Nuove Edizioni Romane: Roberto Piumini e la leggenda di Roma in "Orma, ramo, roma, amor"

Giulia Siena
ROMA“Roma, Roma, città grande, posso farti le domande? Roma, Roma, città amata, ma quand’è che tu sei nata?” Una filastrocca di quesiti sulla nascita della Capitale apre “Orma ramo roma amor”, l’ultimo libro di Roberto Piumini pubblicato dalle Nuove Edizioni Romane e illustrato magistralmente da Lucia Scuderi. Questo non è il primo libro per bambini che ripercorre la storia della Città Eterna, ma “Orma ramo roma amor” è narrato con curiosità, stupore e semplicità coinvolgenti. In modo graduale veniamo introdotti nella storia: Piumini ci presenta la superbia del re Amulio, la bellezza e le sofferenze di Rea Silvia, la potenza di Marte e la determinazione di Romolo e Remo. Da loro nasce l’idea di una nuova città, da fondare sulle rive del fiume Tevere, proprio lì dove la Lupa li aveva trovati. Ma la scelta di un condottiero per l’importante progetto porterà i due fratelli a dividersi e a gettare il primo sangue sul suolo capitolino.

“Roma, amor, ramarro, aroma, meglio un gioco con parole, gran città chiamata Roma, che con sciabole o pistole!”

“Aria Profonda”…quando l’inesplorato è il sommerso

Silvia Notarangelo
Roma – “Quel blu intenso mi incuteva una sorta di timore reverenziale e un’attrazione irresistibile allo stesso tempo”. Sono queste sensazioni, altalenanti e spesso contrastanti, a caratterizzare le immersioni che il giornalista, Fabio Perozzi, ricorda nella sua opera d’esordio.“Aria Profonda”, edita da Magenes, è la storia di due passioni che si integrano e si alimentano reciprocamente: l’emozione che suscita l’inabissarsi nella profondità del mare unita al desiderio di catturare quei momenti irripetibili. La subacquea e la fotografia sono le due “patologie” di cui è affetto l’autore, l’una sostiene l’altra, ne dà una concreta testimonianza, ne garantisce quella lucidità che, in condizioni tanto precarie, potrebbe facilmente venire meno.
Perozzi racconta il proprio percorso di sub fin dal primo importante traguardo, il rimorchiatore del Miseno, a largo delle coste di Ischia, adagiato su un fondale a -73 m.
Una meta raggiunta inaspettatamente, una domenica di fine luglio. Un relitto su cui, di lì a poco, avrà modo di tornare per documentare, con la sua immancabile attrezzatura fotografica, le esilaranti e spregiudicate gesta dei suoi compagni d’avventura. Sono proprio loro ad accompagnare ogni immersione, con aneddoti, chiacchiere, risate, e, talvolta, inconfessati incidenti di percorso. Emerge, così, prepotentemente, quanto la condivisione di esperienze tanto estreme riesca ad instaurare una complicità e un’affinità particolari, legate proprio all’aver partecipato, insieme, a “giochi pericolosi e avvincenti”.
Anche nel gruppo del Biological Hazard, in cui l’autore entra a far parte in qualità di fotografo ufficiale, l’intesa sembra non mancare. Tutti lavorano per uno stesso obiettivo, realizzare il primato mondiale di profondità nelle insidiose e torbide acque del lago d’Iseo. Nonostante alcune difficoltà, la spedizione si conclude con successo ma qualcosa inizia a scricchiolare. Purtroppo, come spesso accade, l’idillio finisce: un nuovo record, previsto ad Ustica, non sarà conseguito, spezzando definitivamente l’incantesimo.
Le incomprensioni e i dissidi che, nel tempo, si sono verificati, non hanno, tuttavia, intaccato né i legami più forti né i tanti ricordi di Perozzi che, ancora oggi, continua a considerare i suoi vissuti da subacqueo come “esperienze uniche, molte delle quali irripetibili”.

"La banconota da un milione di sterline" ce l’hai da cambiare?

Marianna Abbate
ROMA In Italia il nome di Mark Twain è associato solitamente alla letteratura per ragazzi, e soprattutto alle figure dei due monelli Tom e Huck. Un vero peccato, dal momento che Twain è un grandissimo umorista, e anzi in America il premio più prestigioso che un comico possa vincere è quello che gli è intitolato.
Un esempio della sua sottile vena comica si può trovare nel simpatico racconto dal titolo ” La banconota da un milione di sterline”. Due anziani miliardari hanno appena ricevuto dalla banca l’unica banconota da un milione di sterline che esista al mondo.

