"Il clandestino", nel labirinto dei sospetti

Marianna Abbate
ROMA – Mi piacciono i gialli. Le idee originali, le storie che mi stupiscono. Ecco, “Il Clandestino” di Ferdinando Albertazzi mi è piaciuto. Edito da Sonda nella collana Giallo Noir, è un libro per ragazzi fatto molto bene. Non per niente l’autore insegna in corsi di scrittura creativa. La trama segue con attenzione tutte le regole della struttura perfetta di un giallo- ma è l’argomento e il modus operandi dei protagonisti ad essere diverso, innovativo.
La storia si dipana in una scuola, dove viene trovata strangolata una studentessa. Tragico incidente, suicidio, oppure omicidio?
Sono le tre ipotesi su cui indirizza le indagini il commissario Marchetti, il poliziotto incaricato delle indagini. I sospetti ricadono subito sui suoi compagni, con i quali aveva instaurato un rapporto inquietante e morboso legato ad un gioco di ruolo.
Ma come ogni giallo che si rispetti, la soluzione non è mai semplice come potrebbe sembrare. Un finale a sorpresa, completa la soddisfazione della lettura, sempre avvincente.
Un testo piacevole e divertente, che consiglio anche agli insegnanti come esercizio dell’analisi strutturale di un romanzo.

Virginia Woolf: "Sono una snob?", memorie di una sognatrice dilettante

Giulia Siena
ROMA – “L’essenza dello snobismo è il desiderio di fare colpo sugli altri. Lo snob è una creatura inconsistente, senza cervello, così poco soddisfatta della propria posizione che per darsi un po’ di spessore non fa che sventolare in faccia agli altri titoli e onorificenze, affinché si convincano, e convincano lui stesso, di ciò di cui in realtà non è affatto convinto: che anche lui, o lei, è una persona importante.”
E’ il 1936 quando Virginia Woolf viene invitata da Molly McCarthy al Memoir Club per leggere le proprie memorie. In questo contesto nasce “Sono una snob?”, il saggio che da il nome alla raccolta recentemente pubblicata da Piano B edizioni.
Cosa racconta la grande scrittrice di se? “La conclusione sembra dunque essere che io non sono soltanto una snob da blasoni; ma anche una snob da salotti sfavillanti; una snob da feste del bel mondo”. La Woolf è attratta da quella società fatta di chiacchiere e confronti, una società che si incontra nei salotti buoni di Londra per discutere di arte e lettere, così come ricorda Bloomsbury Group, il suo primo circolo intellettuale. La “scribacchina, sognatrice dilettante” 

"Libro di Ipazia": in un mondo che cambia chi sa distinguere il tramonto dall’alba?

Giulio Gasperini
ROMA –
La verità più profonda è quella che pronuncia Sinesio: ha il sapore (l’ombreggiatura) d’una profezia che, a distanza di secoli, si sta compiendo anche nei nostri miserrimi anni Zero: “Quando si è in alto mare la luce del tramonto e quella dell’aurora non sono molto dissimili. Non so bene distinguere”. Come a voler dire che, in epoca di transizioni, quella che pare la fine potrebbe essere l’epilogo ma potrebbe ben essere pure l’inizio di qualcosa d’altro. Ed è proprio questa indecisione, questo dubbio feroce, che Mario Luzi ha voluto indagare, in questa sua raffinata opera, “Libro di Ipazia”, edita da Mondadori nel 1978.


