Pensieri e ricordi ne “Il sentiero della libertà”

Silvia Notarangelo
ROMA – Il libro arriva in redazione accompagnato da un biglietto scritto a mano dall’autore. Poche parole per confessare di aver scritto “con il cuore”. Ecco, mi sembra che sia proprio Luca Favaro a indicare la chiave di lettura della sua raccolta di raccontiIl sentiero della libertà” (Emil Editrice). È il cuore a guidarlo in una narrazione sentita, intensa e scorrevole, in cui non mancano spunti per interrogarsi e riflettere sul senso più autentico di tanti, piccoli episodi solo apparentemente insignificanti.

Ricordi, esperienze di vita, ma anche incursioni in realtà soprannaturali con storie e dialoghi che vedono coinvolto niente di meno che Dio in persona. Il tutto arricchito da stimolanti considerazioni sul comportamento e sull’agire dell’uomo, spesso così concentrato su se stesso o così poco incline a misurarsi con il “diverso”, da non accorgersi di tutto ciò che accade intorno a lui.
Le situazioni raccontate sono, talvolta, piuttosto comuni. A chi non è capitato di imbattersi nell’arroganza di una persona convinta di poter comprare con i soldi qualsiasi cosa? O ancora, in una persona così determinata a difendere il proprio status sociale da risultare ridicola e fuori luogo? Dopo un momento di rabbia e di comprensibile indignazione, è la compassione a prendere il sopravvento nell’animo dell’autore. Un sentimento complesso, in cui l’empatia finisce con il prevalere.
È inutile nasconderlo, certi individui con i loro atteggiamenti, con il loro modo di fare, non riescono a suscitare simpatia. Eppure, lo scrittore sembra suggerire che proprio in virtù di tali comportamenti, siano loro i soggetti più deboli, coloro che hanno bisogno di nascondersi dietro alle apparenze illudendosi, così, di essere invincibili.
E allora qual è il senso più profondo, più vero della nostra esistenza? Non è facile dare una risposta. “Quando sei marcio dentro, lo sei in qualunque posto ti trovi e qualunque lavoro tu faccia”. Favaro le sue risposte le ha trovate nella fede. In un Dio che sente vicino, un Dio che lo sollecita a essere felice e che continua, pazientemente, a esortarlo: “Impara ogni giorno a ripartire, pensa a dove hai sbagliato con serenità, ingrana la marcia e via!”.

“Novelle e impressioni” di Gino Racah

Silvia Notarangelo
ROMA – Personaggio di spicco del sionismo milanese delle origini, Gino Racah (1865-1911) dedicò la sua breve esistenza al tentativo di risvegliare le coscienze e le energie ebraiche che “tendevano a scomparire”, convinto della necessità di riscoprire e difendere la fede e le tradizioni giudaiche. A distanza di poco più di un secolo dalla sua morte, Carlo Tenuta ha curato, per Mucchi Editore, una raccolta di scritti dell’autore milanese da cui emerge prepotentemente tutta la sua passione, le sue convinzioni, ma anche una crescente preoccupazione per le sorti della sua religione.

