“Un matrimonio e altri guai”: effetti indesiderati di un’unione

Silvia Notarangelo
ROMA – Il titolo dice tutto, “Un matrimonio e altri guai”. Sì, perché spesso le tanto desiderate nozze sono precedute da tensioni, preoccupazioni, inaspettate prese di posizione che rischiano di offuscare, se non addirittura di pregiudicare, il lieto evento.

Ne è consapevole anche l’autrice di questo romanzo edito da Garzanti. Con leggerezza, ironia, sensibilità, Jeanne Ray riesce a cogliere e, talvolta, sdrammatizzare tutte quelle situazioni, quegli interrogativi, quelle perplessità che ossessionano i familiari degli sposi.
L’atmosfera si preannuncia elettrizzante fin dall’inizio: una futura moglie dall’apparenza raggiante ma intimamente tormentata dai dubbi (meglio lui o l’altro?), un futuro marito ricchissimo e inappuntabile, una zia disperata che arriva all’improvviso dopo essere stata scaricata dal marito per una giovane amante.
L’incontro, tra i due tendenzialmente opposti stati d’animo, avviene in una casa dove, con tempismo perfetto, le fondamenta stanno pian piano cedendo rendendo precaria l’intera struttura. È la casa di Tom e Caroline, i genitori della sposa. Lui difensore d’ufficio, lei insegnante di danza, sono ancora innamoratissimi, pur essendo “inciampati nel matrimonio, nell’essere genitori, nella vita” a soli vent’anni. Ora, però, è diverso, perché a compiere il grande passo è Kay, la loro bambina ormai cresciuta, che sfoggia al dito un incredibile anello di fidanzamento. Tutto bene, dunque, se non fosse che sposare Trey Bennett, il miglior partito della città, significa intraprendere l’insidiosa strada dei preparativi di un matrimonio a cui, limitandosi agli intimi, non possono partecipare “meno di mille invitati”. E, come da tradizione, le spese della cerimonia spettano alla famiglia della sposa.
È il panico. Tom e Caroline iniziano a fare i conti, non ce la faranno mai. E allora che cosa fare? Ammettere la propria inadeguatezza economica, nella velata speranza che Kay si accorga nel frattempo di amare l’altro, “il povero”, o far finta di niente ed affidarsi ad un miracolo? In un susseguirsi di confessioni inattese, improvvisi isterismi, vecchie questioni mai risolte, si arriva alla fine della storia con una consapevolezza: i guai non arrivano mai da soli.

ChronicaLibri intervista Virginia Less, autrice di “Mal di Mare”

Alessia Sità
ROMA Qualche mese ho avuto il piacere di leggere e recensire “Mal di Mare“, il brillante romanzo di Virginia Savona Less, edito da Autodafé Edizioni. Sono stata decisamente conquistata dal simpatico personaggio del Capitano Osvaldi e dalle sue intriganti indagini, narrate in ben sette episodi .

ChronicaLibri ha intervistato l’autrice.

