“Beirut, I love you”: il canto d’amore per una terra (ri)trovata.

Beirut I love youGiulio Gasperini
AOSTA – Negli anni ’60 Beirut era considerata la Parigi del Medio Oriente: erano gli anni in cui i divi del cinema affollavano le passeggiate lungo mare e i banchieri e finanzieri controllavano i traffici bancari bivaccando tra palazzi, cocktail bar e languide spiagge. Poi dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 Beirut si tramutò nel teatro di scontri e bombardamenti furiosi e feroci: “Ognuno aveva diritto alla sua bomba”. Una terra martoriata e perseguitata, bersaglio incolpevole di furie avverse e di scelte unilaterali.
L’artista Zena El Khalil, che ha vissuto in Nigeria, negli Stati Uniti e in Italia, decise un giorno di tornarsene ad abitare nella sua Beirut. E ha raccontato il suo rapporto conflittuale con la sua città in “Beirut, I love you” (Donzelli editore, 2009). Il libro è piuttosto un rivivere tramite flash, scene, inquadrature particolari, il suo legame mai estinto né consumato con Beirut, per diventare un incessante canto d’amore, struggente, alle sue radici, alla sua identità che si concretano nel destino crudele di Beirut stessa, nella sua predestinazione alla sofferenza. Prova a viverne lontana, Zena. Prova a cercare di essere sé stessa anche in altre metropoli, dedicandosi al lavoro, alla sua arte, ai rapporti, ai legami. Ma dopo l’11 Settembre ecco che si sente straniera dovunque: e decide che l’unico orizzonte da cui guardare il mondo è là da dove proviene.
Beirut è lo scenario ma si configura anche come protagonista della storia. Ne è la burattinaia e l’attante. È terra di abbandoni dolorosi, di ricordi feroci. Ma è proprio in questa terra arsa, bruciata, che pare più facile far germogliare anche la poesia, far ri-nascere le pulsioni vitali che ogni volta, bomba dopo bomba, vengono messi a dura prova ma covano pulsanti e forti sotto le macerie, sotto i cieli sporchi di incendi e di fumi, come una necessità sottopelle di rivalsa, come un coraggio perenne di risollevare la testa che non conosce domatori né dominatori e che punta sempre alla vittoria finale.
Perché su Beirut pare abbattersi un destino sempre avverso, crudele, rabbioso e feroce. Come Oriana Fallaci la dipinse nel suo “Insciallah”, nei primi anni ’90. Come un carnaio; pulsante vita e avventure, paure e tranelli. Beirut è dominata da pulsioni contrastanti e divergenti: la morte e la vita, lo splendore e la tenebra. A Beirut tutto è difficile; ma per questo, ancora più appassionante. Zena El Khalil, invece, confida che i venti e i destini avversi riescano a trionfare e a riconsegnare Beirut a un nuovo inizio, a una nuova storia che sia di felicità e di serenità; una nuova narrazione di fiducia e nuova consapevolezza, di arte e di cultura, di orizzonte larghi e di prospettive aperte come il cielo e il mare che la incorniciano. Ed è in questo contesto, in questa città che è nido e trappola, tana e prigione, che Zena compirà il suo percorso di consapevolezza fino alla rivelazione ultima: “Sono così lontana dalla morte”.

