Alessia Sità
ROMA – Si intitola “Magna Roma” l’ultimo libro di Ilaria Beltramme edito da Mondadori nella collana “Come fare”. Se amate la cucina casereccia e non volete rinunciare ai piaceri della tavola, questo valido ricettario vi farà scoprire i sapori e i profumi della cucina romana, regalandovi allo stesso tempo un imperdibile percorso storiografico.
Tante ricette gustose da sperimentare e degustare, riscoprendo anche antichi sapori prelibati: dagli Spaghetti alla gricia alla Trippa alla romana, dai Rigatoni con la pajata alla Coda alla vaccinara.
Il cibo è sempre più la chiave d’accesso al vero cuore di una città. Nella cucina c’è la storia, la geografia, il gusto e più in generale l’identità di un’intera comunità. Per quanto riguarda Roma, già Livio Jannattoni, Ada Boni e Aldo Fabrizi hanno pubblicato i ricettari definitivi, quelli con le vere ricette della tradizione romana: l’abbacchio, la coda alla vaccinare, i carciofi, la gricia e altre leccornie. Ilaria Beltramme con Magna Roma recupera in modo molto rispettoso questo patrimonio culinario, aggiungendo due elementi molto importanti: il primo è la sostituzione degli ingredienti che nel frattempo sono scomparsi dai supermercati; il secondo è svelare curiosità e aneddoti legati alle singole ricette. Anche l’appendice è molto gustosa perché contiene appunti sull’alimentazione ai tempi di Roma antica, notizie sui menu dei Conclavi, i giochi da osteria e la vera storia della “società dei magnaccioni”.
Categoria: Mondadori
Arriva “Le mie migliori ricette. GialloZafferano”, il libro che nasce dal web
ROMA – “Cucinare è raccontare una storia: quella della ricetta, delle infinite versioni elaborate in luoghi diversi e in momenti lontani, dei passaggi attraverso i quali è arrivata fino a chi la prepara. È una storia nella quale non credo ci debbano essere segreti, altrimenti si rischia che non ci sia più nessuno in grado di continuarla. GialloZafferano è il mio modo di raccontare quella storia: ho raccolto 130 ricette inedite e non, pescandole dal grande archivio che è diventato il mio blog e dalla mia creatività. Ci sono le mie preferite, i miei cavalli di battaglia, una decina di piatti “insospettabili” per stupire, tantissime idee per suscitare meraviglia e per preparare piatti espresso (ma da urlo), quelle che proprio non si può non cucinare una volta nella vita, le più ricercate dagli utenti e quelle che faranno impazzire i vostri bambini. E ancora: sofà food, finger food, Street food, piatti adatti a banchetti luculliani, a cenette tra innamorati, a serate con gli amici… Oltre, naturalmente, ai miei “segreti”: da madre di tre figlie posso dire senza incertezze che la cucina è bella se è condivisa, se il tavolo sul quale si mangia può accogliere tante persone, se è occasione di confronto e di ascolto. Tutto, con un paio di doverose eccezioni, è rigorosamente italiano: perché la nostra è la cucina più appassionante al mondo e perché vale la pena essere consapevoli dell’infinita varietà di possibilità, incroci e sapori che possiamo creare con gli ingredienti della nostra terra.” (dall’introduzione di “Le mie migliori ricette. GialloZafferano”, Sonia Peronaci, Mondadori)
Vita romana- un tuffo nel quotidiano dei sette colli
Marianna Abbate
ROMA – Roma è un bel posto. Ve l’assicuro, e ve lo ho anche dimostrato in un’antica recensione di un’insolita guida romana. Ma in questo periodo autunnale, con l’arrivo del fresco e del profumo di castagne mi è venuta un po’ di nostalgia. Ho riesumato dalla libreria del mio fidanzato un vecchio libro di buon gossip storico, e carteggiando ho ripercorso i momenti salienti della sua gloriosa storia. Il testo in questione è “Vita romana” di Ugo Enrico Paoli pubblicato nella collana Oscar Saggi Mondadori. Continua
"Il bacio di Lesbia": quando un bacio può essere tutta una vita.
ROMA – Cantò l’amore estremo, Catullo, quello che devasta e brucia, che distrugge e sconvolge. L’amore che fa odiare e amare con la stessa intensità, con lo stesso cieco furore, con la stessa caparbietà dell’errore. Ma come nacquero le sue poesie? Come si plasmò la sua vena poetica, la sua ispirazione d’amore? Alfredo Panzini accorre in aiuto alle carenze storiche – come molte volte accade nella storia letteraria – scrivendo “Il bacio di Lesbia” (Mondadori, 1937): un romanzo d’ipotesi, nel quale la storia si allaccia alla letteratura e poi alla politica e poi alla filosofia e poi alla religione e, perché no, alla leggenda che codesti personaggi innegabilmente nutrono e alimentano.