Già dal titolo del suo libro, “Mal di mare”, si intuisce il suo legame con l’acqua, infatti ho letto che è una velista. Per lei il mare rappresenta una fonte di ispirazione?
Ho trascorso le estati dell’infanzia e dell’adolescenza a Sperlonga, sulla costa laziale. Il rapporto con l’acqua, sopra e sotto, non poteva che riuscire felice. Alla vela mi sono accostata giovanissima grazie al mio esperto “capitano”(poi marito). Mi viene dunque  spontaneo parlare del mare  e trovo emblematica l’ambientazione. Per attraversarlo – come nel nostro vivere – occorre tracciare e seguire la rotta; farlo a vela richiede pazienza, intuito e raziocinio. Le doti che ho attribuito a Osvaldi, il quale deve muoversi in acque melmose verso mete elusive.
Come nasce il personaggio del Capitano Osvaldi?
Nei primi lavori ho evitato l’investigatore in divisa, troppo gettonato. Ma avevo conosciuto davvero un grosso carabiniere, ottimo cuoco e cattivo nuotatore; la sua ingombrante figura ha finito con il presentarsi  quasi da sola nei miei testi.
La riluttanza per il mare che lei ha attribuito al Capitano nasconde un significato più profondo oppure è stata semplicemente una scelta voluta per rendere un po’ comico il personaggio?
Il timore dell’acqua, insieme alla dieta perenne e al mantra su Ramsete, ha lo scopo di rendere simpatico il personaggio. Altrimenti “pesante”: ligio al dovere, pessimista, seguace di un’etica  rigorosa. Ma il suo  mal di mare simboleggia anche il malessere profondo delle persone per bene ( e che vogliono restare tali ), costrette a operare  in una società iniqua.
Dai suoi sette racconti emerge un quadro della società attuale alquanto dettagliato e non proprio roseo. Questo suo modo di scrivere è solo uno sfogo narrativo di denuncia del malcostume attuale, oppure è uno strumento per raccontare la società nel tentativo di migliorarla?
Il taglio socio-politico nasce dalla  formazione di base. Rappresenta poi il tentativo di tenere a bada, mediante un approccio  ironico, le mie frustrazioni di  cittadina delusa nelle sue esigenze di reale democrazia. La denuncia del malcostume dominante credo costituisca un dovere dello scrittore. L’idea di migliorare la società in cui vive… : un’illusione da conservare.
Secondo lei ‘nella nostra Maraglia’ il rigore morale è ormai un ricordo o intravede un barlume di speranza?
Maraglia è una sineddoche delle condotte immorali che caratterizzano, e non solo nel Mezzogiorno, la maggioranza dei governanti e dei governati. Meritevoli, questi ultimi, dei propri guai: per via della costante piccola “mafiosità “con la quale accostano la cosa pubblica. Tuttavia nel corso della storia gruppi di potere irrigiditi a difesa  sono stati più volte travolti quasi all’improvviso. Credo che i cittadini onesti, finora trattati da c…….i, non sopportino più la sfacciata  tracotanza dominante e siano in grado di prendere l’iniziativa. Se lo vorranno davvero.
Attualmente sta lavorando a un nuovo progetto?
Ho scritto un romanzo che riprende l’ambientazione e i personaggi principali dei racconti. Spero di pubblicarlo l’anno prossimo.
Tre parole per definire “Mal di mare”
Giallo, etica, ironia.

“Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi

Alessia Sità
ROMA –Si era accorta presto di non essere sola. Due persone la abitavano lottando furiosamente”.

E’ un vero dissidio interiore quello vissuto da Clara, protagonista di “Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi edito da Ugo Mursia.
Con straordinaria leggerezza, l’autrice ci conduce in un vortice di emozioni che investono e travolgono impetuosamente tutti i protagonisti. Clara è una donna di quarant’anni con due matrimoni alle spalle e due figli ormai diventati grandi. Sin dalla sua infanzia ha sempre agito per non deludere gli altri, ma dopo aver conosciuto un uomo sposato, Juan, che le ha fatto scoprire l’amore – quello che fa gioire e soffrire crudelmente allo stesso tempo – Clara giunge finalmente alla piena consapevolezza che la sua vita non può “più essere una continua richiesta di approvazione”.
Durante una vacanza in Costa Azzurra, la donna si ritrova a fare un bilancio della propria esistenza e a ricostruire, attraverso numerosi flashback, quest’amore esploso improvvisamente durante un’estate rovente. Fra un ricordo e l’altro, Clara rivive la sua turbolenta e irrequieta vita: dalle amicizie ai primi amori adolescenziali; dalle prime esperienze sessuali a quelle da donna adulta e matura; dalla vita matrimoniale a quella furtiva vissuta da amante. Fra ricordi, canzoni, volti e scenari mozzafiato, pagina dopo pagina, Clara mette a nudo la propria anima, sondando anche i meandri più oscuri che la abitano. “Qualche lontano amore” è un vero viaggio interiore intrapreso non solo dalla protagonista, ma anche dal lettore, che soffre e ama disperatamente insieme a Clara.
Con grande capacità introspettiva, Carla De Bernardi ci regala un vero romanzo di formazione, dove a compiere un processo di crescita e consapevolezza è una donna coraggiosa, che non teme di vivere pienamente i propri sentimenti, di qualsiasi natura essi siano.