Novelle e impressioni” raccoglie nove episodi di vita e di storia ebraica. Una narrazione scorrevole, lucida ma profondamente sentita, in cui le novelle sono solo uno spunto, un modo per affrontare temi e problematicità particolarmente care allo scrittore. Gli episodi, in parte a carattere autobiografico, seguono un ordine cronologico, un arco temporale che ha inizio in epoca precristiana, attraversa alcuni momenti salienti della storia fino ad arrivare ai primissimi anni del Novecento e proiettarsi in una Gerusalemme futura.
Protagonisti della quasi totalità dei racconti sono ebrei fieri delle loro origini, fedeli al proprio credo e alle tradizioni, disposti a tutto, anche a sacrificare la propria vita pur di non arrendersi e soccombere sotto i colpi di “energumeni fanatici o empi depravati”.
Con il passare del tempo, le insidie cambiano. Non sono più il cristianesimo o il paganesimo i nemici da cui tenersi lontani, non ci sono più guerre da combattere: la fede va salvaguardata da altri pericoli, forse meno evidenti ma altrettanto insidiosi.
Anche la riflessione di Racah cambia prospettiva, affrontando nuove, delicate questioni divenute cruciali: i matrimoni misti, la rinuncia o l’abbandono della fede ebraica, un persistente sentimento antisemita. È la “crescente assimilazione” una delle cause, secondo l’autore, di questa pericolosa deriva. Non sorprende, quindi, che protagonisti degli ultimi racconti siano una vecchia suocera, costretta a conservare in segreto la propria fede, e un padre che, al contrario, sembra riscoprire, l’importanza delle proprie origini. Ed è proprio a questo padre, tormentato dalla scelta della figlia di diventare monaca di clausura, che Racah affida un messaggio di speranza: “il lamentarsi senza agire è da sciocchi e da imbelli (…) insegnerò agli altri a mantenere raggiante e puro il focolare della famiglia israelitica”. Un impegno a cui l’autore ha dedicato tutta la vita.

“Questa mattina è arrivata una lettera”: i racconti inediti di Joseph Roth

Alessia Sità

ROMA – Sono nove i racconti contenuti in “Questa mattina è arrivata una lettera”, gli inediti scritti giovanili di Joseph Roth, editi da Passigli Editori e curati da Vittoria Schweizer.

Il ‘fil rouge’ che accomuna ogni frammento – databile presumibilmente fra il 1918 e il 1928 – sembra essere la grande capacità che l’autore ha nel creare i suoi personaggi. Si ritrovano molto spesso figure grottesche e disperate. Ogni essere umano è caratterizzato da un tormento interiore, che lo rende patetico e avvincente allo stesso tempo. Barbara, Gabriel e il protagonista di “Umanità malata” ne sono un chiaro esempio. La prima è una donna fragile ed estremamente generosa, che senza esitazione sacrifica la propria esistenza per amore del figlio; il secondo è un piccolo funzionario borghese, totalmente devoto a un lavoro che però non sembra gratificarlo abbastanza; mentre l’uomo del terzo racconto, anche egli vittima sociale, è costretto a vivere in una clinica psichiatrica, straziato dalla presenza assidua dei fantasmi del suo passato. Nei suoi scritti, Joseph Roth affronta diverse tematiche che, pur se a distanza di moltissimi anni, risultano ancora oggi molto attuali. Il lettore è spinto a riflettere e a immedesimarsi continuamente con quei personaggi che suscitano nel contempo compassione e simpatia. Racconti come “Questa mattina è arrivata una lettera” o “Giovinezza”, fanno inoltre intravedere il microcosmo personale dell’autore, che in questi frammenti descrive intimi sentimenti e figure legate alle proprie radici passate.
Quella di Joseph Roth è una scrittura elegante e metaforica, che riesce a conquistare proprio per la grande capacità introspettiva che emerge da ogni singola storia.

 

L’Amantide: una donna e la sua missione


Silvia Notarangelo

ROMA – Dopo “Diecipercento e la Gran Signora dei tontiAntonella Di Martino presenta ai lettori di Chronicalibri il suo nuovo, intenso e spietato racconto, pubblicato nella collana Atlantis di Lite Editions.

“L’Amantide”, una storia dal titolo affascinante che racconta…

Racconta diverse storie, condensate in una.
C’è la storia di una donna che ha deciso di trasformare la sua rabbia e i traumi della sua infanzia in un lavoro, che è anche una missione.
C’è la storia di una famiglia infelice, arrivata a un punto di non ritorno.
C’é la storia di una moglie e madre che ha deciso di cambiare il suo destino con un mezzo insolito.
C’è la storia di un omuncolo, una creatura che vive in un piccolo senza speranza, un luogo triste in cui rinchiude le persone che gli vivono accanto.
C’è la storia di una breve vacanza, che inizia come un sogno e termina con una brusca caduta.
Infine, ultimo ma non meno importante, c’è il cuore di Nizza, la sua atmosfera, i suoi profumi, i suoi colori.