Prima di farla invalidare e appenderla al muro come souvenir, pensano bene di divertirsi facendo una scommessa: se un poveraccio ricevesse la banconota farebbe la bella vita o nessuno lo accetterebbe nel suo negozio?
Proprio sotto le loro finestre trovano l’uomo adatto: un povero operaio senza lavoro e senza un centesimo. Gli consegnano la banconota e lo mandano via. Contro ogni possibile previsione il ragazzo riesce a farsi far credito nei negozi più in voga della città, perchè nessuno ha abbastanza denaro per cambiargli la banconota. Inizia così a frequentare il panettiere, la salumeria e addirittura il sarto più in voga senza sborsare un centesimo. Tutti cedono al fascino e alla ricchezza della ormai mitica banconota.
La situazione produce notevoli spunti comici e Twain li frequenta tutti. Il racconto è piacevolissimo per una letteratura che entra in pieno merito a far parte dei classici dell’umorismo- un po’ pirandelliano e un po’ genuinamente comico.

La signora del Brunello si racconta in “Il vino fa le gambe belle”

Silvia Notarangelo

Roma“Il vino fa le gambe belle”, frase ricorrente tra le persone anziane dedite alla vendemmia, è il titolo di una suggestiva autobiografia, pubblicata da Edizioni Cantagalli. Protagonista, la “signora del Brunello”, Francesca Colombini, nata a Modena, nel 1931, da babbo Giovanni e mamma Giuliana. E’ una bambina vivace, Francesca, legge e scrive con avidità, cresce “tosta come una contadina”, ama le cose semplici e, nonostante alcuni periodi di lontananza, è nella splendida Montalcino che lascia il suo cuore. Tra le pagine della biografia, i ricordi si susseguono nitidi, solo di tanto in tanto offuscati dal tempo trascorso. Come ammette lei stessa, la sua è un’esistenza vissuta “in maniera corale”, in cui mai sono mancati l’affetto e la stima di familiari e collaboratori dai quali ha ricevuto ma anche dato molto.
Sono davvero tante le persone che occupano un posto speciale nella sua memoria: dal nonno che sovrintende la lavorazione dell’uva, ai contadini che si sono succeduti alla fattoria rallegrandone le giornate, fino ai numerosi personaggi noti che hanno decantato, in tempi più recenti, le lodi del Brunello. Francesca Colombini riserva parole affettuose per tutti loro mentre ripercorre la sua vita, una vita felice, certo, ma non facile. È ancora una bambina quando scoppia la Guerra, e, impietrita, deve stendersi a terra per evitare una raffica di proiettili. Si salva, ma quella durissima lezione non la dimenticherà mai.

Nel 1945, il trasferimento a Firenze segna l’inizio di un nuovo, importante capitolo, contraddistinto da un amore, quello per Fausto, che durerà per sempre e che sarà coronato dalla nascita di due figli, Donatella e Stefano.

Lo sguardo dell’autrice è costantemente vigile anche sulle vicende storiche di quegli anni, che tanto influiscono sulle sue scelte immediate e future: le rivendicazioni contadine, la difficile ricostruzione degli anni Sessanta, il rapporto di mezzadria che a poco a poco si sgretola, la consapevolezza che, mai come allora, sarebbero serviti “soldi, idee e coraggio”. Con queste premesse ha, quindi, inizio l’inarrestabile ascesa del Brunello, caratterizzata da una nuova mentalità che si sarebbe rivelata vincente: instaurare un rapporto diretto tra produttore e consumatore. Nonostante le difficoltà e le paure che accompagnano ogni cambiamento così radicale, l’azzardo sarà ampiamente ripagato. Arrivano i primi riconoscimenti, la commercializzazione si espande rapidamente, babbo Giovanni parla addirittura di una “verticalizzazione produttiva”, esprimendo il proprio desiderio di costruire un caseificio, un salumificio e un ristorante, per valorizzare e promuovere i prodotti della storica fattoria dei Barbi. Tutti progetti che saranno portati avanti, con audacia e determinazione, proprio dalla Colombini che, da ultimo, non può esimersi dal ringraziare tutti i suoi concittadini, tutti coloro che al Brunello “danno del tu e che lo hanno guidato, con mano sicura, nel mondo dei grandi vini internazionali”.