 

Il mondo di “Diecipercento” raccontato da Antonella Di Martino

Silvia Notarangelo
ROMA – Lo confesso. Quando ho iniziato a leggere “Diecipercento e la Gran Signora dei tonti” (Autodafé) ero piuttosto scettica. Forse, senza volerlo, quel titolo apparentemente incomprensibile mi stava influenzando. Sono bastate poche pagine, però, per ricredermi. La storia e la scrittura di Antonella Di Martino sono riuscite a conquistarmi. Il viaggio del defunto Diecipercento nel suo passato, tra le pieghe di una vita non proprio cristallina, si rivela coinvolgente e non privo di risvolti imprevisti. ChronicaLibri ha intervistato l’autrice.

Lavora da anni nell’editoria come autrice di racconti e fiabe per bambini. Come è nato il desiderio di cimentarsi con un romanzo per adulti?
Il desiderio è nato perché mi piace, mi è sempre piaciuto sperimentare strade nuove. Inoltre, scrivere per i bambini comporta delle responsabilità, aggravate dai pregiudizi diffusi che trasformano i bambini in angioletti di cristallo, da salvaguardare con estrema attenzione. Questo problema non esiste con la narrativa destinata agli adulti: posso traumatizzarli quanto mi pare (sorride ndr).

Il protagonista Diecipercento realizza, forse, un sogno di tanti: osservare e trovare un perché a quei tanti, troppi interrogativi che durante la vita si sono lasciati in sospeso. “Dopo la morte aveva scoperto che esistevano altri modi di vivere, probabilmente più piacevoli”. I rimpianti possono davvero essere un peso insopportabile?
Scoprire di aver sprecato l’intera vita sarebbe davvero insopportabile, se fosse possibile. Per fortuna, è molto difficile raggiungere questa certezza nella vita reale. So che molte persone sono comunque tormentate dai rimpianti, ma non credo che sia davvero possibile sapere come sarebbe stato se… Il caso di Diecipercento è particolare: la sua fede nel decalogo era davvero irremovibile. Non credeva di avere scelta, perché il suo mondo era molto semplice e, al tempo stesso, molto crudele.

I valori di Diecipercento prendono, infatti, la forma di un “decalogo” in cui soldi, menzogne, divertimento rappresentano un vero e proprio modus vivendi. Non si può dire che manchino richiami all’attualità e alla condotta di una certa classe politica…
No, purtroppo non si può dire. Dirò di peggio: questi “valori” comprendono l’intera classe politica e oltre, sono apprezzati e messi in pratica ovunque. Il nostro paese ne è impregnato fino al midollo. Non voglio dire che “siamo tutti uguali”, anzi detesto queste generalizzazioni; ma anche chi non condivide per niente il decalogo di Diecipercento deve confrontarsi con questa deriva antropologica.

Margherita, la nipote del protagonista, sembra fatta di un’altra stoffa. Il suo senso di giustizia la spinge a ritornare sui luoghi di un passato doloroso, pur di scoprire la verità sulla morte dello zio. Ho l’impressione, però, che la donna compia questo viaggio anche per se stessa, per mettere un punto e andare avanti con la sua vita. È d’accordo?
Sì! Anche Margherita, soprannominata la Gran Signora dei tonti, è in viaggio per comprendere il suo passato, tracciare la sua linea di morte e andare avanti, libera dai fantasmi. Anche i fantasmi, come i valori di Diecipercento, sono molto diffusi. Ci avvelenano la vita: ognuno di noi dovrebbe guardarli in faccia, salutarli con affetto e consentire loro di morire davvero.

Attualmente sta lavorando a qualche progetto particolare di cui vuole parlarci?
Sto revisionando un nuovo romanzo, dedicato agli adulti. Ci saranno risvolti sociali, psicologici, sentimentali. Ci sarà anche un personaggio che aveva conosciuto Diecipercento. E presto sarà pubblicato un mio racconto, di un genere che non avevo mai provato, in una collana di ebook; ma non posso dire di più (sorride ndr).