“Grazie per il fuoco”: la distruzione e l’inizio

grazie per il fuocoDalila Sansone
AREZZO – Da qualche parte ho letto che la tensione di “Grazie per il fuoco” si muove tra il prologo e l’epilogo, qualcosa di simile all’andamento di una funzione tra due punti di massimo insomma. A me piace vederlo come un arco voltaico, una scarica tra due poli opposti. Mario Benedetti lo pubblica nel 1965 ma in Italia arriva solo nel 1972 (Il Saggiatore), poi scompare e torna nel 2011 con le edizioni laNuovafrontiera dietro quel fiammifero spento, ancora fumante, sulla copertina di cartoncino ruvido. Ruvido.
Il tatto… c’è qualcosa di assolutamente sensoriale in questo libro dove la narrazione in senso proprio manca e i fatti prendono corpo e si fanno spazio nel fluire continuo, incessante di pensieri sparsi.
Di temi ne affiorano tanti tra il convenzionale e il meno convenzionale ma non sono il potente conflitto generazionale, ideologico, o lo sfondo che attanagliano la mente e catturano ipnoticamente l’attenzione. No, è il flusso di pensieri incastonato in una informe decadenza allo stesso tempo sociale, morale, individuale.
Un padre e un figlio, distanti, allontanati da un disprezzo che ha smesso di avere cause. Il bisogno di liberarsi da entrambi le parti, anche esso senza ragioni precise, se non quella del raggiungimento di una condizione diversa dall’adesso. Una costruzione narrativa perfetta nel mettere davanti al lettore l’evidenza: l’unicità di interpretazione non esiste, i sensi ci limitano e la mente si chiude su una o poche idee rendendoci incapaci di cogliere sfumature che non sappiamo vedere, perché non pensiamo nemmeno di farlo. Per questo compaiono voci fuori campo ed il pensiero continuo del protagonista si intervalla a attimi della mente di altri personaggi, donne. Tutte donne quelle che ascoltano riflessioni e amarezze mai espresse fuori da una alcova diventata metafora di una auto reclusione inconsapevole dalla vita, o che costruiscono pensieri inconfessabili persino a sé stesse. Sono questi punti di vista alieni che piombano a interrompere il crescendo dell’azione, obbligando il lettore a osservarla neutralizzando ogni giudizio.
Poi la pelle. Compare nei ricordi, nell’adesso, la pelle. Quella membrana assente alla percezione mentale eppure filtro della percezione reale. I sensi assorbono la mente, la attraversano, la incanalano, la distraggono e poi è li che si risolve tutto: in qualche modo l’essere pensante annegato in sé stesso si allontana dall’essere vivente, fino al richiamo dei sensi. E’ un richiamo materiale (un rumore, un colore) o mentale (un ricordo), troppo a lungo intermittenti o deboli per essere un qualcosa di duraturo nella vita di un uomo… fino a che divampa il fuoco, perché qualcuno ha saputo accenderlo, perché qualcuno bruciando dello stesso combustibile ha permesso che la distruzione si trasformasse in un vero inizio. Tanti singoli inizi.

Ro. Ro. Ro, i grandi romanzi in formato newspaper

roth_chrLROMA – All’ultimo Salone del Libro di Torino se ne sono viste delle belle. E non in senso ironico. Tra le tante presentazioni di collane, libri, progetti e iniziative c’era l’inaugurazione ufficiale di Ro. Ro. Ro. Brevi e semplici sillabe che racchiudono la storia dei romanzi tascabili oggi riproposti da una giovane casa editrice fiorentina. Riallacciandosi alla secolare storia della Rowohlt Verlag, le Edizioni Clichy portano in libreria dei grandi romanzi a piccolo prezzo e in un formato alquanto originale. Come successe nel 1950 per i Rowohlt-Rotations-Roman – da cui il nome Ro. Ro. Ro. – i “romanzi newspaper” di Clichy sono semplici giornali stampati in rotativa sulla comune carta del quotidiano che permettono a chiunque e in modo “veloce” di avvicinarsi  ai grandi classici della letteratura.
Quando vennero inventate dall’editore tedesco Heinrich Maria Ledig  nell’immediato dopoguerra, l’intento era quello di rispondere alle necessità di un Paese ancora annichilito dalle devastazioni anche culturali della Seconda Guerra Mondiale. Infatti, l’immediatezza del formato, l’economicità (venivano distribuiti al prezzo di 1 marco) e il supporto cartaceo alquanto anonimo permettevano la facile circolazione dei testi.

