È un paese per bambini quello che stiamo abitando?

E' un paese per bambiniGiulio Gasperini
AOSTA – Il Italia ci sono più automobili che bambini, pro capite. Con questa rivelazione persino agghiacciante si apre la riflessione di Alessandra Nucci, esperta di agricoltura e alimentazione. Nel suo “È un paese per bambini”, edito da Effequ nella collana Saggi pop, la studiosa costruisce sulla carta la tipologia di mondo che sarebbe opportuno veder costruito per il benessere dei bambini e delle future generazioni.
Si inizia dal concetto che l’agricoltura è alla base delle “sorti umane e progressive”: non si può prescindere dal settore primario, che però deve essere ripensato sulla base di un notevole cambio di prospettiva. Non si può più immaginare un’agricoltura basata sullo sfruttamento intensivo, ma è necessario pensarla sulla base del chilometro 0, magari su principi di collettività e socialità come si stanno affermando in piccolo nelle città, magari con l’istituzione degli orti urbani o delle coltivazioni condivise. Partendo da qua, la Nucci affronta poi il problema dell’alimentazione e di quanto sia importante per il nostro benessere, soprattutto in un mondo come il nostro. Fondamentale, per la Nucci, è una corretta educazione alimentare, portata avanti con coscienza e intelligenza anche nelle scuole, oltre che nelle famiglie, per poter permettere a tutti di elaborare proprie strategie di benessere psico-fisico. Ed ancora più importante è capire la relazione emotiva che i bambini hanno con il cibo: comincia a costruirsi proprio nei primi anni il legame con gli alimento, coi gusti, coi sapori, con gli odori. La situazione in Italia, secondo le ultime analisi, non è incoraggiante: l’obesità dei bambini, ad esempio, registra un dato paurosamente alto, come all’opposto è pericolosamente basso il dato di chi consuma frutta e verdura regolarmente. Ma non sono solo le abitudini alimentari, per questo, da rivedere completamente e da riprogettare, ma anche la fruizione del cibo ha subito cambiamenti radicali che hanno abolito la socialità della tavola a favore di pranzi e cene consumate velocemente, di fretta, spesso nella compagnia alienante di un televisore. Senza più la convivialità che arricchisce e impreziosisce le vivande stesse, si perde una dimensione fondante del cibo, come nutrimento anche culturale e civile, degradandolo soltanto al ruolo di dispensatore di calorie.
In questo senso, “È un paese per bambini”, arricchito da due interventi di studiosi mondiali (John Kariuki, consigliere internazionale di Slow Food per l’Africa Orientale, e Carmen Martì Navarro, psicologa clinica), diventa uno strumento di positività, che permette sia di focalizzare alcuni importanti concetti che i meccanismi del mondo contemporaneo hanno fatto dimenticare sia di trovare alcune vie d’uscita, alcuni varchi di fuga per poter cominciare a rimettere noi stessi al centro del mondo e tenere il mondo stesso un po’ al centro assieme a noi.

“No país do futebol”: il Brasile al centro del mondo.

No Pais do futebolGiulio Gasperini
AOSTA – Sotto tutti i riflettori del mondo. Non solo in quest’estate del 2014 con i Campionati mondiali di calcio ma anche in previsione delle Olimpiadi di Rio del 2016; e poi, per i gravissimi scontri sociali che l’assegnazione dei due grandi eventi ha scatenato nel popolo brasiliano, con le forti contestazioni alla politica e ai poteri forti di una delle economie considerate più in sviluppo del mondo contemporaneo.
Il giornalista Bruno Barba, come da sottotitolo, ha compiuto un viaggio antropologico in questo paese enorme e multiplo, con tante identità a incastrarsi e sovrapporsi in un mosaico complesso quanto affascinante: “No país do futebol”, edito nel 2014 da Effequ, è il risultato di questo ritorno alla casa del calcio, per eccellenza, in un mondiale dal quale l’Italia è già stata eliminata ma che non perde per questo il suo fascino indistinto.
Il punto di vista è quello del “casalingo di Voghera”, ovvero dell’italiano medio, che come sempre comincia a interessarsi di una geografia quando vi accade un evento superiore, che riesce a catalizzare la sua attenzione e ad aggirare i suoi preconcetti. L’obiettivo è quello di presentare un paese che sta vivendo un’evoluzione a ritmi pazzeschi, un’accelerazione alla modernità che ha pochi paragoni nel resto del mondo. Un paese, il Brasile, che ha sempre incuriosito e interessato per i suoi eccessi, le sue peculiarità, la sua natura ribelle, le sue dimensioni spropositate, la sua storia di armi e sangue, le sue devastanti contraddizioni, la sua musicalità anche linguistica, la genialità dei suoi artisti, la carnalità della sua letteratura. Il suo calcio stellare: ed è proprio da questo sport che l’esplorazione comincia, inevitabilmente. L’assegnazione del mondiale, le proteste, i lavori non conclusi, la prospettiva di una festa del calcio che sia orgoglio e rivalsa di un popolo e di una cultura interi. Ma dal calcio si passa ben preso ad altro: si passa ai luoghi comuni, ai pregiudizi, alle favole raccontate su questo paese dalla storia imponente. E poi si parla di libri, di poesie, di canzoni, di bossanova, di favelas, di telenovelas, di Ordem e Progresso. Nel particolare, Bruno Barba passa a descrivere le città protagoniste di questo mondiale, da Salvador de Bahia, “Universo negro”, a Rio de Janeiro, “A cidade maravilhosa”, da San Paolo, “La patria degli italiani”, a Manaus e Recife e tutti gli altri luoghi che adesso tutti sanno per averli sentiti alla televisione ma che nessuno conosce veramente. Il Brasile è il grande esempio, il grandissimo manifesto del meticciato, dell’incontro che crea unione e forza, della contaminazione che non è sinonimo di male ma che diventa potenza per significarsi in maniera migliore e più performante.
Un viaggio affascinante e coinvolgente, questo di “No país do futebol”, in uno stile accattivante che ci accompagna per mano, ci mostra le curiosità, ci rende consapevoli che il Brasile intero è più di un paese o di un orizzonte commerciale: è una ricchezza meticcia per tutti.