Un’ultima curiosità. Nella sua biografia scrive che la Valle d’Aosta, dove è nata, è “un’isola felice ma non per me”. Può spiegarci perché?
Me ne sono andata dalla Valle d’Aosta perché detestavo viverci. L’ambiente è troppo freddo, troppo piccolo, troppo soffocante, in tutti i sensi. Allora, quando ci vivevo io, circolavano soldi e privilegi in abbondanza, ma questi vantaggi si pagavano a caro prezzo.
Per rendere l’idea sul tipo di mentalità che odiavo, vi racconto un episodio successo più di venti anni fa. La figlia di una mia amica, che allora aveva sei anni, era stata violentata. Era successo ad Aosta, mentre la bambina giocava sotto casa sua. Il violentatore si era presentato a volto scoperto, fingendo di dover consegnare un pacco. La famiglia aveva denunciato il crimine, insieme ad altre che avevano vissuto la stessa tragedia. Aosta non è mai stata una metropoli: oggi conta circa 35.000 abitanti, quindi non sembrava un caso troppo difficile da risolvere. Ma il colpevole non è mai stato arrestato. Allora circolava la voce, molto insistente, che le autorità conoscessero e proteggessero il responsabile. Non ho mai saputo se questa voce fosse fondata, ma so che molti ci credevano e lo consideravano un fatto normale. Niente di cui scandalizzarsi.
Ormai sono passati quasi vent’anni dal trasloco: il risentimento nei confronti della “Petite Patrie” è quasi svanito, ma resto molto soddisfatta della mia scelta.

“Bel Ami”, un personaggio che attraversa le epoche

Silvia Notarangelo
ROMA – Ci sono personaggi che attraverso le storie di cui sono protagonisti sanno catturare e mantenere inalterato nel tempo l’interesse dei lettori, suscitando, in un modo o in un altro, curiosità. È questo il caso di Georges Duroy, il “Bel Ami” del celebre romanzo di Guy de Maupassant, da cui è stato tratto l’ennesimo film che uscirà a breve nelle sale cinematografiche. Il libro, pubblicato nel 1885, presenta situazioni e temi che sono ancora oggi di grande attualità, lasciando trapelare una visione alquanto pessimistica della vita.

Georges Duroy vive, infatti, nel vuoto morale più assoluto cercando di sfruttare a suo favore i vizi della società per raggiungere ricchezza e successo. La sua ascesa sociale ha inizio grazie ad un incontro casuale, a place de l’Opéra, dove, tra la folla, riconosce un vecchio amico, il commilitone Forestier, ormai noto collaboratore del giornale “La Vie française”. È lui ad indicargli la strada “giusta”, a spronarlo ad intraprendere la carriera giornalistica dove “tutto dipende dalla disinvoltura”. Saper scrivere o meno sembra un dettaglio del tutto irrilevante. Georges, seppur con qualche dubbio, decide di accettare il consiglio dell’amico e comincia a frequentarne la casa riuscendo, in breve tempo, a conoscere il direttore del giornale e a farsi affidare una prima serie di articoli. E’ solo l’inizio. La sua nuova vita lo esalta riservandogli non poche soddisfazioni, complice anche un forte ascendente sulle donne che, di lì a poco, diventerà la sua arma vincente. Saranno proprio loro infatti, le donne, le artefici più o meno consapevoli, della sua fortuna. Se a Clotilde de Marelle, la prima indimenticabile amante, va riconosciuto il merito di aver introdotto il “suo” Bel Ami alle gioie della vita mondana, è il matrimonio con Madeleine, la vedova di Forestier, a consacrarne la posizione rendendolo uno dei giornalisti politici più affermati del momento. E allora perché non puntare ancora più in alto e mirare ad un posto in Parlamento? Attraverso un’abile manovra finanziaria e sostenuto dall’aiuto dell’ennesima amante, la moglie del direttore del giornale, Georges accresce ulteriormente il suo successo personale. Il Parlamento sembra ormai vicino, ma la sua fame di potere è insaziabile. Per sentirsi come “un re acclamato dai propri sudditi”, non c’è che un modo: un nuovo matrimonio con l’ambitissima ereditiera Suzanne.

“Romeo e Giulietta” dal 30 gennaio 1595 al 30 gennaio 2012, la storia d’amore senza tempo

