“Nel mare del caso” con la congiura della parola.

Giulio Gasperini
AOSTA – Esplode come un thriller, come un giallo psicologico il nuovo romanzo di Gianni Nuti, “Nel mare del caso” (Mauro Pagliai Editore, 2012). Ma il cadavere che subito si racconta, che si presenta con nome cognome e indirizzo – quasi esigenza di novello battesimo e riconoscimento sociale – non ha fretta di accompagnare il lettore al disvelamento del colpevole. Ci fornisce gli indizi, ma sempre in sottrazione, avanzando alla ricerca non tanto del (presunto) omicida, quanto della sua intima ultimazione personale, frammento su frammento, ricordo dopo ricordo; ammissione su ammissione.
La storia – la cornice più ampia – è una saga familiare: un uomo e una donna, entrambi dai pensieri silenziosi ma dai gesti pratici, si scoprono a dover amare la loro figlia affetta da tetraparesi spastica. La fredda clinicità della diagnosi pare togliere il valore umano della bambina, pare negarlo risolutamente, come se prima di tutto quell’esserino nuovo di zecca fosse un problema da risolvere e non una vita da coltivare. La guerra dei genitori comincia da subito: una guerra contro tutto il mondo. Anche contro sé stessi, auto imputati di non esser stati in grado neppure di concepire un figlio che fosse “normale”. Poi una guerra contro tutti gli altri, in un continuo sentirsi giudicati e compatiti; è un suicida gioco alla ricerca dei motivi di questo naufragio “nel mare del caso”, di questa che pare punizione riservata ai più miserabili tra gli uomini.
Nessuno, però, pare soffermarsi sulla ragazza, su Alma, che vive nei suoi tempi, che gestisce le sue pause, che alimenta le sue ragioni. Alma si fa sentire, urla disperatamente nel romanzo, proprio perché nella vita nessuno l’ha ascoltata, nessuno l’ha sentita, diffidando (e fraintendendo) della sua afasia. Nessuno, realmente, ha capito che la velocità non è la stessa per tutti. In definitiva, nessuno ha capito (o voluto comprendere) tutta la potenza della sua diversità. Forse la sorella, la piccola Paola che, nata dopo, si è trovata troppe responsabilità a gravarla, troppi significati di cui rivestire la sua esistenza. Tanto da maturare una decisione estrema, di privazione del corpo, quasi in un contrappasso che odora di punizione, di crudele inflizione.
La pregevole tessitura di tipologie narrative, dal racconto in terza persona alla lettera, forma ben calibrata di confessione, aumenta il ritmo e lo impasta di attesa, di tensione intima ed emotiva. Lo stile è diretto, scarno, con alte punte di liricità, soprattutto nella descrizione del rapporto biunivoco tra umani e ambiente. Tutto, insomma, dal punto di vista stilistico e tecnico, supporta il pellegrinaggio dell’anima di Alma, la sua significazione che altro non è se non un ultimo, disperato tentativo – ricorrendo alla parola scritta, visto che quella sussurrata, quella spezzata della voce, è stata pressoché inutile – di quantificare la propria vita: un’apologia spietata, una grammaticalizzazione intima che può contare su una consapevolezza feroce, lucida, disarmante.
Alla fine, non importa neppure aver la certezza di chi sia l’assassino, o se un assassino ci sia mai effettivamente stato. Alla fine, ciò che importa è capire la potenza e il ruolo della parola. Perché questo è un romanzo delle poche voci. Le uniche, le più, non per caso, sono quelle dei medici, della scienza: di quanto, insomma, più concreto e risolutivo possa esistere. Ma le vite, le esistenze, ebbene, loro non conoscono una parola che sia esclusiva ed esauriente. E soprattutto una parola che crea fraintendimenti. Perché la parola congiura. Spesso, la sua assenza equivoca. Non c’è possibilità d’appello, per chi non conosce il verbum. Come ci si può difendere? Soltanto gli occhi, soltanto i gesti paiono non esser abbastanza. Paiono non esser quasi nulla. Ma le ultime parole di Alma, rivolte soltanto a noi lettori, sono un testamento lirico, una decisa e risoluta ammissione di consapevolezza; mai tardiva, ma netta, inappellabile. Perché ogni vita ha una meta e non c’è mai indifferenza. Ci può essere distanza, incapacità comunicativa, insofferenza emozionale. Ma mai indifferenza.