Oggi, dopo oltre sessant’anni da quella geniale idea, la casa editrice Clichy richiama anche nella grafica e nella carta lo spirito d’amore per il libro e per le storie che aveva animato Ledig nel Novecento proponendo 4 grandi titoli: “Le notti bianche” di Fedor Dostoevskij, “Lo strano caso del Dr. Jeckyll e Mr. Hyde” di Robert Louis Stevenson, “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad e “La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth.  Libri tutti da leggere. E newspaper da collezionare.

Le favole e poi l’ultimo viaggio di Antoine de Saint-Exupéry

Dalila Sansone
AREZZO – “Ma se mi va di dimenticare il suo dimenticare e di inventarmi un sogno?”. Già, se a volte volessimo dimenticare e immaginare una realtà diversa? Non per illusione, solo per smettere di non credere più e non correre il rischio di pensare che di qualcosa non sia valsa la pena? Vale sempre la pena, anche solo per inventarsi un sogno.
Non mi sono mai chiesta che fine avesse fatto il Piccolo Principe, se se ne fosse tornato dalla sua rosa o fosse invece rimasto, per sempre bambino, a stupirsi delle illogicità di presunti adulti. Faccio l’errore di molti e lascio i “personaggi” tra la lettera maiuscola della prima pagina e il punto dell’ultima, nel loro eterno presente senza trascorsi e destini con cui riempire pagine non scritte.
Antoine de Saint-Exupéry quel suo Piccolo Principe se lo portava dietro, ché in fondo era un po’ lui, era la parte invisibile di lui; così, quando prima di partire per l’ultima missione (Algeri 1943), la incontra in Algeria, su di un treno un giorno qualunque e agli schizzi di un piccolo principe biondo che lascia raccontare, parlare, chiedere, spesso non capire. Le “Lettere a una sconosciuta” (Bompiani, 2009) sono una bella raccolta degli ultimi fogli sparsi dell’autore del libro più venduto al mondo, acquerelli e righe scarabocchiate. Sulle pagine scorrono qualche frase o lettere per una donna, sposata, algerina che smette di rispondere al telefono e non avvisa se decide di non presentarsi ad un appuntamento. Non c’è nessun filo che collega il bambino che sulla carta parla per l’uomo al libro che li ha resi entrambi liberi dallo scorrere del tempo e dalla dimensione materiale dell’esistenza. Si, perché tra quei pochi pezzi di carta, invece, ci sono proprio il tempo e l’essere esistiti, lì in quel momento. Ci sono emozioni semplici che parlano delle illusioni, di quando le illusioni pretendono che si guardi alla realtà con la logica dei fatti e delle conseguenze.
“Le favole sono fatte così. Una mattina ti svegli e dici: ‘Era solo una favola…’. Sorridi di te. Ma nel profondo non sorridi affatto. Sai bene che le favole sono l’unica realtà della vita.” Sentire riesce quasi sempre a vivere la disillusione e a trovarci dentro la ragione profonda del sentimento, che è fatto di una natura diversa dalla logica; sopravvive a sé stesso come sensazione ed è quella la realtà: la sensazione che non si spiega, non si descrive, capace com’è solo di restare. A volte il piccolo principe continua a non capire, arriva persino a rinunciare, a farlo credendo che sia inutile, distraendosi di amarezza. Ma poi succede anche a lui di rendersi conto che l’essenziale non è invisibile agli occhi, l’essenziale è semplicemente parte di te. Esiste. È inutile credere che si possa restare per sempre bambini, illudersi che l’ingenuità di cui si nutre l’immediatezza delle emozioni sia duratura… però è così stupidamente adulto non custodirne gelosamente la tenerezza!

“Una vita sottile”: convivere con le ombre.