Suggestioni e fonti di ispirazione?

L’omuncolo letterario si ispira a un omuncolo conosciuto personalmente anni fa. Era il patrigno di una mia amica, la quale mi raccontava spesso le “fisime” che infliggeva alla famiglia. Lo ricordo come una delle persone più odiose che io abbia mai incontrato. Non è la prima volta che mi sono ispirata alla sua personalità, per arricchire le caratteristiche dei miei personaggi più grotteschi.
L’Amantide non l’ho mai conosciuta. L’ho costruita un pezzo alla volta: ho preso in prestito le parti più rabbiose, inquietanti e distruttive della mia immaginazione; ho aggiunto alcune caratteristiche raccolte qua e là dall’immaginario collettivo; sono stata attenta a conservare le contraddizioni; ho ritagliato le parti in eccesso e ora l’Amantide vive di vita propria.

Tre aggettivi per descrivere L’Amantide

Folle, razionale, tagliente (sorride ndr).
Dell’Amantide apprezzo soprattutto i contrasti. È una criminale, ma ha una scala di valori tutta sua, costruita con razionalità impeccabile e lucidissima follia. Il suo lavoro è vendetta, ma anche missione, rivincita, piacere. Si intuisce che il mondo le ha fatto molto male: un male che lei tenta di restituire con garbo, selezionando i bersagli giusti. Il suo sguardo, incisivo come i punteruoli da ghiaccio e tagliente come una lama, coglie gli aspetti migliori e peggiori della vita che incontra.
L’Amantide rispetta con scrupolo le sue regole, ma cerca anche uno spazio per conquistare pezzi di vita liberi dal dolore e dal lavoro: cerca di adeguarsi senza adattarsi, di strappare i fiori più profumati che sbucano in questa valle di lacrime.

La sua lettura è rivolta a…

A chi ha il gusto per l’insolito e le tinte forti, ma non per la volgarità; a chi ama le storie sensuali che vadano oltre i sensi; a chi non ha paura di sbirciare negli angoli più nascosti di quella che chiamano realtà.

VerbErrando: “Tenera è la notte”