Ipazia è donna combattiva, che non depone l’unica arma a sua disposizione – la parola, ovviamente – per esortare e convincere i suoi concittadini a non lasciarsi travolgere da un cambiamento incombente e preoccupante, inquietante. Ipazia sfida le folle cieche di violenza e sprezzanti del ragionamento, impavida sa che l’ora è compiuta e che i sofismi non son più validi: adesso c’è solo da impugnare il proprio volere e conquistare il rispetto di sé.
Ipazia si immola, su un prevedibile altare: verrà assaltata dalla folla e smembrata al centro di una Chiesa, come fosse un novello Cristo pagano. Lei difendeva la cultura ellenistica, erede legittima della cultura classica, in una città, Alessandria, che rinnegava il suo passato vivace e stimolante per soccombere a ondate di invasioni, più o meno pacifiche (“Ah città morente, città crepata nelle fondamenta, come ti divincoli nell’agonia credendoti viva”): prima la religione cristiana, che si edifica su quella classica, e poi i barbari, che distruggono e poco ricostruiscono (“Dappertutto c’è divisione: tra ciò che si muove e ciò che sta, tra ciò che si disgrega e corre verso la gola spalancata e buia del futuro e ciò che si aggrappa alle macerie per resistere”).
Ogni epoca ha i suoi cambiamenti, e ogni cambiamento fa paura, scuote le coscienze, allunga le ombre dell’inquietudine e dell’apprensione (“Non ci sono leggi che impediscano e neppure leggi che proteggano. Non ci sono leggi affatto. C’è solo chi fa la legge”). Dove porterà la mutazione, dove sarà l’approdo per una nuova rotta che non conosce nocchiere né stella a orientare?
Mario Luzi è un cesellatore del ragionamento, è un attento collezionista della parola. Non c’è un solo termine che non sia giustificato, non c’è un solo ragionamento che abbia un cedimento. Non c’è un solo personaggio che dica più del necessario, più di quello che è consentito dalla storia, dalla geografia, dalla religione.
C’è poi chi, come Sinesio, vive la conflittualità d’una vita precedente rinnegata e d’una nuova abbracciata senza troppa convinzione: dove andare? Che fare? Quale deviazione prendere? (“Lo stato delle cose muta e mutano i nostri giudizi sinceramente talvolta, più spesso per necessità”). Domande antiche, remote; ma che, a ogni crisi, si ripropongono e, per questo, sono sempre fin troppo attuali.

"Il talismano della felicità", un manuale di cucina vintage

Marianna Abbate
ROMA – Questo sabato vi regalo un libro culinario vintage. Una sorta di Bibbia per tutte le spose del XX sec., ma pur sempre attualissimo. Tanto da essere tutt’oggi uno dei più quotati regali di nozze. Il Talismano della Felicità di Ada Boni, pubblicato in tutte le salse: “Di Voi, Signore e Signorine, molte sanno suonare bene il pianoforte o cantare con grazia squisita, molte altre hanno ambitissimi titoli di studi superiori, conoscono le lingue moderne, sono piacevoli letterate o fini pittrici, ed altre ancora sono esperte nel tennis o nel golf, o guidano con salda mano il volante di una lussuosa automobile. Ma, ahimè, non certo tutte, facendo un piccolo esame di coscienza, potreste affermare di saper cuocere alla perfezione due uova al guscio.” Così iniziava, quasi settanta anni or sono, la dedica alle lettrici in una delle prime edizioni de “Il Talismano della Felicità” manuale di cucina scritto da Ada Boni, che raccoglieva in maniera ordinata e sistematica tutte le ricette da lei pubblicate, sin dal 1915.
Un testo senza tempo con ricette gustose e consigli di vita, utilissimi anche oggi. Un volumetto che vi aiuterà a superare i piccoli drammi quotidiani, vi ispirerà cenette deliziose (apprezzate anche dal Gambero Rosso) e vi trasporterà in un’atmosfera d’altri tempi. Vestite un abito a fiori coprite la tavola con una tovaglia a quadri. Almeno per questa sera giocate alla donna perfetta.

“Cecilia. Comunità anarchica sperimentale”: storia di vita sociale.

Alessia Sità

ROMA – “Il nostro proposito non è stato l’esperimentazione utopistica di un ideale, ma lo studio sperimentale – e per quanto fosse possibile rigorosamente scientifico – delle attitudini umane”. Così Cardias parlava riferendosi al vero motivo che lo spinse a prendere parte alla singolare esperienza vissuta nella colonia Cecilia.