Dalila Sansone
AREZZO – Alcuni abissi sono insondabili, non possono essere presi e incasellati in una qualche categoria. Perché capita, in quei casi che non sono fatti ma vite incrociate, di accorgersi che le categorie siano insufficienti e comportino un prezzo troppo alto da pagare: dimenticarsi ciò che cercano di definire. L’anoressia è una nebulosa oscura senza astri che la trapuntano, nessuna fonte di luce, solo il’ripiegarsi su se stesse di infinite sfumature di nero, dove nero non è colore, nero è il condensarsi di tutto in niente. Chiara Gamberale scrive “La vita sottile” (Marsilio Editore, 1999) un passo oltre il bordo insidioso di quella nebulosa e l’incertezza del movimento si avverte tutta tra le righe.
La vita sottile è diario e racconto, una raccolta di pensieri e frammenti di vita vissuta a metà strada tra lo scritto privato e il testo da condividere. Non è un libro sulla malattia ma neppure il tentativo di ricostruire o definire cosa essa sia stata nel percorso personale dell’autrice. Anche il racconto si veste bene dentro quell’aggettivo “sottile”: tocca, arriva a dire e lasciare intravedere una dimensione che è stata singola e singolare. Chiara racconta un modo di sentire la vita, una percezione di sé in qualche misura fuori dalla propria storia: il corpo, la fisicità come una cassa di risonanza delle emozioni, capace di un’amplificazione assordante, talmente assordante da risultare insopportabile. È questa la ragione che spinge a scegliere una vita sottile che “scivola nei jeans e ti permette di non sentire addosso la loro tela ruvida […] scivola nel mondo e ti permette di non sentire addosso la sua imperfezione”. Il titolo cattura con l’immediatezza di un’istantanea questo dualismo tra la dimensione materiale e l’espressione reale di sé: ridurre alle estreme conseguenze la prima per rendere trasparente l’altra. È un libro che si muove su uno sfondo triste ma che non riesce ad esserlo, di una semplicità disarmante che rende il dolore ombra strappandolo alla malattia. Dalle ombre non è possibile distaccarsi completamente, perché se è vero che la proiezione sul muro cambia in base alle condizioni di illuminazione, ci si può anche giocare avvicinandosi o allontanandosi.
L’anoressia deforma e trasforma ma si riduce a una lotta impari tra il proprio senso di inadeguatezza e il bisogno disperato di vita e nel libro c’è soprattutto vita, nonostante lei, nonostante le sue ombra. L’ultima parola del libro è chiusa tra due punti: una soltanto, come una parentesi con i puntini di sospensione; se ne sta lì a separare un prima da un dopo che non importa conoscere ma che esiste. Le parole quando usate per “significare” bastano senza doverne usare altre per spiegare: Bentornata.

Il Grande Gatsby: Fitzgerald, l’amore e un po’ di Scotch.

Marianna Abbate 

ROMA – La cosa più bella dei romanzi di Fitzgerald è che non si capisce proprio dove voglia andare a parare. Stai lì a pagina 1 tra le luci soffuse, a pagina 15 ad un barbecue party, a pagina 50 provi un filo di perle, e ancora non hai capito che cosa stai cercando. A pagina 75 sorseggi whiskey e cominci un pochino ad agitarti perché c’è qualcosa che proprio non quadra. Poi ci ripensi bene e ti ricordi che già a pagina 30 avevi avuto la stessa sensazione, ma era stata offuscata dal desiderio di capire come sarebbe andata a finire quella discussione tra quei due nell’angolo della sala.

E quando succede il patatràc, perché con Fitz è garantito, tu non te lo aspettavi proprio. Perché della narrazione cambia improvvisamente e ti ritrovi intricato in un vortice di avvenimenti incomprensibili e repentini da far girare la testa e pensare: “lo sapevo, lo sapevo”. E invece non sapevi proprio niente.

Un’altra cosa bella di Fitzgerald è che da delle indicazioni estremamente precise. Il lettore non ha tanto spazio per l’immaginazione, perché è lo scrittore stesso a dipingere con esattezza quel lampadario, quell’abito, quell’atmosfera. Ogni sorriso e ogni sguardo hanno una loro posizione tanto che sei costretto a visualizzare esattamente quello che l’autore aveva in mente. Probabilmente molti di quelli che andranno a vedere il film in uscita al cinema il 16 maggio, penseranno: “come ha fatto il regista ad entrare nella mia testa?”. Niente di più sbagliato, siamo noi lettori fissi e attenti dentro la geniale e affascinante testa di Fitzgerald.