Veruska Armonioso
ROMA
– Studia giurisprudenza, ha ventiquattro anni e si annoia.
E’ nata nel 1988. Bim bum bam, forse, ha fatto in tempo a vederlo, magari se lo ricorda, solo che Paolo Bonolis se n’era già andato e non lo conduceva più, però c’era ancora Uan.
Quando tornava da scuola la nonna guardava beautiful in tv, quindi è cresciuta, forse suo malgrado, incontrando per pranzo sempre intrighi, giochi di seduzione e il mito che la bellezza e la sensualità sono la strada giusta per arrivare a destinazione. Mamma e papà volevano tanto che studiasse e portasse a casa voti importanti, ma lei preferiva chiudersi in bagno a truccarsi per farsi vedere bella dai ragazzi.
Poi è arrivato “Uomini e Donne”, “Il Grande Fratello” e ha capito che apparire era fondamentale.
Le veline, le letterine, tutte le calendarine e poi c’era lei, ragazza carina ma qualunque,
che si sentiva indietro, si sentiva in svantaggio. Si diploma e si iscrive all’università, cambia città (la provincia le va stretta) e comincia una vita nuova, dove poter esibire i suoi gioielli: due tette tirate su da un bra dell’ultima generazione, un sorriso ultragloss e pose da top model per impressionare l’obiettivo di un fotografo da book. Sono foto importanti, sono foto che vanno su facebook, perché lei, la bella lei, tutta truccata, pettinata a puntino e vestita solo delle proprie mani, ha un bisogno disperato di non sentirsi solo una futura praticante avvocato, non può restare indietro, non può essere meno di Belen. E allora gioca a fare la modella, va in locali alla moda a farsi scattare foto ricordo da pubblicare sulla sua bacheca. Sono importanti i “mi piace”, i commenti appassionati degli uomini che fantasticano sulle sue forme in chiaro scuro, sui suoi sguardi ammiccanti, sui suoi sorrisi divertiti durante notti della dolce vita della nuova Italia.
Lui è lì, nello studio. Nella camera accanto c’è Marta che si sta spogliando, è appena tornata a casa dal lavoro, oggi c’era sciopero, pioveva e lei è rincasata bagnata come un pulcino. Stanno insieme da un anno e mezzo e discutono spesso perché lui è troppo chiuso e parla poco e lei si sente sola. Comunque lui è lì, sta consultando il suo facebook e la vede, nella colonnina di destra tra le amicizie consigliate.
Non dubita un secondo e le richiede l’amicizia. Lei accetta e cominciano a chattare. Lui come foto dell’avatar ha un’immagine in penombra, mentre fuma una sigaretta. Ha il fascino della star del cinema americano e poi è bellissimo. Marta bussa, apre piano piano la porta. Lui abbassa velocemente la finestra di internet, si gira e, con un sorriso pieno di denti, le chiede:
“Tutto bene?”
“Sì, vado a fare la doccia, poi ti va se ci mettiamo un po’ sul divano abbracciati a guardare la tv?”
“Ok! Tra un quarto d’ora sul divano!”
Lei chiude la porta e lui apre di nuovo la finestra.
“Ho ancora un quarto d’ora, poi i miei amici mi passano a prendere per uscire.”
“Mh, peccato… ma tanto anch’io stavo per uscire, andiamo tutti al Rainbow a fare un aperi-cena.”
“Quando posso parlarti di nuovo?”
“Quando vuoi… domani?”
“Apro poco internet durante il fine settimana, ma lo farò solo per te.”
“A domani allora!”
“Dopo pranzo? Verso le due?”
“Perfetto! Dopo le due!”
Non andrò avanti, il racconto continuatelo voi.
A volte mi dico che è una fortuna non stare insieme a nessuno. Avevo sedici anni quando lessi per la prima volta “Tenera è la notte”. Dick l’aveva voluta così tanto Nicole, l’aveva prima curata, e poi le aveva promesso amore eterno e l’aveva sposata. Gli bastò poco, quando arrivò Rosemary, giovane, bella, attrice, sofisticata, per spazzare tutto via, tutto.
Provare ancora quella trepidazione :
”- Sono Dick: dovevo chiamarti.
Una pausa di lei; poi coraggiosamente e intonata allo stato d’animo di lui:- sono lieta che tu l’abbia fatto.
[…]
– Rosemary.
– Sì, Dick.
– Senti, sono in una situazione straordinaria, con te. Quando una bambina riesce a turbare un signore di mezza età… le cose vanno male.”
La cosa che mi turbava maggiormente non era il tradimento, ma il tormento che provava Dick.
“Ora la baciò più volte sulla bocca, il suo viso si ingrandiva mentre scendeva su di lui;
Dick non aveva mai visto qualcosa di così abbagliante come quella pelle, e poiché a volte la bellezza restituisce le immagini dei proprio migliori pensieri, pensò alla sua
responsabilità verso Nicole e al fatto che questa si trovava due porte più in giù, nel corridoio.”
Provava tormento, un tormento rivolto verso la moglie, ma non era un tormento per senso di colpa; era un tormento di rimpianto. Se non ci fosse stata lei, lui avrebbe scelto Rosemary.
Se non ci fosse stato quel “peso”, la donna che tanto aveva voluto e che, con il tempo, era diventato peso, ecco, se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato con Rosemary.
Se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato felice. I sotterfugi, le recite per dissimulare e poi il senso di costrizione, di infelicità, di privazione.
Dall’altra parte lei, Marta, Nicole o me. Dall’altra parte una persona, che esiste solo
come intralcio. Quando vivi per una volta un’esperienza del genere resti marchiato a vita.
La mia amica Dani dice che le ferite del passato non devono diventare limitazioni e ha ragione, ma forse ha avuto ferite poco profonde o uno stuolo di santi e madonne in cielo pronti a riempirle il cuore e la mente di indulgenza e fiducia.
Di fatto Nicole è stata tradita.
Di fatto Marta sta per essere tradita o è stata già stata tradita, del resto non serve di certo un amplesso per essere infedele a un amore.
Di fatto Marta non ce la farà mai a competere con queste fantastiche, bellissime ragazze copertina.
Marta verrà schiacciata da questa competizione, sia che decida di chiamarsi fuori e non cadere in questo gioco perverso dell’essere sempre all’altezza, sia che decida di starci dentro. Perché questo gioco lo si può fare fin quando hai vent’anni. A trenta non si può più. Comunque sia, sia che tu ti chiami fuori, sia che tu resti nel gioco, prima o poi arriverà il momento in cui l’uomo che ti è accanto si girerà dall’altra parte a guardare, a sognare un po’, con la bava alla bocca o con contegno, ma comunque lo farà.
Forse non te ne accorgerai, ma lo saprai che accade. Forse, invece, te ne accorgerai, allora le tue insicurezze usciranno tutte fuori e tu cadrai nel baratro. Tutti i mostri, i fantasmi saranno lì, affacciati alla finestra della bocca del tuo stomaco a chiamare in causa le tue paure. Perché a distrarsi ci vuole un attimo, a perdersi un secondo, ma a ritrovarsi, poi, non basterà una vita.
E’ più grande la paura di essere traditi o il tradimento stesso? La possibilità che c’è dietro l’angolo rende chiunque un nemico, tutto un pericolo. E poi tu, che con i tuoi bassi, i cali di attenzione, di prestazione, di forma, rischi di mandare all’aria la tua relazione senza nemmeno che ci sia realmente qualcuno, solo per paura.