Alessia Sità
ROMA – “Il suo unico  pensiero era scoprire chi fosse quella bellezza che insegnava al fuoco come risplendere, chi fosse quella gemma che pendeva sulla guancia della notte come un orecchino prezioso. Una bellezza troppo preziosa per questa terra. Era come una bianca colomba in mezzo a un branco di corvi: sì, così si mostrava quella giovane donna in mezzo alle sue coetanee, nel suo vestito bianco e alato.”
La tragedia dei due sfortunati amanti veronesi,  resa immortale dal grande dramma di William Shakespeare, ritorna il libreria con “Romeo e Giulietta. Adattato in prosa per tutti” di Davide Orsini edito da Fermento.
Nella bella Verona del XIV secolo, si consuma la toccante vicenda dei due adolescenti innamorati che, per un “disegno beffardo della vita”, decidono di porre fine alla propria esistenza, seppellendo così definitivamente l’odio lacerante che divide le rispettive famiglie: Montecchi e Capuleti.
L’intramontabile capolavoro shakespeariano, messo in scena  per la prima volta il 30 gennaio 1595 dalla compagnia Lord Chamberlain’s Man, ha fornito nel tempo il pretesto per numerosi libretti, balletti, musical, fino alle svariate trasposizioni cinematografiche e teatrali. Tra queste la versione diretta nel 2004 dallo stesso Orsini, intitolata “Verona – non giurare sulla luna”. Con grande maestria e straordinaria sensibilità, l’autore ci regala un vero e proprio romanzo in cui i sentimenti sono al centro dell’intreccio. Pagina dopo pagina, il lettore assiste a eclatanti scene di duelli, vite che si incrociano, fugaci sospiri amorosi e drammi familiari …
Dalla suggestiva descrizione del primo incontro fra Romeo e Giulietta al galeotto ballo di casa Capuleti, fino alla tragica e struggente morte dei due, si ha come la sensazione di percepire  e condividere ogni emozione e ogni turbamento che accompagna i due giovani all’epilogo del loro travagliato amore.
A 417 anni esatti dalla prima messa in scena, Orsini ha il merito di aver saputo narrare in prosa moderna e accessibile a qualsiasi lettore la passione che lega i due amanti, riuscendo a penetrare nel cuore e nella mente di ogni singolo personaggio.

“Bastardia”, dichiarazioni d’amore per il mare

recensione Bastardia ChronicalibriAgnese Cerroni
ROMA
– Nota scrittrice portoghese – vincitrice nel 2001 del Premio Pen Club con il suo Lillias FraserHélia Correia in autunno torna in libreria con Bastardia, libro edito da Caravan Edizioni. Al centro di questo racconto avvolgente e sospeso nel tempo, un ragazzo della provincia lusitana povera e profonda, i cui natali incredibilmente fantastici, quando scoperti, lo faranno sempre pensare e infine muovere verso quegli orizzonti sconosciuti. Il giovane Moisés, che vive in un villaggio dell’entroterra che sperimenta da secoli la durezza della vita, protetto da una madre sempre preoccupata ma consapevole del mistero collegato alla sua maternità, deciderà dunque di andar via dal paese pur di andare altrove. L’occasione è lavorare dallo zio, in una località diversa e lontana, dove spera di avvicinarsi ad un mondo mai visto e ora vagheggiato. Nella nuova cittadina, tra umili mansioni da svolgere, circondato da parenti e pari grado, ma soprattutto viaggiatori ed avventori, la sua aspirazione non farà che accrescersi…

Un "Brindisi" con Alberto Basso

Marianna Abbate
ROMA La storia di uno qualunque.  C’è chi direbbe “bamboccione”: trent’anni e una tesi ancora da iniziare. “Brindisi” di Alberto Basso, edito da La Mandragora, ci mostra uno stralcio della sua vita. 
Il ritorno a casa, il ritorno al vecchio lavoro nell’enoteca ferrarese. Il ritorno in seno alla famiglia. Tra quella gente che si parla, ma non si capisce. Che sembra esprimersi in lingue sconosciute, con monologhi autoreferenziali.

 Ritratte dalle loro stesse parole, ma anche guardate con una curiosità nuova da quel figliol prodigo: C’è la madre, sfegatata sostenitrice di Gerry Scotti, la figlia invisibile con disturbi alimentari, un fratello lontano e il padre, capofamiglia non più capo di se stesso- reduce da mille sconfitte, nella sua ultima lotta contro un male inguaribile.
E poi c’è il vino, a litri. E c’è quella tesi, di cui sopra, che porta con sè scombinati ricordi degli “anni di piombo”. 


C’è una storia d’amore all’ultimo atto e un professore fumoso e superficiale.
Tutti gli elementi di un buon film, immagini che possiamo quasi vedere nella nostra mente.
Non è un caso, infatti, che l’autore sia uno sceneggiatore. Uno che sa gestire bene i dialoghi, che sa dar loro voce.
Una lettura impegnativa, ma allo stesso tempo scorrevole, con un climax emozionante nelle pagine finali.
 