Ora trovo veramente inutile soffermarmi sulla trama, dal momento che c’è una bella pagina Wikipedia dedicata all’argomento. Vi parlerò invece della caratterizzazione dei personaggi, che trovo essere un altro notevole punto di forza dell’autore.

Qui serve una breve ma indispensabile nota di gossip letterario: Francis Scott era sposato con tale Zelda, donna affascinante e moderna, ma nel contempo molto instabile. I Fitzgerald conducevano una vita festaiola e sregolata, amavano dare scandalo e sconvolgere il pubblico dei grandi party. Sembra che i loro eccessi siano gli stessi descritti dallo stesso Fitgerald in “Belli e dannati”, memorabile romanzo sull’ascesa e sulla caduta di una giovane coppia (riconducibile facilmente all’autore e alla moglie), ai tempi del ragtime.

Sono proprio i coniugi Fitz l’emblema dei Ruggenti Anni Venti. Questa profonda conoscenza della vita sociale dell’epoca, di cui l’autore non fu solo protagonista assoluto, ma spesso regista, porta lo scrittore a restituire diversi piani di interiorità dei suoi protagonisti. Solitamente i suoi uomini e le sue donne sono identificabili attraverso una stratificazione di emozioni, celate dietro maschere cerulee e brillanti, dietro sorrisi e complimenti di circostanza.

Sepolcri imbiancati, lucidati e carichi di brillantina.

E per finire consigli per gli acquisti. Esistono infinite edizioni di questo romanzo, oltre a quella Mondadori in foto: ultimamente lo potete trovare a 0,99 cent. della Newton Compton (per la verità i caratteri sono un po’ piccolo, quindi dotatevi di buoni occhiali).

 

“Madam Butterfly”: la donna che attende e poi decide.

Giulio Gasperini
AOSTA – La storia è quella nota dell’opera lirica di Giacomo Puccini, del 1904. L’aveva scelta perché affascinato dalla tragedia di David Belasco, vista a Londra. Fu la sua prima “opera esotica”, sulla scia di un entusiasmo per l’Oriente che stava contagiando tutte le arti della vecchia e stanca Europa. Fu nell’apoteosi del sacrificio femmineo dell’opera che la gloria di Madama Butterfly, ovvero la gheisa Cho-Cho-San, raggiunse l’acme della notorietà, la consacrazione nell’olimpo delle figure straordinarie delle arti. Ma forse in pochi sanno che l’origine dell’opera (e della tragedia) è una novella, di John Luther Long, edita nel 1898, che Avagliano editore ha ripubblicato nel 2009 nella collana “La straniera”. E forse in pochi sanno che la novella ha un finale agli antipodi della trasposizione operistica.
La novella di John Luther John ha degli aspetti che ancora la mantengono valida e preziosa, nonostante l’ipoteca di Puccini sulla storia e sulla figura della geisha lontana: il ritratto di Cho-Cho-San, nella novella, è fresco, leggero, soave. Fuori da complesse macchinazioni psicologiche, più facilmente riscontrabili nella tessitura di musica e parole, Long ha saputo in poche pagine plasmare un ritratto femminile di inaudita potenza e complessità, pur utilizzando sempre uno stile e un linguaggio semplici e diretti. Lo scarto tra la Cho-Cho-San di Long e la Madama Butterfly di Puccini si consuma tutto alla fine della vicenda, nel momento in cui i destini delle due trovano soluzioni diverse.
Cho-Cho-San si concreta come il paradigma della donna perennemente in attesa, della donna illusa, della donna rimasta bambina nel mito di un uomo che la possa amare, che la tratti come una regina, che la conservi al riparo dal mondo crudele che sta al di fuori delle mura domestiche. Come se codeste mura fossero il luogo più sicuro del mondo: ma già ai suoi tempi, nei suoi luoghi remoti ed “esotici”, le più atroci violenze si consumavano proprio all’interno della famiglia. Cho-Cho-San di famiglie ne avrebbe perse due: quella dei suoi familiari, della sua stirpe, della sua gente che la condanna per aver cercato di contravvenire a leggi ataviche e tradizionali. Si è innamorata di un uomo straniero, di un dominatore, di un invasore. Con lui ha concepito un bambino. Non si può meritare altro che l’abbandono, l’esilio. Ma Cho-Cho-San perde anche l’altra famiglia, perde il suo amore, proprio lui che l’ha allontanata dall’altra famiglia. Il destino di Cho-Cho-San pare segnato, pare dettato e condizionato dalla sofferenza, dalla colpa, dalla menzogna.
Ed è qui che John Luther Long rende Cho-Cho-San moderna, progressiva, orgogliosa e indipendente: si avvicina la decisione del suicidio, estrae la spada, “l’unico oggetto, fra tutti quelli appartenuti a suo padre, che i suoi parenti le avevano concesso di tenere”, si colpisce il petto, “il rivolo di sangue che le era sceso nel seno divenne di una tinta più scura e si arrestò”. Cho-Cho-San decide di vivere: decide di non concedersi al sacrificio per un uomo che invece di amarla l’aveva violata, insultata, offesa. Si salva grazie a suo figlio, si salva perché una scintilla in lei esplode e l’incendio divampa. Se non proprio simbolo di femminismo e di rivolta al maschilismo imperante, Cho-Cho-San è figura profetica, antesignana di sentimenti che a fine Ottocento eran forse prematuri ma proprio per questo sorprendenti in codesta novella. E così cantò, profetica, anche Fiorella Mannoia: “Ma scapperò via da qui / da questa casa galera / che mi fa prigioniera”.