Era il 20 febbraio del 1890, quando un gruppo di pionieri salpava da Genova diretto in Brasile, per dar vita ad una colonia socialista sperimentale. Giovanni Rossi, noto anche con lo pseudonimo di “Cardias” racconta minuziosamente il tentativo di convivenza e connivenza comunitaria in “Cecilia. Comunità anarchica sperimentale”, opuscolo pubblicato da Ortica Editrice nella collana Le erbacce, nel maggio 2011.


Fra non poche difficoltà, legate alla scarsità di conoscenze in campo agricolo e alla mancanza delle strutture necessarie, si dipana la storia di questo gruppo di socialisti che decide di intraprendere uno stile di vita libero da vincoli legislativi, privo di organizzazione sociale, ma sostanzialmente basato sul rispetto reciproco. Nel suo puntuale racconto, Cardias si sofferma anche sull’analisi dell’amore libero, riportando l’esperienza diretta dell’unico episodio accaduto all’interno della colonia, e sull’emancipazione economica e affettiva della donna. Dopo poco più di tre anni, però, l’esperimento della Cecilia si conclude miseramente per diverse ragioni: il Governo brasiliano, il Clero e la terribile epidemia, causata dalle scarse condizioni igieniche, che costrinse la maggior parte delle persone a rientrare in Italia.
In questo libretto, Giovanni Rossi offre uno straordinario documento storico-sociale che invita a riflettere attentamente sull’essere umano e sulle sue capacità di riuscire a vivere civilmente, anche al di sopra delle regole che governano la società.


"S.C.U.M Manifesto per l’eliminazione del maschio", perché ogni uomo, nel profondo, sa di essere un indegno pezzo di merda

Giulia Siena
ROMA “In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istruire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile”. “S.C.U.M Manifesto” apparve nel 1967 nelle strade americane venduto  a 25 centesimi alle donne e 50 agli uomini da Valerie Solanas, la femminista che lo scrisse e lo autoprodusse. Oggi che il femminismo è quasi solo un ricordo, oggi che le donne fanno di tutto per apparire “accessori” del maschio,  “S.C.U.M Manifesto per l’eliminazione del maschio” viene pubblicato dalla Ortica Editrice quasi a ricordare cos’era il più sfrenato femminismo. 

Scum è sporco, è feccia. Scum sono le donne Figlie di papà che permettono al maschio di credersi utile, indispensabile, superiore e forte; invece il maschio è una nullità, vive per somigliare alla donna. Scum è il Manifesto femminista di una donna tradita dal proprio padre durante l’infanzia: gli abusi subiti ne hanno fatto una donna forte ma allo stesso tempo rabbiosa. Una donna che è stata nomade, prostituta, studiosa, eterosessuale, bisessuale e lesbica. Una donna che ha osservato la società americana del dopoguerra per descriverne – estremizzando – le crepe e le pecche. Così è nato il trattato sull’eliminazione del maschio, quasi come un appello alle femmine a schierarsi dalla parte delle donne determinate a eliminare dalla società il male rappresentato dal maschio. Un essere, secondo la Solanas, “incapace di comunicazione, di trasporto, di identificazione con altri”, un essere che acquisisce un proprio ruolo solo attraverso i figli e le guerre. Ma Scum non è sommossa isterica, “SCUM braccherà la sua preda freddamente, nell’ombra, e poi, con calma, la ucciderà” perché “ogni uomo, nel profondo, sa di essere un indegno pezzo di merda”.

"Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita": un volto per tutti quelli che non disturbano la Storia.