"Maria", l’inizio del lavoro narrativo di Lalla Romano

Giulia Siena
ROMA – E’ il 1953 quando Lalla Romano (1906-2001), scrittrice e pittrice piemontese, dà alle stampe “Maria”. Quest’opera, insieme a “Tetto murato” del 1957, segna l’inizio del lavoro narrativo della più schiva e riflessiva scrittrice del Novecento. “Maria” è il tipico esempio di romanzo del Neorealismo, in esso confluiscono l’attenta osservazione del quotidiano e le considerazioni di un occhio perspicace, quale quello della Romano. Quest’ultima crea un romanzo sulla sua donna di servizio perché vede in lei un personaggio, la perfetta protagonista di un suo romanzo. La storia è quella di Maria, collaboratrice domestica presso la stessa scrittrice.
Tra loro si crea un rapporto di rispetto reciproco, di silenzi, di affetto e di tacita stima. Ma, sono evidenti tra le righe, le controverse sensazioni della scrittrice: ogni giorno è incerta sui comportamenti da tenere con Maria e, inoltre, è perennemente sorpresa al cospetto del mondo contadino che si fa vivido dal vivere della donna.
Il romanzo si svolge nell’arco di venti anni e in questi anni tutto muta, si evolve e si rafforza. Gli anni Cinquanta “impregnano” le pagine di questo romanzo; questi anni di passaggio, di novità e di differenze culturali ed economiche intaccano il ritmo e l’intreccio del romanzo: le vite di due donne diverse si incontrano e coesistono in un mondo che si rinventa poco a poco. Maria e Lalla hanno un ponte che le unisce, è il figlio della scrittrice, il protagonista de “Le parole tra noi leggere” (Premio Strega nel 1969) e, attraverso lui, che loro riusciranno a conoscersi e a solidificare un rapporto di stima e riconoscenza.

Lalla Romano, riprende in “Maria” i temi cari a Pavese (città-società contadina piemontese), quello stesso scrittore che criticò fortemente il romanzo della scrittrice poiché si disse “stufo morto di leggere storie di donne di servizio”. Forse il giudizio di Pavese fu troppo rigido. Infatti, le storie delle donne di servizio tornano attuali negli anni Ottanta quando Magda Szabò, la più importante scrittrice ungherese dello scorso secolo, pubblica “La porta”(1987). Ed in questo libro torna il rapporto di Lalla e Maria, tornano i sentimenti convulsi e forti di una scrittrice che osserva il suo mondo nel quale vive un personaggio a cui dare voce.

"Asma" da serial killer

Agnese Cerroni

ROMA – Molti scrittori, emergenti o non, si domandano quali elementi narrativi garantiscano la riuscita di un romanzo noir. Ipotizzando che essi siano, nell’ordine, un protagonista interessante, un delitto misterioso e una storia d’amore non troppo scontata, Stefano Lazzarini con “Asma” (Cut-up editore) ha fatto centro. Luca vive a Roma, dove lavora come consulente in una agenzia di assicurazioni. Scapolo d’oro sulla quarantina, conduce una perfetta vita da single, a base di cene riscaldate al microonde e fugaci notti d’amore nel suo tipico appartamento da single, affollato da biancheria sporca e piatti affogati nel lavabo.
A movimentare la routine del protagonista, l’ennesimo fascicolo che finisce per caso sulla sua scrivania. Pare che un pirata della strada abbia investito una ragazza, lasciandola cadavere sull’asfalto. Ma ci sono dei dettagli che solleticano il sesto senso di Luca. Per quale motivo il responsabile ha arrestato la propria corsa, è sceso dalla macchina e ha spostato il corpo della vittima, disponendolo in una posizione innaturale, per poi dissolversi nell’oscurità di una notte d’estate? C’è una qualche relazione con altri incidenti stradali occorsi negli anni di cui non è stata mai accertata alcuna responsabilità? Come il migliore dei detective, Luca inizia le indagini per proprio conto. Nessuno infatti, nemmeno la polizia, sembra dar credito alle sue supposizioni, fino a quando, in un crescendo di violenza, l’assassino torna a colpire ripetutamente, adoprando lo stesso modus operandi. C’è forse un serial killer nelle strade di Roma? E visto che sembra scegliere casualmente le sue vittime, ci si può realmente sentire al sicuro mentre si traversa la strada?