"Bambini nel bosco", la storia di bambini nati con le storie

Giulia Siena
ROMA
“Il problema con le storie era che molte parole erano misteri. Anche Tom faceva fatica a capirle tutte, quando le incontrava. Ma ogni tanto qualcuna riaffiorava, nitida, con il suo sapore, il suo odore, il suo colore. Zucchero, per esempio. Era bianca, forse appena rosa, e restava a lungo sulla lingua. Era una parola da succhiare.” Cosa succede quando ai bambini vengono tolte le storie, i giochi, i genitori e i sorrisi? Succede che non hanno più memoria né fantasia. La stessa cosa è successa ai protagonisti del romanzo di Beatrice Masini, “Bambini nel bosco”   pubblicato da Fanucci Editore. Al mondo è successo qualcosa: una catastrofe che ha spazzato via le famiglie, le ore, le case e i nomi delle cose; così tanti bambini sono costretti a vivere in un posto a tutti sconosciuto. Tra loro c’è un gruppo più vivace che vive seguendo gli ordini della ferrea Hana e tutto il giorno allontana la noia cercando bacche da mangiare o azzuffandosi fino alle lacrime. Ogni giorno così senza che nessuno dalla Base gli dica se tutto quella “cattività” sia normale. Ma Tom sa che è successo qualcosa, lui è diverso dagli altri: ha qualche anno in più, ha qualche ricordo o “Coccio” che riaffiora e ha un segreto che custodisce con cura. Il suo segreto è fatto di pagine ricche di storie. Il suo segreto è un libro che sveglierà gli altri bambini dal torpore del silenzio e li porterà lontano. Il libro di Tom farà diventare questi bambini i “Bambini nel bosco”. 

Beatrice Masini ci porta in un romanzo che è privo di elementi spaziali e temporali; la sua scrittura ci catapulta in un mondo negato dove solo la forza della lettura e dell’immaginazione ti spingono ad andare più in la. Oltre ogni riga fino all’ultima pagina della sua storia per tutte le età.

“La figlia del reverendo”. Una profonda esplorazione dell’animo umano edito da Neri Pozza

Alessia Sità
Roma – “Ci sgretoliamo anno dopo anno e tutto rimane uguale a se stesso”.
Lo scorrere del tempo e la stasi di un insignificante villaggio, sito nelle contee orientali dell’Inghilterra, fanno da sfondo a “La figlia del reverendo” di Flora Macdonald Mayor, pubblicato da Neri Pozza Editore, nella collana I narratori delle Tavole. Il romanzo, oggi considerato un capolavoro del XX secolo, fu pubblicato per la prima volta nel 1924 da Leonard e Virginia Woolf .
La vita vuota e banale della non più giovane Mary è completamente sconvolta dall’arrivo di Robert Herbert, un vecchio amico dell’accidioso reverendo Jocelyn. Improvvisamente, per la protagonista rifioriscono tutte le emozioni soffocate durante gli anni trascorsi nella canonica di Dedmayne. L’esistenza silenziosa e prevedibile di una donna, abituata a vivere in un microcosmo chiuso, viene improvvisamente sorpresa dalla passione. Fondamentale diventa anche l’amicizia con la spigliata Kathy, che aprirà a Mary una finestra sul mondo, quello vero, lontano dalla condizione di governante – padrone della propria casa. Il legame con il padre, comunque, resterà costantemente presente in ogni nuova esperienza. Pagina dopo pagina, il lettore viene sempre più coinvolto in questo rapporto, in cui gradualmente emerge l’insensibilità di Jocelyn e la perenne soggezione della figlia.
Con una prosa elegante, Flora Mayor riesce ad indagare nel groviglio dell’animo di ogni singolo personaggio, soffermandosi particolarmente sull’impotenza di esso di fronte alle rigide regole sociali. “La figlia del reverendo” è un romanzo introspettivo, capace di esprimere in ogni sfumatura il difficile rapporto fra un padre egoista e il silenzio di una figlia che non trova il coraggio per porre fine alla propria condizione di sottomissione.