Giulio Gasperini
ROMA –
Sono molte le latitanze per non disturbare la Storia: Elsa Morante, ad esempio, lo dimostrò e documentò magistralmente in quel capolavoro che intitolò, non casualmente, “La Storia”. Negli anni del ribattezzato “secolo breve” uno dei modi coatti, più vergognosi e turpi, nel quale violare e sacrificare le individualità, fu il manicomio. Tutto questo prima della legge 180/78, la legge Basaglia, che chiuse tali “istituti” col nobile proposito (ahimè, mai perseguito né realizzato) di accudire e seguire i presunti “malati” in altri contesti e in altre forme di socialità. Poche sono state le voci che, dall’inferno di codesti istituti, si sono sollevate e sono giunte a ripristinare e riconfermare una liricità d’esistenza, una fiera (e, in molti casi, lucida) cognizione del sé. Adalgisa Conti è una di queste voci: sua è una lettera, di spietato autobiografismo, datata 25 marzo 1914, e pubblicata nel 1978 da Gabriele Mazzotta Editore, che si apre con queste limpide parole: “Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita”.


Quasi sempre, infatti, i documenti che han riportato in vita quest’umanità dolente, questi uomini e donne di dolore, sono lettere, ritrovate un po’ per caso un po’ per sbaglio nei mucchi di materiale e di documentazione studiato, con coraggio e passione, spesso solamente da associazioni interessate a un recupero memoriale che non fosse solamente pura curiosità morbosa, ma consapevole resurrezione e redenzione di coscienze (le nostre, prima che le loro). Lettere che testimoniano quanto la scrittura fosse sentita dai “pazienti” come mezzo per preservare intatta la propria vita.
Un privilegio, quello di essere “alfabeta”, che pure Adalgisa scontò come una punizione, cercando di trovare nelle parole il suo affrancamento: dalla stesura della lettera, infatti, appena internata, trascorsero più di sessant’anni, nei quali Adalgisa tornò a essere di nuovo una lunga lista di appunti su una cartella clinica (e quasi tutti che la indicavano come “invariata”).
La vicenda di Adalgisa Conti è simile a quella di molti altri uomini e donne, i quali, come è scritto nell’Ecclesiastico, “svanirono come se non fossero esistiti; furono come se non fossero mai stati”. Molti, nelle loro lettere, chiedevano ai familiari di andare a trovarli, perché non riuscivano a capire la ragione della loro segregazione, della loro esclusione dal mondo.
Simone Cristicchi ci ha presentato, nel suo album “Dall’altra parte del cancello”, un certo Gottardo, che scrisse alla moglie, dal manicomio di Volterra: “È già diverso tempo che io mi trovo in questo manicomio ricoverato […] Non potete immaginare quanto brami di tornare a Cecina, che qui mi par d’essere in esilio”. La giovane Adalgisa, invece, chiese alla madre: “Devo aver fatto dei gran mali al mondo non è vero mamma?”; con uno sbigottimento che spezza il cuore.

"Sostiene Pereira" e l’importanza di essere liberi

Stefano Billi

ROMA – Immaginatevi un’aula di tribunale.
Oppure immedesimatevi in una sala atta agli interrogatori di polizia. O ancora, pensate ad una situazione in cui si è costretti a riferire qualcosa, con un dialogo impostato a mo’ di resoconto in terza persona.
Non appena inquadrata questa situazione strana e a dir poco spersonalizzante, dove ogni cosa è forma e burocrazia, avrete l’idea dello straordinario e originalissimo strumento letterario usato da Antonio Tabucchi per il suo romanzo – forse, il più bello – intitolato “Sostiene Pereira”, edito da Feltrinelli.
Caratteristica fondamentale del testo è un periodare svelto, asciutto, dove la compostezza però non ingrigisce le descrizioni dei luoghi e delle atmosfere.
Insomma, un modus scrivendi innovativo, che per certi aspetti sembra consono più ad una pagina di cronaca nera, che alle pagine di un best-seller.
Ma di “Sostiene Pereira” va apprezzata soprattutto la commovente vicenda narrata al suo interno: un esperto giornalista e un giovane neolaureato a confronto, entrambi travolti dagli accadimenti storico-politici di fine anni trenta, in un Portogallo diviso tra chi condivide e supporta l’ideologia salazarista, e chi invece si ribella ad ogni forma di totalitarismo di matrice fascista.
Pereira, giornalista di lungo corso e protagonista della storia, fatica a scegliere da che parte stare.
Poi, di fronte ai soprusi legittimati dalla vicinanza nazionale portoghese al franchismo, assumere una posizione netta di denuncia politica diventa indispensabile, per poter ancora convivere con la propria coscienza.
Nel libro domina una straordinaria umanità, innalzata dalla convinzione che un’ideologia non può mai sopraffare la persona, così come la libertà di essere e di pensare ciò che si vuole non può essere calpestata.
Questo romanzo mette in risalto l’assoluta dignità dell’individuo, al di fuori di una sterile dialettica tra destra e sinistra.
Perché ciò che conta è l’essere umano, non la tessera di un partito.
In fin dei conti, è proprio questa convinzione che sta alla base dello stato di diritto.
Al di fuori di essa, può soltanto valere il brocardo latino homo homini lupus, tanto temuto da quel grande pensatore che va sotto il nome di Thomas Hobbes.
E comunque, “Sostiene Pereira” è soprattutto una storia piacevolissima da leggere, dove con estrema facilità ci si lascia emozionare dai personaggi e dalle vicende.
Per lo meno, così sostiene questo umile redattore.