La supposta modernità di Annie Vivanti.

Giulio Gasperini
AOSTA – Fu scrittrice notevole e famosa, ai suoi giorni. Nella sua figura Annie Vivanti concentrò aspetti diversi e mutevoli: si rese catalizzatrice e caleidoscopio allo stesso tempo di spinte femministe e globalizzanti. La sua storia fu già romanzo e lei se ne rese conto presto, trasformando ogni suo gesto e ogni suo scritto in una rivendicazione o in un manifesto. Fu prodotto di culture diverse, di lingue distanti, di geografie agli antipodi e con risolutezza si assunse la responsabilità di scelte coraggiose e anticonvenzionali, diventando ben più di altre acclamate femministe (un nome su tutti, Sibilla Aleramo), una figura di riferimento (e, per certi versi, di scherno) di chi timidamente stava cominciando a rivendicare un ruolo di maggior importanza e significato. Fu donna dalla scrittura asciutta e dal piglio sicuro, distante da certa enfasi dannunziana ma non completamente esente da ricadute nel sentimentalismo e nella liricità eccessiva d’una certa prosa d’inizio Novecento. Tanto che i generi dove il suo talento brilla con più chiarezza son la novella e il romanzo breve, mentre oramai pare tramontata la fiducia nei suoi versi, attraverso i quali si impose a fine Ottocento all’attenzione della società culturale. I racconti di “Perdonate Eglantina!” testimoniano in maniera paradigmatica i nuovi orizzonti verso i quali la fantasia e la disinvoltura narrativa della Vivanti si spinsero: compare una visione del mondo intercontinentale, con setting e comparse forse mai accolte prima in un testo italiano; si sente prepotente l’influenza della sua cultura britannica e inglese, anche a livello di lingua e utilizzo di lessico; non c’è timore, ma anzi orgoglio, di parlare di donne, descriverle in ogni loro declinazione, offrirle al lettore in vesti e situazioni diverse e complesse, senza mai svilirne l’importanza ma, all’opposto, offrendoci soluzioni alternative di considerazione.