Leggenda che non diventa mai gossip, ovviamente; ma che anzi si configura come storia concreta, allettante, divertente perché si declina nelle forme tangibili di persone, di caratteri, di profili, ombre e luci eleganti.
Ci sono tutti, in questo romanzo che diventa simpatica commedia: c’è Cicerone che si barcamena tra gloria e politica, c’è Cesare che si prepara alla conquista del potere, c’è Crasso che con le sue ricchezze si preannuncia come pedina fondamentale, c’è il vivace mondo culturale romano, ci sono le donne (sorelle, madri, amanti) che diventano pedine nello scacchiere della politica, c’è il presentimento – che diventa poi cocente certezza – della fine della libertà romana, della sapienze democratica, della pace che ha chi sa di poter permettersi anche di sbagliare, pur di non perdere la loro possibilità dell’errore.
C’è, soprattutto, Lesbia: una donna brillante, intelligente, disinvolta. Una donna che il mondo lo sa affrontare e sconvolgere. Una donna che sa il mondo com’è, e lo sa analizzare, lo sa far gemmare, lo sa dischiudere di fronte alla propria capacità di tirare le somme, di collegare le cause e gli effetti. Ma, con la stessa intelligenza, lo sa anche ignorare, codesto mondo che si sgretola e che lascia al suo posto l’ansia dell’ignoto (o del troppo prevedibilmente noto). Lesbia è una donna che bacia, inoltre. È una donna che sa dar vita ai sentimenti, alle passioni, alle perturbazioni del cuore e alle sue intermittenze.
Catullo esplode nella poesia perché la poesia esplode nelle figure dei due amanti, trasformandoli in due entità quasi divine, in un’esperienza collettiva che si declina secondo tutti gli aspetti della realtà e della vita collettiva. Catullo esplode nella poesia, nel canto monodico, nel flusso cocente delle emozioni, perché il bacio di Lesbia lo dischiude, lo cinge di potenza verbale e immaginifica, lo solleva dal suolo che i comuni mortali calpestano, dalla storia che avanza e tritura quel che, di solito, pare estraneo alla vita e all’uomo. Perché un bacio può essere, spesso, un’intera vita.
"Maria", l’inizio del lavoro narrativo di Lalla Romano
Giulia Siena
ROMA – E’ il 1953 quando Lalla Romano (1906-2001), scrittrice e pittrice piemontese, dà alle stampe “Maria”. Quest’opera, insieme a “Tetto murato” del 1957, segna l’inizio del lavoro narrativo della più schiva e riflessiva scrittrice del Novecento. “Maria” è il tipico esempio di romanzo del Neorealismo, in esso confluiscono l’attenta osservazione del quotidiano e le considerazioni di un occhio perspicace, quale quello della Romano. Quest’ultima crea un romanzo sulla sua donna di servizio perché vede in lei un personaggio, la perfetta protagonista di un suo romanzo. La storia è quella di Maria, collaboratrice domestica presso la stessa scrittrice.
Tra loro si crea un rapporto di rispetto reciproco, di silenzi, di affetto e di tacita stima. Ma, sono evidenti tra le righe, le controverse sensazioni della scrittrice: ogni giorno è incerta sui comportamenti da tenere con Maria e, inoltre, è perennemente sorpresa al cospetto del mondo contadino che si fa vivido dal vivere della donna.
Il romanzo si svolge nell’arco di venti anni e in questi anni tutto muta, si evolve e si rafforza. Gli anni Cinquanta “impregnano” le pagine di questo romanzo; questi anni di passaggio, di novità e di differenze culturali ed economiche intaccano il ritmo e l’intreccio del romanzo: le vite di due donne diverse si incontrano e coesistono in un mondo che si rinventa poco a poco. Maria e Lalla hanno un ponte che le unisce, è il figlio della scrittrice, il protagonista de “Le parole tra noi leggere” (Premio Strega nel 1969) e, attraverso lui, che loro riusciranno a conoscersi e a solidificare un rapporto di stima e riconoscenza.
Lalla Romano, riprende in “Maria” i temi cari a Pavese (città-società contadina piemontese), quello stesso scrittore che criticò fortemente il romanzo della scrittrice poiché si disse “stufo morto di leggere storie di donne di servizio”. Forse il giudizio di Pavese fu troppo rigido. Infatti, le storie delle donne di servizio tornano attuali negli anni Ottanta quando Magda Szabò, la più importante scrittrice ungherese dello scorso secolo, pubblica “La porta”(1987). Ed in questo libro torna il rapporto di Lalla e Maria, tornano i sentimenti convulsi e forti di una scrittrice che osserva il suo mondo nel quale vive un personaggio a cui dare voce.