“Brezze moderne”: la raccolta poetica di Pietro De Bonis

Alessia Sità
ROMA –Esiste la poesia/allora esiste Dio!/Come quando non conosci i dolori/Ma vedi lo stesso gente piangere.”

Sono questi i versi che compongono “Continuerò a non morire se Dio vorrà” una delle poesie contenute in “Brezze moderne”, la raccolta poetica di Pietro De Bonis pubblicata da Lupo Editore.
Il volume è suddiviso in tre parti: Poesie, Intermezzi e Aforismi. La prima parte è costituita da liriche dall’estensione e dalle tematiche variabili; mentre nelle ultime due parti, l’Io poetico è continuamente impegnato a indagare non solo su se stesso, ma anche sull’uomo e sulla società attuale. Leggendo “Brezze moderne” non ho potuto fare a meno di ricordare la bellissima “Commiato” di Giuseppe Ungaretti, nella quale il poeta spiegava all’amico Ettore Serra cosa fosse per lui la poesia.  “Gentile/Ettore Serra/poesia/è il mondo l’umanità/la propria vita/fioriti dalla parola/la limpida meraviglia/di un delirante fermento/Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso.” Come per il grande Giuseppe Ungaretti, la poesia del giovanissimo Pietro De Bonis sembra essere il risultato di una sofferta e profonda operazione di ‘scavo’ nell’’abisso’ della propria anima e del proprio solipsismo esistenziale. Liriche come “Più cresco”, “Invaso”, “Libertà” e molte altre ancora, testimoniano la necessità di far conoscere al mondo le proprie personali emozioni, oltre che la propria percezione della vita quotidiana. L’autore sonda costantemente l’animo umano, scendendo nei meandri più oscuri dell’uomo, per meditare sul vero senso della vita. “Pensavo al cielo, lo vediamo celeste ma in realtà dall’universo è nero. E lo stesso il mare, in riva è azzurrino chiaro e lontano si scurisce. Tutte le cose da vicino sono più chiare e belle, più le avviciniamo e più si fanno vedere. Forse occorre più vicinanza tra gli uomini del mondo”. Proprio in questo bellissimo monito, contenuto nella parte dedicata agli Intermezzi, sembra essere riposto il messaggio della raccolta “Brezze moderne”. Mai fermarsi alle semplici apparenze, soltanto continuando a scandagliare le mille sfaccettature dell’animo umano potremo raggiungere la verità delle cose. Del resto, “I colori veri della vita non sono quelli che si vedono, ma sono quelli che si acquistano amando.” Con grande sensibilità, Pietro De Bonis ci regala una raccolta poetica che ci esorta a meditare attentamente sui nostri attuali tempi e sulle nostre piccole e grandi emozioni che, spesso, mettiamo a tacere per paura di svelarci troppo fragili.

“Sul ciglio del dirupo”, storie di vita

Giulia Siena
ROMA
“Io non sono nient’altro che un involucro, una scatola che contiene uno strumento che viene suonato, ma non da me. Sono passiva a quello che capita, ho smesso di cercare di influenzare le cose quando non ho trovato altra strada da percorrere che accettare.” A dirlo è Monica, protagonista de “Sul ciglio del dirupo”, il racconto che chiude la raccolta e da cui prende il nome il libro di Emiliano Reali pubblicato da Ded’A Edizioni. Monica è soltanto una dei tanti protagonisti che affollano i diciotto racconti di Reali. Sono storie di vita, storie di donne e uomini, storie di disagio, emarginazione, determinazione. Storie di amore, omosessualità, malattia, partenze e arrivi.
La storia di Fabio che in “Senza pelle” (2004) si ritrova sulla strada a condividere la coperta di un nomade e il fuoco di una prostituta. Fabio però non ha pelle e non ha forma per i passanti o per i clienti che si fermano, ai loro occhi lui non appare. Ma di notte, su quella strada, una macchina perde il controllo e la sua vita torna a prendere consistenza, pelle. La storia di Lina (“Gli uomini di Lina”, 2008) che ammalia e regala piacere attraverso una chat; per gioco, per provocazione, per ribellione e per libertà. Clara (“RH Negativo”, 2005) ha voglia di evadere dal suo mondo piccolo borghese. Lei ha tutto, ma ha bisogno di altro e questo lo trova nei tasti di un pc, tra le righe delle conversazioni via chat con i suoi misteriosi amici. Il mistero l’attrae, ma ne viene travolta fino a scoprire il sottile legame di sangue che lega in modo indissolubile.