Amarsi dopo un figlio, amarsi dopo essere diventati coppia, amarsi quando entra la routine, quando subentra una malattia, quando entra in gioco la vita.
Amarsi.
E’ possibile amare qualcuno nella versione vita-di-tutti-i-giorni senza lasciarsi distrarre da qualcun altro?
E’ possibile farsi vedere sé stessi, senza rischiare di essere traditi con qualcuno di nuovo o migliore? Si può sperare di avere qualcuno accanto che non cada nella rete di una bella ventiquattrenne avvocatessa sexy fotomodella di facebook e essere liberi di farsi vedere per quello che si è, senza patinature e senza calze a rete o tacchi a spillo?
La mia amica Dani dice di sì. Lei è fortunata, suo marito la ama per quello che è, ma non fa testo, hanno dei valori così al di sopra dell’apparenza e della forma da risultare alieni.
Parlando con lei, però, penso di aver capito dove risieda il problema. Se conquisti un territorio con le armi, dovrai sempre usare le armi per esercitare il tuo potere al suo interno. Una metafora ardita per dire che se conquisti un uomo per un qualcosa che possiedi, non potrai mai liberarti da quel cliché, nemmeno dopo vent’anni. Quella caratteristica diventerà, nella tua mente, il metro di paragone con tutte le altre e di quello non smetterai di preoccuparti sia che si parli di bellezza, che di simpatia, che di intelligenza.
Diverso se conquisti una persona per la tua unicità. Se quello che fa innamorare di te la tua persona sarà la tua unicità, la tua essenza, allora non ci sarà paragone con nessuno. Non ci sarà bellezza tanto provocante, o mente abbastanza brillante o sorriso sufficientemente smagliante. Potrà essere tutto di più rispetto a te, ma non sarà mai te.
Ecco quello che ho capito questa settimana. Conoscendo Marta e la sua storia, parlando con Dani e la sua famiglia, rileggendo Francis Scott Fitzgerald e tenendo in braccio la mia pronipote Lavinia.
Guardando tutti loro ho capito cosa è importante in una relazione.
Amare l’unicità dell’altro ci rende fedeli, far innamorare il nostro compagno della nostra unicità ci rende sicuri e invincibili.
Non sarà facile districarsi all’interno di quella jungla. A volte sarà difficile, a volte ci vorrà tempo, tanto tempo, a volte incontreremo riluttanze, rifiuti, impazienze. Quelle saranno le selezioni naturali, gli autoeliminati che ci lasceranno prima ancora di prenderci.
Ma arriverà quell’unica persona che è destinata a starci accanto, e sarà allora che non avremo più paura di essere da meno della seducente studentessa universitaria del web. Ed è proprio a lei che vorrei dire di togliere quelle foto da lì e di riprendersi la propria vita ricominciando con il ridurre ai minimi termini per poi massimizzare e sicuramente arriverà molto più di un uomo che mentre chatta con lei ha, nella camera accanto, la sua compagna seduta sul divano ad aspettarlo per un abbraccio.

“Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi

Alessia Sità
ROMA –Si era accorta presto di non essere sola. Due persone la abitavano lottando furiosamente”.

E’ un vero dissidio interiore quello vissuto da Clara, protagonista di “Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi edito da Ugo Mursia.
Con straordinaria leggerezza, l’autrice ci conduce in un vortice di emozioni che investono e travolgono impetuosamente tutti i protagonisti. Clara è una donna di quarant’anni con due matrimoni alle spalle e due figli ormai diventati grandi. Sin dalla sua infanzia ha sempre agito per non deludere gli altri, ma dopo aver conosciuto un uomo sposato, Juan, che le ha fatto scoprire l’amore – quello che fa gioire e soffrire crudelmente allo stesso tempo – Clara giunge finalmente alla piena consapevolezza che la sua vita non può “più essere una continua richiesta di approvazione”.
Durante una vacanza in Costa Azzurra, la donna si ritrova a fare un bilancio della propria esistenza e a ricostruire, attraverso numerosi flashback, quest’amore esploso improvvisamente durante un’estate rovente. Fra un ricordo e l’altro, Clara rivive la sua turbolenta e irrequieta vita: dalle amicizie ai primi amori adolescenziali; dalle prime esperienze sessuali a quelle da donna adulta e matura; dalla vita matrimoniale a quella furtiva vissuta da amante. Fra ricordi, canzoni, volti e scenari mozzafiato, pagina dopo pagina, Clara mette a nudo la propria anima, sondando anche i meandri più oscuri che la abitano. “Qualche lontano amore” è un vero viaggio interiore intrapreso non solo dalla protagonista, ma anche dal lettore, che soffre e ama disperatamente insieme a Clara.
Con grande capacità introspettiva, Carla De Bernardi ci regala un vero romanzo di formazione, dove a compiere un processo di crescita e consapevolezza è una donna coraggiosa, che non teme di vivere pienamente i propri sentimenti, di qualsiasi natura essi siano.

 

“Cronache da un mondo (im)possibile”, la costruzione di una coscienza di vita

recensione chronicalibri cronache da un mondo (im)possibile_frank solitarioGiulia Siena
ROMA “Sta di fatto che molti capolavori della Letteratura, ma anche dei libri insignificanti o addirittura disgustosi, cominciano così – Tac! – senza nemmeno un preavviso.” Lui è Frank Solitario ma non chiedetegli il suo vero nome. Lui è l’autore di “Cronache da un mondo (im)possibile“, il volume che tra qualche giorno sarà in libreria pubblicato dalle Edizioni Il Foglio Letterario.

Dopo la raccolta di racconti “Storie ai minimi termini”, Frank Solitario torna sulla scena letteraria italiana con “Cronache da un mondo (im)possibile”, racconti che si intrecciano a formare un romanzo. Per questo lavoro Frank ha voluto accanto Veruska Armonioso, editor e scrittrice che ha curato – da cultrice della parola – la revisione del libro.
I protagonisti sono tanti e dalle caratteristiche più disparate; essi si dispongono in una immaginaria palazzina fatta di venti stanze divise per piani. L’ultimo piano è quello della solitudine: c’è uno scrittore che non riesce a esprimersi con verbi al presente o al futuro, il barbone, l’anziano principe, dei manichini, il ladro, lo scrittore poi qualcuno, un altro e nessuno. Tutti però – in momenti diversi della vita – si accorgono della propria esistenza come svegliandosi da un momentaneo assopimento. Si scoprono stanchi, distratti, innamorati o delusi, si ritrovano vecchi senza aver vissuto alcuna giovinezza. Il mondo (im)possibile disegnato da Frank Solitario ha le fondamenta nella realtà e le mura costituite dai mattoni delle scelte di ognuno, semplici o esagerate fino all’eccesso. La scrittura visiva e attenta dell’autore completa e cementifica la costruzione di un mondo (im)possibile.