"Il deserto dei Tartari", il romanzo più famoso di Dino Buzzati

Agnese Cerroni
ROMA – Una mattina di settembre per Giovanni Drogo sembra giunto finalmente il momento di liberarsi della prevedibile e monotona esistenza condotta fino ad allora: sta per cominciare la vera vita, colma di promesse, soldi, belle donne, avventure. Infatti il giovane tenente, protagonista de “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati (Mondadori 1940) viene inviato dalla città alla Fortezza Bastiani. Tuttavia, da molti anni nessun attacco è più giunto da quel fronte, e la Fortezza, svuotata ormai della sua importanza strategica “E’ un tratto di frontiera morta (…) che non dà pensiero”. E’ un luogo ai confini della vita, oltre che dell’impero, che guarda su un deserto dal quale un nemico pare debba emergere dai sassi e dalla sabbia, una costruzione arroccata su una solitaria montagna, di cui molti ignorano persino l’esistenza.

 I zelanti militari che la abitano e le danno vita sono retti da un’unica speranza, che diviene ragione pura del loro esistere: vedere sopraggiungere i tartari da quei confini, per combatterli, acquisire gloria, onore, diventare, insomma, eroi. La vita scorre nei riti, nelle liturgie ripetute e volutamente ripetitive della vita militare. “Drogo non conosceva il tempo. Anche se avesse avuto dinanzi a sé una giovinezza di cento e cento anni, come gli dei, anche questo sarebbe stata una povera cosa. E lui invece aveva a disposizione una semplice e normale vita, una piccola giovinezza umana, avaro dono, che le dita della mano non bastavano a contare e si sarebbe dissolto prima ancora di farsi conoscere”. Trascorrono mesi, anni, le vite si consumano in questa sterile attesa, cullate dalla pigra abitudine, scandite dall’ignaro trascorrere del tempo in un romitismo forzato.

Giovanni Drogo, che arriva alla Fortezza convinto di ripartirne subito, si trova avvinto, immediatamente, dalla sua malia: è sicuro di sé, sa di avere tutta la vita davanti, di poterne disporre a suo piacimento, aspettando la grande occasione. Eppure, nell’abbandonare la casa e la vecchia madre, il giovane avverte una punta di amarezza: abbandona una vita, il mondo dell’infanzia, in cui tutto gli sembrava ancora possibile, in cui tutte le opzioni esistenziali erano ancora aperte e gli si spalanca dinnanzi la vita adulta, fatta di responsabilità, di limiti ed obblighi da rispettare. Trascorreranno quindici anni prima che egli inizi a rendersi conto che il tempo è fuggito, prima che riesca ad individuare, a ritroso, perfino l’attimo esatto in cui la giovinezza gli è sfuggita di mano “la prima sera che fece le scale a un gradino per volta”.

La Fortezza si erge all’orizzonte isolata, in terra di frontiera. Una frontiera morta, ormai, priva di pericoli e di minacce. Davanti, a nord, c’è il deserto, “pietre e terra secca, lo chiamano il deserto dei Tartari”, perché un tempo, molto lontano, pare fossero i Tartari a minacciare il confine. La Fortezza è un edificio inospitale, le sue mura sono tetre, il paesaggio intorno brullo, desolato, riarso. Alla Fortezza Drogo sperimenta la solitudine, “lo squallore di quelle mura, quell’aria vaga di punizione ed esilio, quegli uomini stranieri ed assurdi”. Intorno percepisce la rigidità burocratica della vita militare, le regole insensate, la vuota disciplina, un’organizzazione che, in mancanza di un nemico tangibile, gira a vuoto, fine a se stessa. Il tenente Drogo è deluso, vorrebbe tornarsene in città, ma un po’ i superiori, un po’ oscuri lacerti della sua volontà lo trattengono.

