Cosa videro effettivamente due navi che si trovavano a navigare sulle stesse rotte dell’Ercole? Chi fu la misteriosa figura del marinaio sopravvissuto a un naufragio, trovato su una spiaggia, ricoverato in un ospedale di Napoli e poi misteriosamente scomparso? Fu una bomba a distruggere la nave (gli attentati “statalmente” e “istituzionalmente” riconosciuti e approvati esistevan già a quel tempo) o fu solo colpa d’un caso avverso? C’era chi non desiderava che Ippolito arrivasse coi suoi documenti e con la sua verità o fu effettivamente solo una triste coincidenza di fattori naturali?
Era partito da Palermo, Ippolito, con destinazione Napoli; del mare aveva paura, ma era pieno d’ardore giovanile, di ideali e di utopie: di tutti quei particolari di cui si nutron i giovani. A Napoli, però, non arrivò mai. Né il relitto fu mai trovato, sepolto per sempre sotto metri di mare e presunti silenzi di omertà.
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150 anni di Libri d’Italia: Chi non ha amato "Cuore"?
Marianna Abbate
ROMA – La recensione di oggi di “Cuore”, un classico della letteratura, non rientra solamente nella rubrica Vintage delle nostre letture, ma apre la sezione dei Libri per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Infatti, ogni settimana, ChronicaLibri vi parlerà di testi e personaggi che attraverso la letteratura hanno “costruito” il Risorgimento italiano.
Chi non è stato in classe con un Nobis figlio di papà arrogante, un Derossi bello, bravo e studioso, un Garrone tanto grande quanto buono e generoso? Chi, infine, non si è sentito un po’ come Enrico Bottini – la voce narrante di “Cuore. Libro per ragazzi” (Treves 1886 – Mondadori 2001) – preso dai mille dilemmi quotidiani che ogni bambino deve affrontare, sconfiggendo le proprie debolezze?