“Non riesce a compiacersene del tutto. Ma la battaglia è vinta. Ancora. Il sole aveva attraversato, per un tempo ingiustificato o solo per pochi secondi, tutte quelle venti stanze.”

“C’era una svolta”, un’attuale e sarcastica ironia

Silvia Notarangelo
ROMA – A San Quentin, in California, il condannato a morte Tonino Buttalamare, giunto al patibolo, chiede, come ultimo desiderio, di poter raccontare una storiella del suo paese. Inizia così “C’era una svolta”, il nuovo lavoro di Martino Ferro pubblicato da Verde Nero. Se amate Calvino e le sue fiabe, questa loro rielaborazione, perfettamente calata in un’attualità da censurare e dotata di una sagace ironia, non vi lascerà delusi.
Nei cinque minuti a sua disposizione Tonino Buttalamare è un fiume in piena. Esordisce con le vicende, non proprio felici, di Giampietro, Gianfranco e Giancarlino, tre fratelli alle prese con odiati call center, paghe da fame e nessuna prospettiva per il futuro. Unica possibilità rivolgersi a San Precario e ascoltare bene i suoi consigli, perché un insperato posto da direttore è proprio lì, a portata di mano, basta saper usare un po’ di astuzia.
Ed è sempre grazie alla furbizia, e a una sana dose di incoscienza, che Giovannina smaschera il temuto orco Cicci, un orco dotato della singolare capacità di fare tutto al contrario, compreso conficcarsi un bisturi in bocca al posto dell’immancabile sigaretta. Una fine drammatica, come quella involontariamente architettata da una first lady infelice che, con la complicità della cameriera, riesce a sbarazzarsi di un marito “nanetto” che non ha mai voluto e che, solo per puro caso, si è ritrovato nel posto giusto al momento giusto. La sorte non è stata, invece, così benevola con Giufà, un giovane che vive alla giornata e che, in un modo o in un altro, riesce sempre a cavarsela, sia quando inconsapevolmente libera i tanti negozianti sottoposti al pizzo di Don Ciccio Potenza, sia quando, altrettanto ingenuamente, consegna una partita di droga alla mamma convinto che si tratti di farina. Ma a volte l’onestà non basta e il destino che lo attende non è certo dei migliori.

Eroina tra “Eroine”: Claude Cahun

Silvia Notarangelo
ROMAClaude Cahun è artista complessa ed eclettica, ma anche indomita contestatrice, pronta ad impegnarsi attivamente prima nel movimento surrealista, più tardi, nella Resistenza.
Sono la storia e il mito a suggerirle la scelta delle sue “Eroine”, una singolare raccolta di ritratti femminili pubblicata da :duepunti edizioni.
Fuori dagli schemi e capaci di ribaltare qualsiasi aspettativa, le donne che ci restituisce la Cahun sono estreme, impetuose, votate alla ribellione e incuranti del dolore. La libertà da ogni forma di condizionamento e di morale è, per loro, condizione imprescindibile. Così, il piegarsi ad amori assoluti e, spesso, controversi, le umiliazioni e le prevaricazioni subite, diventano strumenti per affermare se stesse e la propria forza.
Tra le protagoniste c’è Elena, una giovane sposa che sa di essere brutta ma prova a dimenticarlo. Non si tira mai indietro, persino quando si tratta di allenarsi con esercizi di seduzione per accontentare il suo Menelao. Tutto però ha un limite e, con il tempo, Elena decide di dire basta per vivere finalmente come desidera. Una Cenerentola sottomessa e gelosa del suo vestito da sguattera, si rassegna, invece, a sposare un principe che la vuole dominatrice, altezzosa e con tacchi a spillo. Ma è proprio dall’andare contro il proprio istinto, dal violentare la propria natura, che la principessa trae un’inaspettata felicità. Una felicità che sembra non conoscere Salomè, sprezzante verso la vita e verso tutti quelli artisti che si sforzano di riprodurla fedelmente. Non c’è nessuna differenza, per lei, tra l’arte e la vita, una vale l’altra. E niente, neppure la testa decapitata di Giovanni Battista, riesce a turbare la sua “carne insensibile”.
Vite immaginarie di donne forti e consapevoli, talvolta risolute, talvolta stravaganti, ma incredibilmente vere.