Più precisamente Buzzati scrive “oscure forze si oppongono, alcune originate dalla sua stessa anima”. Vede che i più anziani hanno consumato la loro esistenza nella vana attesa di un evento formidabile che la riscattasse, aspettando cioè la guerra, la battaglia, “l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno”, l’occasione propizia per dimostrare il proprio valore e ottenere gloria e onori agognati. “Per questa eventualità vaga”, – annota il narratore -, “che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumano lassù la migliore parte della vita”. Drogo, col passare del tempo, comincia ad abituarsi alla vita militare, con i suoi riti persino piacevoli e le sue certezze. Non succede quasi niente alla Fortezza: un giorno viene ucciso, per sbaglio e per zelante ossequio al regolamento, il soldato Lazzari, uscito a recuperare un cavallo che credeva il proprio; in un’operazione catastale più che militare, delimitare cioè il confine, muore, poi, ma di freddo, seppur con grande dignità, l’elegante e nobile tenente Angustina, sempre impeccabile nel vestire e nei comportamenti. Drogo ottiene una licenza e fa rientro in città. Non ne ricava, tuttavia, la felicità sperata: gli amici sono affaccendati, le speranze d’amore deluse, l’affettuoso rapporto con la madre è sbiadito, tra loro è calato come un “velo di separazione”. Gli anni intanto passano, la carriera di Drogo procede lenta, per esclusiva anzianità di servizio, mentre i vecchi amici, in città, “hanno fatto strada, occupano posizioni importanti”, lo hanno lasciato indietro nella corsa della vita, senza curarsi più di lui.

Giovanni aspetta ancora “la sua ora, che non è mai venuta”, ma il tempo stringe, molti cancelli si sono ormai chiusi alle sue spalle, ha bruciato molte possibili occasioni. Le scelte compiute ne stanno condizionando irreversibilmente l’esistenza. “E a più di quarant’anni, senza aver fatto nulla di buono, senza figli, veramente solo al mondo, Giovanni si guardava attorno sgomento, sentendo declinare il proprio destino”. Come tutti gli uomini, “indifesi contro il lavoro del tempo”, Giovanni Drogo malinconicamente invecchia. Un giorno i nemici, in forze, vengono avvistati all’orizzonte. Nella Fortezza è tutto un trambusto, un riorganizzarsi, un predisporre uomini e armi per lo scontro decisivo. L’ora della gloria è finalmente arrivata. Ma non per il protagonista. Solo, gravemente ammalato, dimenticato da tutti, considerato ormai un peso, Drogo abbandona su una carrozza per malati il fortino. Lo attende, tuttavia, una prova difficilissima, l’ultima e decisiva della sua esistenza, che richiede audacia, fierezza e dignità senza pari: l’incontro con la propria morte. “Giovanni raddrizza un po’ in busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride”.

E’ vero che "Pensi che ci saremmo potuti conoscere in un bar?"

Marianna Abbate
ROMA  “Pensi che ci saremmo potuti conoscere in un bar?” mi chiede la copertina del libro edito da CaravanSinceramente non saprei. I bar che frequento io non credo siano di gradimento di alcuno degli undici autori di questa antologia. Però chissà, il destino segue vie molteplici e insondate. 
I racconti non sono molto diversi tra loro: alcuni tristi, altri rassegnati; mancano volutamente di allegria e presentano una realtà un po’ squallida e ai margini della società. 

Come il condominio cracoviano che resiste al tempo guardando auto rubate cambiare il look nell’autofficina del suo garage, e una fabbrica di spazzole di fronte, trasformarsi in un covo di malviventi delle più diverse fazioni.
O il resoconto di un uomo che deve vagare per mille locali al seguito della sua bellissima ragazza, tanto per accontentarla, annoiato e stanco.
O la storia di un altro uomo, seduto a lungo sulla panchina di uno zoo a rimuginare sulla vita, sull’amore e in genere sui Massimi Sistemi.
Immagini che scorrono davanti ai nostri occhi, in un mondo che sembra aver dimenticato il Technicolor, in un vintage color seppia anni Ottanta. E ogni tanto la pellicola trema e salta qualche fotogramma. 
Ma sono poi così diverse dalle storie della nostra parte di Europa?
“Pensi che ci saremmo potuti conoscere in un bar?”. Ebbene sì, alla fine dei conti sì.
Forse avremmo viaggiato sulla stessa Golf verso una festa infinita e sfiancante, forse avrei potuto attraversare la strada di fronte allo zoo mentre stavi comprando il biglietto. Perchè i quattordici racconti, seppure ambientati nella lontana Europa dell’Est, non fanno altro che ricordarci che ogni uomo nasconde una storia, degna di essere raccontata.