Dopo il successo di “Se Bambi fosse un trans” (Azimut, 2009), con “Sul ciglio del dirupo. X anni di storie da raccontare” Emiliano Reali racconta le emozioni con un piglio provocatorio in cui dolcezza e realismo si mescolano.

 

“Tutti dicono Maremma Maremma”, una terra che soffre e lavora.

Giulio Gasperini
AOSTA – La Maremma è terra contadina. Un luogo faticosamente e ostinatamente sottratto alle acque stagnanti e malariche, bonificato da una palude arida e sterile. La Maremma è terra che conosce il sudore del duro lavoro e sa la fatica della privazione e dell’importanza vera. Venti scrittori italiani, da Lidia Ravera a Nadia Fusini, da Daniela Marcheschi a Clara Sereni, da Giuseppe Pontiggia a Ugo Riccarelli ne raccontano gli abitanti e gli umori, le storie e le sofferenze in venti storie, raccolte nel volume “Tutti dicono Maremma Maremma”, edito dalla piccola Edizioni Effigi di Arcidosso (Grosseto), nel 2010.
I racconti sono tante angolazioni prismatiche che illuminano e colorano una terra da sempre ai margini dell’economia e della cultura italiana ma che alimenta potenzialità immense e dà vita a un’umanità contagiosa e contagiante. Non esiste la Maremma senza l’agricoltura, la coltivazione di viti e ulivi, di ombrosi boschi di castagni e immense distese di dorato grano, di sterminati campi di girasoli e bassa vegetazione che si specchia nel tosco mare. E tutte le storie hanno questi, come setting privilegiati. Giuseppe Pontiggia racconta la storia della scoperta del Morellino, bevuto quasi per caso in una dimessa osteria del grossetano; Guido Conti ci presenta la figura leggendaria di Tiburzi, il più famoso brigante che operava in queste distese alla fine dell’800; sulle leggendarie strade del tufo, con destinazione le splendide Pitigliano, Sorano e Sovana, ci guida Andrea Carraro, mentre Laura Bosio ci commuove con la storia di altre anonime persone, impiegate nell’altra attività che per anni caratterizzò l’economia della zona: l’estrazione di pirite e carbone, sui quali anche Luciano Bianciardi e Carlo Cassola scrissero un’indagine cruda e spietata all’indomani della tragedia di Ribolla che, nel 1954, costò la vita a 43 minatori. Bianca Garavelli ci presenta una delle meraviglie naturali della zona, il vecchissimo Olivo della strega, mentre Carlo D’Amicis dipinge la crudeltà dei rapporti, quando un fraintendimento può costare la vita. In tutti i racconti casolari e poderi, cavalli e butteri, olio e vino, raccontano storie di lotte e giorni da conquistarsi coraggiosamente, uno dopo l’altro, inanellati come grani di un rosario; giorni strappati alla furia del tempo e del lavoro, giorni da riempire e significare con la costanza di mestieri antichi, che si sottomettono al ciclo delle stagioni e che ne assecondano le pieghe, senza pretendere di deviarle o corromperle.
La Maremma è una terra di uomini ruvidi, di duro lavoro, di mani callose; ma anche di occhi chiari, puliti di vento; occhi che si addolciscono al profilo delle colline, che si indorano al sole della sera; occhi che conoscono l’orizzonte ma non lo bramano, contenti di contemplare il limitare del campo, lo scorrere del fosso, il frusciare delle foglie, il maturare di un frutto, l’esplodere di un colpo di fucile. La Maremma è una terra caparbia e ostinata; una terra che sa soffrire e rifiorire. Anche quando l’acqua sale, travolge e distrugge tutto.

Il fascino intramontabile di uno scrittore

Luigi Scarcelli
PARMA“Il desiderio[…]è costante in una donna o in un uomo sano[…]. L’Amore, l’amore vero è raro”
1944. Mentre Londra viene dilaniata dai bombardamenti della II guerra mondiale, in un villetta di Regent Park, lo scrittore H.G Wells vive i suoi ultimi mesi di vita consapevole della malattia che sta degenerando nel suo corpo. E’ questa l’ambientazione di partenza di “Un uomo di fascino”, il libro di David Lodge edito da Bompani.