La pace nel fiume

sidStefano Billi

ROMA – Alcuni sono convinti che esistano libri belli e libri brutti. O meglio, che alcuni libri siano più belli di altri. Come dar loro torto?

E’ innegabile che ci siano dei testi che sanno emozionare ogni uomo nel suo io più profondo, e che inoltre sappiano far aprire gli occhi al lettore. Perché l’individuo del nostro tempo spesso non vede, o vede male. E anche se osserva il mondo, spesso non lo capisce.

Ecco che allora la letteratura – quella che eleva lo spirito – diviene il faro che rischiarai giorni bui, il grimaldello che scardina la volgarità culturale che accompagna questo tempo di crisi di valori.

All’interno di quella letteratura, fulgido esempio è “Siddharta”, insostituibile romanzo di Herman Hesse, edito in Italia da Adelphi.

A voler dare una descrizione sommaria del libro, si potrebbe riassumerlo nella storia di un giovane indiano che fatica a trovare il senso della propria esistenza. Ma questa sarebbe davvero una descrizione sommaria, e sicuramente riduttiva.

“Siddharta” è qualcosa di più: è la narrazione dei profondi travagli interiori di un uomo, che scopre la fragilità della sua purezza giovanile, che sperimenta il dolore provocato dalla perdizione morale.

Adolescente in cerca del sapere profondo, il protagonista della vicenda – il cui nome rispecchia il titolo del racconto – lascia la casa del padre per diventare adulto, ma al passare degli anni non corrisponde una simultanea crescita della coscienza, e così Siddharta assaggia il sapore amarissimo del fallimento, della mancata realizzazione di quello che si sarebbe voluti essere.

Ma proprio sull’orlo del declino, il protagonista ritroverà se stesso, segno che il cammino verso la saggezza è lungo ma raggiungibile, al volenteroso che lo intraprende.

Herman Hesse crea così un romanzo indimenticabile, la cui lettura riesce a forgiare soprattutto gli animi dei giovani. Difatti, attraverso le pagine immortali di “Siddharta”, proprio i ragazzi possono capire tutto il disagio di chi ha smarrito se stesso, in cerca di un’emancipazione che poi si è rivelata soltanto un abbandono della propria purezza. E così “Siddharta” può educare il lettore a comprendere se stesso, ascoltando il rumore del fiume e del mondo, che poi è il senso della rinnovata meditazione del protagonista della storia. Allora davvero si fa chiaro come anche un barcaiolo, un umile personaggio fluviale, possa diventare un maestro che spinge alla profonda meditazione sul senso della vita.

Asciutto nei dettagli, ma chiarissimo nella sua scrittura, questo libro merita comunque di essere letto, a qualunque età, perché ha il grande merito di lasciare una sensazione di appagante serenità. Quella stessa letizia che è cardine delle filosofie orientali e in particolar modo della religione buddista, sottofondo di tutta la vita del protagonista.

“Siddharta” è uno di quei bei libri che andrebbero assolutamente letti, ed auspicabilmente riletti, come una tappa fondamentale nella vita di ogni uomo. Perché non ci si improvvisa adulti, né tantomeno si cresce solo dal punto di vista anagrafico. Proprio per questo Herman Hesse ha regalato all’umanità una storia di crescita interiore. Proprio per questo, tra le tante cianfrusaglie che circondano i vasi degli alberi di Natale, “Siddharta” può rappresentare il dono più straordinario che si possa ricevere.