L’agenda del Carducci: il 26 marzo compose la poesia in onore di Annie Vivanti

 

Divertono anche le buffe confessioni di una signorina che si impegna all’inverosimile per “Trovar marito”; affascina e meraviglia lo scambio di identità di due donne che trascorrono le vacanze nel medesimo albergo di montagna in “Celebrità”; non si può che ammirare il coraggio, non sempre sostenuto dalla riuscita narrativa, di un racconto ferocemente autobiografico ambientato nelle desolate terre del West americano, dove Annie si era trasferita col marito John e la figlia Vivien; si nota un po’ d’iniziale satira di “Mrs. Dalloway” nel racconto “Impegni”, che però termina in una prospettica agli antipodi, chiudendosi con un richiamo all’Italia a non dimenticarsi dei suoi veterani residenti all’estero; si cimenta la Vivanti anche con un genere noir, dai risultati non esaltanti, in “Distinta famiglia cerca istitutrice”; interessanti e innovativi sono i racconti “Visita ad una penitente” dove la scrittrice racconta la sua visita a un carcere femminile, descrivendo la condizione delle detenute, e il racconto “Giosuè Carducci”, una rievocazione dolce e malinconica della sua amicizia col poeta, dal giorni in cui si conobbero all’ultimo loro incontro.
Scrittrice trascurata, se non proprio dimenticata; sottovalutata, deve pagare lo scotto di non aver forse mai pubblicato un’opera di estremo impatto ma una serie di contributi che la rendono una scrittrice certo importante alla storia della letteratura italiana. Adesso, un distico di Carducci suggella il suo risposo: “Batto alla chiusa imposta con un ramoscello di fiori / glauchi ed azzurri come i tuoi occhi, o Annie”.

“112 motti che portano alla fine del mondo”

Michael Dialley
AOSTA – “Durante l’ultima persecuzione che subirà la Santa Chiesa Romana, regnerà Pietro il Romano. Egli pascerà le pecore fra molte tribolazioni. Passate queste, la città dei sette colli sarà distrutta, e il Giudice tremendo giudicherà il popolo”: questo dovrebbe essere ciò che spetterà all’uomo e, in particolare, alla Chiesa cattolica a breve, dopo l’elezione del successore di Benedetto XVI. Nello specifico è il 112° motto in latino che chiude la profezia di Malachia, così come racconta il saggio “I segreti della profezia di San Malachia” di Jean-Luc Maxence, edito da Bompiani nel 2000: il lettore viene accompagnato nella comprensione di questa profezia, a lungo studiata e che, così come ogni questione legata in qualche modo al soprannaturale, crea ipotesi e congetture.
Sono motti che identificano ciascun papato, partendo dal 1143 fino all’ultimo, collocato genericamente tra il 2000 e il 2031/2032; tale profezia in realtà è stata resa pubblica solo nel 1595 e non si conosce la vera natura di questi oracoli, tant’è che nel saggio non si analizzano quelli che sono precedenti al 1595, proprio perché potrebbero essere stati scritti postumi ai pontificati.
È straordinario pensare a come qualcuno abbia potuto scrivere questi incisi, spesso di poche parole, che raccontano un intero papato, ma è ancora più stupefacente quanto, anche dopo 400 anni dalla pubblicazione della profezia, questi motti possano coincidere effettivamente con il pontefice al quale si riferiscono: ovviamente si tende a pensare al pontefice in quanto singolo, ma Maxence ci aiuta a comprendere quanto in realtà ci si riferisca al papato e, talvolta, al periodo che coincide con un determinato governo pontificio. È un viaggio attraverso i secoli, attraverso tutti i successori di Pietro che rende il lettore partecipe della vita del Vaticano, affascinante e misteriosa: l’autore cerca di contestualizzare i motti analizzando il papato e la personalità del pontefice in questione e ne emerge per ciascuno un ottimo ritratto, nonché un’analisi sintetica ma efficace delle varie fasi della storia della Chiesa cattolica nei secoli. Durante ogni conclave ecco rievocata la profezia; addirittura nei secoli precedenti (e sicuramente per l’elezione di Clemente VIII, negli anni di pubblicazione della profezia) si utilizzavano questi motti per condizionare il risultato dell’elezione, mentre poi dal Settecento si è guardato a questi come una linea guida da mantenere durante il pontificio regno.
Oggi, nel 2013, ecco che viene ancora tirata in ballo la profezia di questa figura misteriosa, vaga, di San Malachia (importante personalità del XII irlandese), proprio in occasione dell’imminente conclave che ha due aspetti piuttosto inconsueti e nuovi: il primo l’elezione di un nuovo pontefice in seguito alle dimissioni, e non alla morte, del precedente; il secondo legato alla profezia stessa, in quanto questo sarà l’ultimo papa della storia della Chiesa cattolica.
Può affascinare, o far sorridere: l’autore ne dà un’interpretazione il più possibile legata a fatti storici concreti; nulla è dato all’immaginazione e alla pura congettura; ognuno ne tragga ciò che crede, riconoscendo, però, l’aspetto suggestivo che questa profezia porta con sé da 418 anni.