Lodge accompagna il lettore alla scoperta della vita e personalità di H. G. Wells, ne ripercorre le fasi che lo hanno portato a comporre capolavori come “La macchina del tempo” e “La guerra dei mondi”, dando voce ai ricordi del celebre autore sotto la forma di un colloquio interiore intrapreso dallo scrittore stesso.
H. G. Wells rivive mentalmente la sua vita, partendo dall’infanzia fatta di povertà dignitosa, passando per i primi impieghi lavorativi come insegnante fino ai grandi successi letterari. Il filo conduttore della sua vita è il rapporto conflittuale con l’altro sesso e l’amore: padre di due figli , uno dei quali  “naturale”, Wells ha vissuto in maniera contraddittoria il rapporto con le donne, diviso tra rapporti occasionali, cercati per dare sfogo alla sua passionalità,  e matrimoni paradossalmente falliti per problemi nell’intimità coniugale.

Lo stile del romanzo propone una struttura da intervista quando Wells è immerso nel suo colloquio interiore, e passa ad uno stile descrittivo e a tratti accademico, ma mai banale. L’autore basa il suo racconto su una serie di documenti e citazioni originali, cercando di riprodurre fedelmente i vari momenti della vita di Wells, usando la sua bravura solo per completare e rendere vivo ciò che è riportato o immaginabile dalle  fonti, come un restauratore che rimette in sesto un’opera d’arte.

Un viaggio affascinante nella storia privata di uno dei più grandi scrittori moderni, in un libro che si presta ad una possibile trasposizione cinematografica.

“Asia non esiste”, suicidi con il sorriso

Silvia Notarangelo
ROMA – Il corpo di Giulia fluttua nell’aria e si schianta al suolo. Nessuno la spinge. È lei che deliberatamente si lascia cadere dalle mura del Bastione ponendo fine alla sua breve esistenza. Ma Giulia è solo la prima: la seguono, in ordine di tempo, Emanuela, Marco, Carla e tanti altri. Minimo comune denominatore: giovani, ricchi e felici. Segni particolari: suicidi. Un vero e proprio rompicapo irrompe nella vita di Libero Solinas, il commissario creato dalla penna di Emanuele Cioglia. “Asia non esiste” è il titolo dell’ultima, complessa indagine che vede protagonista il commissario e la sua squadra. Con un ritmo serrato, attenzione ai particolari, una giusta dose di ironia ed inquietudine, Cioglia mischia sapientemente le carte, riuscendo a creare attesa ed incertezza fino alla fine del romanzo.

L’interrogativo iniziale è più che legittimo: perché interessarsi al suicidio di ragazzi ricchi e felici? Il reato non sussiste, a meno che non si tratti di ex art. 580, istigazione al suicidio…Solinas sente che qualcosa non torna, ma è in un vicolo cieco e, impotente, osserva crescere, giorno dopo giorno, il numero di vittime che si tolgono la vita “con il sorriso”.
Lui è sempre lo stesso: rude, scorbutico, talvolta un’autentica carogna. Nel tempo, non ha perso il piacere di abbandonarsi ad elucubrazioni linguistiche, fantasticherie, monologhi interiori, né è riuscito a liberarsi di quella dipendenza da alcool e nicotina che, spesso, sembrano inebriarlo fino al punto di farlo cadere in uno stato di incoscienza. A riportarlo con i piedi per terra ci pensa sempre Carla, la sua compagna poliziotta, che non perde occasione di stuzzicarlo: “Purtroppo sei un maschio, così come mangi senza masticare, non cogli le sottigliezze”. Solinas abbozza amaramente, Carla ha ragione e lui lo sa.
In questo caso, però, i dettagli assumono la forma di inconfessabili macigni. Il commissario brancola a lungo nel buio, non ha un appiglio, il tempo passa e niente sembra condurlo nella giusta direzione. Proprio quando sembra aver perso le speranze, rassegnandosi a far archiviare il caso, accade l’imprevedibile. La soluzione di tutto “si presenta”, bussa alla sua porta, chiede aiuto. Solinas inizia a rimettere insieme i pezzi del puzzle. Tra una sbornia, una liberatoria pedalata in bicicletta e un pranzo indigesto con Arquazzi, lo stravagante medico legale, la verità sarà faticosamente portata alla luce. Una storia sconvolgente, raccapricciante, in cui vittima e carnefice si confondono in un gioco torbido, dalle regole precise, in cui uccidere diventa “l’unico modo di vivere”.