“Caro Michele”, un epistolario denso di emozioni e di ricordi
"Dell’amore e di altri demoni", il romanzo del 1994 di Gabriel Garcia Marquez
Campo libero all’immaginazione con "Se una notte d’inverno un viaggiatore"
Stefano Billi
"Casa nostra": sintomatologia d’un paese sofferto.
Quanto costò farne l’Unità, dell’Italia? Quali conseguenze comportò? Quali furono le soluzioni adottate per superare gli ostacoli? La Cederna, con la sua scrittura incalzante di ragionamenti serrati e disarmanti, considera la delicata situazione del sommerso, del parastatale, dello statale che si infetta, dei legami oscuri che si instaurano tra chi approfitta e chi viene sfruttato, tra chi ha i soldi e chi ne ha bisogno, tra chi comanda e chi esegue.
Quello della Cederna diventa un vero e proprio catalogo di morti, di crimini, di cadaveri: un flusso inarrestabile di sangue che non conosce dighe né argini, che si infiltra distruggendo ogni parvenza di legalità, di norma, di sicurezza. La Cederna indaga, creando un giornalismo d’inchiesta che è anche elegante prosa, raffinata costruzione verbale e periodica. Ma l’argomento, per gli italiani, è vecchio come il mondo, la questione dibattuta infinite volte e mai giunta a una conclusione. Perché l’omertà, la reticenza, la diserzione, la latitanza (di uomini e istituzioni) sono atteggiamenti che ci han sempre caratterizzato, anche oltre quel lontano 1848, anno così cruciale e determinante per le vite di coloro che saranno chiamati, a tutti gli effetti, in ogni documento e ogni legge, “italiani”.
"Il prato in fondo al mare": il ‘cold case’ della morte di Ippolito Nievo
ROMA – Giorni famosi, eran quelli. Giorni di febbricitante esaltazione, di tremori, di rischi corsi ma affrontati col coraggio di chi sa che, per suo merito, i suoi figli avranno qualcosa di cui esser grati. Un giovane, dal destino furioso, dal carattere ombroso e schivo, scelse la letteratura come arma di riscatto e di educazione, di coinvolgimento e di speranza: si chiamava Ippolito Nievo. Scrisse molto, nella sua vita: poesie, drammi, novelle. Ma il suo nome splenderà solo con la pubblicazione, postuma ben s’intende, delle Confessioni di un italiano, colossale romanzo scritto in breve tempo, quasi di getto, e così sfacciatamente patriottico fin già dal titolo.
Il pronipote Stanislao, in “Un prato in fondo al mare” (Mondadori, 1974), dopo più di un secolo, provocatoriamente, torna a discutere e a parlare della fine, misteriosa quanto crudele, del suo antenato. La morte d’Ippolito sarebbe, nella nostra epoca di serial televisivi, un cold case, un caso mai chiuso perché mai affrontato concretamente. Quanto mistero, quale potente ombra d’omertà si allunga sulla morte di quest’uomo – giovane uomo – che si era unito alle truppe garibaldine: perché, come tutti i grandi uomini, capì che la letteratura non poteva essere disgiunta dall’azione, dalla responsabilità del fare attivo, del fare pratico.
Difese a tal punto l’amministrazione garibaldina che si recò a Palermo, nel 1861, per raccogliere la documentazione necessaria per smentire una campagna diffamatoria. Il 4 marzo si imbarcò a Palermo, lui che non amava il mare, a bordo del vapore Ercole. Ed è da qui che comincia il mistero: un mistero su cui Stanislao cercò di portare un po’ di luce, un minimo di chiarezza. Cosa accadde alla nave? Perché non venne soccorsa durante un’improvvisa tempesta? Cosa videro effettivamente due navi che si trovavano a navigare sulle stesse rotte dell’Ercole? Chi fu la misteriosa figura del marinaio sopravvissuto a un naufragio, trovato su una spiaggia, ricoverato in un ospedale di Napoli e poi misteriosamente scomparso? Fu una bomba a distruggere la nave (gli attentati “statalmente” e “istituzionalmente” riconosciuti e approvati esistevan già a quel tempo) o fu solo colpa d’un caso avverso? C’era chi non desiderava che Ippolito arrivasse coi suoi documenti e con la sua verità o fu effettivamente solo una triste coincidenza di fattori naturali?
Era partito da Palermo, Ippolito, con destinazione Napoli; del mare aveva paura, ma era pieno d’ardore giovanile, di ideali e di utopie: di tutti quei particolari di cui si nutron i giovani. A Napoli, però, non arrivò mai. Né il relitto fu mai trovato, sepolto per sempre sotto metri di mare e presunti silenzi di omertà.