Da Ponte e Vienna: quando la cultura era più che politica.

Giulio Gasperini
AOSTA – Il 1790 fu anno cruciale, per l’Austria e il suo impero. Morì Giuseppe II, sovrano “illuminato” e attento alla cultura come manifestazione di prestigio e di potere. Leopoldo II ne prese il posto, deludendo le attese: al potere imperiale non riuscì a esser così liberale come durante il suo granducato in Toscana (per primo nel mondo, abolì la pena di morte nel 1786). Il sospetto, l’ansia, la fobia delle rivolte corrompono non soltanto il sistema politico, ma investono anche la cultura e i suoi rappresentanti; in particolare, coloro che della libertà di espressione e di seduzione han fatto le loro bandiere. Lorenzo Da Ponte è l’emblema di come la cultura, in ogni luogo e in ogni tempo, sia sempre stata vista con diffidenza da chi detiene il potere e sa (generalmente) che è pericolosa, perché fa sapere troppo. Ma veramente soltanto questi sono i motivi della caduta in disgrazia di Da Ponte, scelto da Giuseppe II come poeta di corte? Può esser stata fatale a Da Ponte solamente la scelta di libretti arditi e di tematiche scottanti? Può essergli costata la tranquilla e rispettata vita viennese solamente la sua liberalità, la lungimiranza e il suo spirito libertino? Rossana Caira Lumetti, nel suo testo “Da Ponte esiliato da Vienna” (Aracne editrice, 1996), getta una luce importante nella vicenda, presentando anche dei documenti inediti in italiano, tra cui un pamphlet, “Anti – Da Ponte”, nel quale si descrive un immaginario processo contro il canonico trevigiano, reo, tra le altre accuse, di aver copiato numerose opere di suoi colleghi.
La studiosa sottolinea come le motivazioni dell’allontanamento di Da Ponte da Vienna, che fecero cominciare i suoi peregrinaggi in tutta Europa per poi concludersi nei neonati Stati Uniti (dove fondò la cattedra di letteratura italiana alla Columbia University), furono ben più numerose e varie. Alla base, persino un odio personale: Da Ponte dimostrò subito le sue spiccate capacità imprenditoriali, entrando in contrasto con personalità di spicco della cultura viennese, tra i quali il Rosenberg e l’Orsini; ma anche con i grandi poeti della corte, in particolare con Casti. Da Ponte fuggì le unità aristoteliche, rinnegandole come materia gretta e inutile; mise in scena personaggi libertini e spregiudicati, quasi prendendo a modello i grandi personaggi del ‘700 europeo, che per l’ultima volta furono italiani (sé stesso, Casanova, Cagliostro); cercò un coinvolgimento del pubblico anche a livello metanarrativo e musicale, attraverso continue allocuzioni e apostrofi al pubblico in sala. Fatale fu per Da Ponte il nuovo senso di maggior disinvoltura e spregiudicatezza nell’arte e nei suoi allestimenti che stava cominciando ad affermarsi negli intellettuali di fine ‘700, in un’epoca che traghettò alla fine del mecenatismo e della commissione, e attestò la nascita della cultura come mestiere autonomo e indipendente.