“Lo specchio del mio segreto” il nuovo romanzo di Samar Yazbek, autrice del best seller “Il profumo della cannella”

 

Alessia Sità

ROMA “Ma perché andarci? Non si domanda perché Said Nasser l’ha abbandonata per anni? Cosa vuole da lui, dopo tutto quello che è successo? Forse chiedergli perché le ha fatto questo. Forse lo ama ancora. Il cuore di Leila ha smesso di battere. E lei ha capito, nelle notti del suo lungo vagare dentro la prigione, che non avrebbe più ricominciato. Perché ha aspettato tutti questi anni per andare da lui? Vuole sapere per quale motivo si strugge al pensiero di vederlo: è voglia di morire o voglia di tornare a vivere?”
Samar Yazbek, autrice del best seller “Il profumo della cannella”- censurato in Siria dall’Unione degli scrittori arabi – torna in libreria con nuovo seducente romanzo: “Lo specchio del mio segreto” pubblicato da Castelvecchi Editore. Fra passione, erotismo, odio e vecchi rancori, si dipana la conturbante storia di Leila e Said. Lei, giovane e affascinante attrice a Damasco, appartenente alla setta degli Alawiti. Lui, soldato sunnita temuto ed esasperatamente fedele al suo Presidente, “(…) diventato la cosa più importante che aveva nella vita, più dell’idea del matrimonio o delle scappatelle con le donne, che erano ormai di dominio pubblico”. Purtroppo, l’eccessiva o forse anche ossessiva devozione al Regime, trasformano e induriscono il cuore del ragazzo, che decide di mettere a tacere i suoi sentimenti per la bella Leila al-Sawi nel nome della politica e del suo totale asservimento. E, infatti, quando la Ragion di Stato irrompe nelle loro vite, Said decide di abbandonare la sua amata alle più atroci torture e violenze del Regime e della prigionia. Nonostante l’agonia subita durante gli anni del carcere, lo sfinimento del corpo e la mutilazione dello spirito, Leila non ripudierà le proprie origini e le proprie credenze. La fede religiosa e l’idea della reincarnazione, le daranno la forza per continuare ad andare avanti, mettendo alla prova il suo amore. Attraverso una serie di flashback, Samar Yazbek ricostruisce lentamente la travagliata relazione fra i due disperati amanti. In ogni pagina rivivono storie, voci e profumi del passato. Con un stile a tratti fiabesco, la scrittrice siriana ci regala un romanzo fatto di donne, passione e sentimenti. “Lo specchio del mio segreto” ci trascina in una terra lontana, facendoci scoprire la bellezza, la storia passata e la sofferenza di un Paese che brama ancora troppa libertà.

 

“Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi

Alessia Sità
ROMA –Si era accorta presto di non essere sola. Due persone la abitavano lottando furiosamente”.

E’ un vero dissidio interiore quello vissuto da Clara, protagonista di “Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi edito da Ugo Mursia.
Con straordinaria leggerezza, l’autrice ci conduce in un vortice di emozioni che investono e travolgono impetuosamente tutti i protagonisti. Clara è una donna di quarant’anni con due matrimoni alle spalle e due figli ormai diventati grandi. Sin dalla sua infanzia ha sempre agito per non deludere gli altri, ma dopo aver conosciuto un uomo sposato, Juan, che le ha fatto scoprire l’amore – quello che fa gioire e soffrire crudelmente allo stesso tempo – Clara giunge finalmente alla piena consapevolezza che la sua vita non può “più essere una continua richiesta di approvazione”.
Durante una vacanza in Costa Azzurra, la donna si ritrova a fare un bilancio della propria esistenza e a ricostruire, attraverso numerosi flashback, quest’amore esploso improvvisamente durante un’estate rovente. Fra un ricordo e l’altro, Clara rivive la sua turbolenta e irrequieta vita: dalle amicizie ai primi amori adolescenziali; dalle prime esperienze sessuali a quelle da donna adulta e matura; dalla vita matrimoniale a quella furtiva vissuta da amante. Fra ricordi, canzoni, volti e scenari mozzafiato, pagina dopo pagina, Clara mette a nudo la propria anima, sondando anche i meandri più oscuri che la abitano. “Qualche lontano amore” è un vero viaggio interiore intrapreso non solo dalla protagonista, ma anche dal lettore, che soffre e ama disperatamente insieme a Clara.
Con grande capacità introspettiva, Carla De Bernardi ci regala un vero romanzo di formazione, dove a compiere un processo di crescita e consapevolezza è una donna coraggiosa, che non teme di vivere pienamente i propri sentimenti, di qualsiasi natura essi siano.