“Confessione reporter. Quello che non ho mai scritto.” Un viaggio alla scoperta del vero volto del giornalismo pubblicato da Ponte alle Grazie

Alessia Sità
ROMA “Un articolo non basta mai per dire tutto perché vive solo il tempo in cui lo leggi. Subito dopo le vite da te incontrate spariscono nella fretta del prossimo reportage. E invece sono proprio quelle folle fruscianti di sconosciuti noti e forestieri, quella nebbia fitta di ricordi che fanno il succo e la carne del giornalismo”.
Così scrive Stella Pende, nell’introduzione di “Confessione reporter. Quello che non ho mai scritto”, edito da Ponte alle Grazie, nella collana Memorie. Attraverso numerose interviste, raccolte durante gli anni da inviata speciale, la giornalista riporta la propria esperienza professionale e personale, mettendo in evidenza come questo mestiere non viva solo di parola, ma anche di emozioni, caparbietà e rischi.
Partendo dal viaggio a Sarajevo e proseguendo con il racconto dei conflitti nei Balcani e in Medio Oriente, l’autrice dà finalmente voce a tutte quelle drammatiche realtà che troppo spesso vengono lasciate cadere “nella spirale del silenzio”.
Stella Pende ci regala pagine memorabili di ricordi personali, legati a celebri personaggi che con le loro azioni hanno segnato la nostra storia: da Gheddafi, al reporter poeta Kapuscinski, al terrorista galante Khaled Meshaaa, fino al premio Nobel per la Letteratura García Márquez. La coraggiosa cronista svela ai lettori il dietro le quinte e i segreti di un mestiere “troppe volte mitizzato, ma così poco capito nelle passioni che accende”, facendo emergere in qualche modo la vera “linfa del giornalismo”.
Attraverso un PRIMA e un DOPO, ogni articolo viene scandito dall’estenuante corsa contro il tempo . Con la straordinaria sensibilità di una donna che non dimentica di essere soprattutto una madre, Stella Pende ci offre “un viaggio lungo e felice”, che merita di essere vissuto attraverso il resoconto dettagliato di ogni momento descritto.

"Senza passare per Baghdad", quando è la strada a guidare il Caso.

Giulio Gasperini
ROMA –
Forse è vero che è tutto scritto nel destino; che tutti noi abbiamo, nei palmi delle nostre mani, la mappa della nostra vita. Ma è altrettanto vero (e forse più affascinante) pensare che le uniche mappe che ci potrebbero riguardare sono quelle dell’atlante, quelle del mappamondo che s’accende e brilla come lampada, quelle del planisfero appeso alla parete della nostra camera. Ed è altrettanto affascinante che per quelle strade del mondo sia il Caso a calarci, a guidarci divertendosi dei nostri imbarazzi, e delle nostre perplessità.
Luigi Farrauto di cartine se ne intende: ed è lodevole il suo tentativo di nobilitare la geografia come scienza della concreta vita, una specie di dimensione perfetta nella quale non possiamo non stare a nostro agio, addirittura sentirci più forti e vivi.
“Senza passare per Baghdad”, pubblicato nel 2011 dalla casa editrice romana Voland, è il romanzo di un’affermazione e di una crescita, di due deviazioni che portano a una tangenza in un luogo dove nessuno avrebbe mai pensato.

Alex e Jari sono due amici, due opposti che proprio per questo si armonizzano alla perfezione, in un gioco a rincorrersi che si definisce anche dal continuo palleggiarsi i punti di vista: prima l’uno e dopo l’altro giocano a dare ognuno la propria versione dei fatti, confermando a noi (e a loro stessi) che chi si conosce realmente non ha bisogno di parole per comunicare. A loro, per esempio, son sufficienti le fotografie: entrambi, infatti, scattano foto da ogni angolo di mondo. Per esigenze diverse, è ovvio. Ma, a loro, le sillabe non appartengono, non servono più di tanto. Loro comunicano tramite le immagini; tramite i risultati dei loro scatti si descrivono le emozioni, si indagano a vicenda, si completano quei luoghi bui, inesplorati, che ognuno di noi ha, inevitabile, in un angolo del sé.
I chilometri li dividono, coinvolgendoli in esperienze diverse e fors’anche distanti. Però poi, complici incidenti e inevitabili sconfitte, il loro avvicinamento sarà determinante: l’autore non ci dice dove la strada condurrà queste due anime di ragazzi, ma ci fa intendere che Damasco è soltanto l’inizio. Che tutto il prima è stato soltanto un’anticipazione. E che non bisogna per forza passare per Baghdad per rendere il cammino più agevole.