“Gli occhi dell’amore”: storie drammaticamente vere

Alessia Sità
ROMA Si intitolaGli occhi dell’amore” l’ultimo libro di Nadia Turriziani pubblicato qualche mese fa da Sangel Edizioni.
Diciotto racconti drammaticamente veri incentrati sull’amore e sulle sue diverse sfaccettature: dall’amore familiare a quello per gli amici; dall’amore romantico a quello sessuale e talvolta anche platonico.
Tante storie per parlare di un unico sentimento che non solo nutre e scalda il cuore, ma spesso tormenta e logora l’anima, trascinandola talora in bilico fra la vita e la morte.
Con uno stile schietto e diretto e con una nota di comicità opportuna, Nadia Turriziani affronta delicate questioni sociali che quotidianamente campeggiano su giornali e in televisione: dall’anoressia all’omosessualità, dal pregiudizio alla violenza, dalla vita alla morte.

L’autrice ci regala pagine di vera intimità affrontando tematiche che molto spesso nascondono dei veri tabù.

Ne “Gli occhi dell’amore” il quotidiano prende sempre più forma, fra turbamenti e sensazioni totalizzanti, il lettore è travolto in una costante riflessione con se stesso e con tutto ciò che lo circonda; inevitabilmente ci si ritrova ad immedesimarsi sempre di più nelle complicate vicende di ogni protagonista.
Nei suoi racconti, alcuni dei quali arrivati finalisti in vari concorsi letterari nazionali, Nadia Turriziani dà soprattutto voce alle donne: a quelle violentate e mortificate nella propria femminilità, a quelle trascurate e ignorate.

"Aiutatemi a dimenticare" perché Hava vive

Agnese Cerroni

ROMA«A che religione appartieni?» «Cattolica» mentì Nina. «La sera prima di andare a letto hai pregato in yiddish. Lurida vipera, ammetti di essere ebrea?»

«Non lo s..» non fece in tempo a finire la frase, colpi di frusta le mozzarono il fiato.

La giovane Hava è sola nella Polonia devastata dalla violenza nazista, tra lei e la morte c’è solo la carta d’identità falsa che le ha dato il padre prima di essere ucciso. La ragazza ebrea si aggrappa alla nuova identità di cattolica per superare l’orrore della persecuzione, la fame, il tradimento, le umiliazioni, la violenza, gli interrogatori della Gestapo.

Distruggere la propria storia, i propri ricordi, il proprio passato è il prezzo che deve pagare per resistere e sopravvivere nella tragedia dell’Olocausto. Hava vive.
Aiutatemi a dimenticare ( Ugo Mursia Editore) è il suo grido di sopravvissuta che ancora una volta attraversa l’incubo per arrivare fino a noi: tragica testimonianza di chi non vuole che la Memoria della Shoah sia cancellata