 

“La mano destra del diavolo”, smooth criminal

Marianna Abbate
ROMA – Un sicario si prepara alla prossima missione. Ascolta i fatti, segue i suggerimenti e prepara le armi. Ogni tanto legge poesie e racconti radical chic e sorseggia un bicchiere di latte per placare la gastrite.

Nelle prime due pagine ho faticato a districare le fila dei nomi stranieri che sfilavano davanti ai miei occhi, ma già a pagina cinque avevo capito molte cose…

Presa da un fremito ansioso, ho frugato il libro alla ricerca della data della prima pubblicazione, che non ho trovato (è questa l’unica nota dolente della pubblicazione Voland, che per gli altri versi è veramente pregevole, anche da un punto di vista grafico). Da vero lettore degli anni ’10, mi sono armata di Google e ho scoperto che si trattava di un libro del 1967. Tutto ciò per dirvi che la mia brillante associazione intuitiva agli spaghetti western era esatta.

Sulla quarta di copertina ho trovato un mistero legato all’autore Dennis McShade, alias Dinis Machado, ma questa volta Google non mi è stato di grande aiuto, nonostante mi sia presa la briga di leggere la voce di Wikipedia in portoghese.

Così non siamo rimati che io e lui. Io e il libro si intende, a fronteggiarci e a cercare di capire il più possibile dell’altro. Questo subdolo individuo ha cercato di sedurmi addirittura citando Dvorak, un colpo basso e veramente immeritevole.

Ma devo riconoscere che ne sono uscita ammaliata. Sentivo quasi il caldo afoso, l’aria della vendetta, il sale della sconfitta e la puzza della paura. Sarà che è giugno, si muore di caldo e forse sarebbe ora di farmi una doccia- ma credo che sia tutto merito dell’autore.

Anche senza Google avrei potuto datare questo libro con certezza, una volta le parole sapevano emozionare da sole. Non c’era bisogno dei miseri escamotàge da scrittura creativa, né di vocaboli  eccessivamente volgari.

Da leggere, magari quest’estate- e da passare a tuo marito.

 

“L’odio. Una storia d’amore”

Giulia Siena
ROMA
“Fuori c’è il sole, il cielo chiaro, una radura piena di fango, il sottobosco e la strada coi cumuli di neve qua e là. E’ una cosa pazzesca. Tutto è esagerato. Sin dall’inizio.” Ossessione. L’amore è un tormento che pulsa nelle tempie. L’amore è un ricordo adolescenziale che non si lava via con il tempo. E questo Stefano lo sa. Sa che Barbara continua a essere il suo tarlo. Ricorda lei, la loro adolescenza, il tempo che è passato e il suo amore allontanato. Emanuele Ponturo prende spunto da un fatto di cronaca per il suo primo romanzo “L’odio. Una storia d’amore”. Il libro, pubblicato da Fermento, è  una favola moderna dalle tinte fosche. Stefano, il protagonista di questo romanzo dalle sfaccettature noir, torna dopo anni nel suo quartiere, sotto casa di Barbara e vicino la loro scuola. Torna con la mente alla sua adolescenza, arriva con il ricordo a quando – dopo la morte di sua madre – fuggì dalla Magliana con l’assordante pensiero di Barbara. Lei, Barbara aveva qualche anno in più di Stefano e per lei lui era solo un amico di suo fratello. Ma ora Stefano ha trovato nella ragazza del pub un po’ di Barbara. Monica sogna il principe delle favole e Stefano la porterà nel bosco.

L’autore tratteggia una storia che si gioca sul filo del doppio. L’ambivalenza di sentimenti è speculare all’ambivalenza dei tempi narrativi: passato e presente si mescolano, si intrecciano e scompaiono nei luoghi in cui si svolge la vicenda. “L’odio. Una storia d’amore” è  un romanzo intenso; i capitoli sono cadenzati da lettere ricche di poesia, da liriche in cui struggimento e passione danno spinta all’elemento narrativo.