Lo strabiliante mondo dei “Piccoli viaggiatori a piedi e in treno”.

Piccoli viaggiatori a piedi e in trenoGiulio Gasperini
AOSTA – Qualcuno ha scritto, tempo fa, che il treno è il miglior mezzo per viaggiare. Perché ha i suoi ritmi, fa le sue fermate, crea socialità e annienta le tensioni del percorrere distanze anche lunghe. Di sicuro, il treno ha un fascino tutto particolare, derivato forse anche da quegli antichi romanzi di esplorazioni e misteri, quando ancora gli aerei non esistevano. Terre di Mezzo Editore ha appena pubblicato una guida, scritta da Annalisa Porporato e Franco Voglino, dedicata ai viaggiatori più giovani che vogliano provare quest’antica emozione di un viaggio in treno, con le ultime ferrovie particolari che sono rimaste nel mondo. Ecco l’intento di “Piccoli viaggiatori a piedi e in treno”, che illustra, come da sottotitolo, “30 escursioni brevi per divertirsi con la famiglia”.
Prendendo in esame vari tratti ferroviari, la guida propone delle escursioni perfettamente adatte ai viaggiatori più piccoli e alle loro famiglie. Si comincia con la Ferrovia ligure, da Genova a Ventimiglia, per poi proseguire con altri frammenti di rotaie. Dalla Genova-Casella, che vide la luce nel 1929, alle ferrovie più particolari, come la Funicolare di Mondovì, la Tranvia e la Ferrovia del Frejus, che da Torino si inoltra verso Bardonecchia. Ma sono inserite anche tante Funicolari, di cui l’Italia pullula senza magari che se ne sappia troppo: dalla Funicolare di Mondovì alla Tranvia Sassi-Superga, inaugurata nel 1884, dalla Funicolare di Biella alla Funicolare Como-Brunate, dalla cui stazione finale si può arrivare a piedi al Faro voltiano, che concede una stupefacente vista del Lago Maggiore.
Sono tutti percorsi arditi, che l’uomo ha creato faticando ma non devastando la natura preesistente. Sono sentieri, strade che permettevano di collegare realtà che altrimenti sarebbe rimaste troppo isolate e che adesso ci permettono di contemplare il paesaggio da un angolazione completamente diversa, più declinata nei criteri della calma, dell’attenzione più stimolante, della pazienza che i grandi viaggiatori hanno sempre avuto: e che si comincia a maturare da piccoli. All’opposto delle Alte velocità che sfrecciano e dilaniano il paesaggio, questi treni permettono uno sguardo attento e cullante, un contatto visivo ma anche emozionale con tutto ciò che scorre fuori dal finestrino.
L’attenzione è rivolta ai più piccoli ma anche alle famiglie, perché il viaggio è senza dubbio un’occasione notevole di consolidare rapporti e di curarne altri, che permette a ognuno di cambiare per un po’ le proprie identità per costruirsi migliori in rapporto a sé e in rapporto agli altri.

LetterAltura 2014: le montagne scritte.

LetterAlturaVERBANIA – Torna, anche quest’anno, il classico appuntamento con la letteratura di montagna e di viaggio che trova la sua splendida cornice tra le valli del Verbano. Quest’anno la manifestazione LetterAltura, giunta alla sua ottava edizione, si terrà dal 26 al 29 giugno a Verbania, dal 5 al 5 luglio a Domodossola e il 13 luglio ad Ameno e Miasino, sul Lago d’Orta. Un festival itinerante, che ogni anno coinvolge varie località della provincia e che espone tutti i suoi gioielli.
Quest’anno 55 eventi, più di 60 ospiti nazionali e internazionali, tra i quali l’antropologo Marco Aime, la scrittrice per bambini Chiara Carminati, la scrittrice mozambicana Amilca Ismael, lo scrittore Davide Longo, il fumettista Ugo Bertotti, gli alpinisti Manolo e Nives Meroi. Tutti gli eventi, dalla mattina alla sera, saranno organizzati tradizionalmente in sei percorsi tematici, che quest’anno avranno un particolare punto focale nel continente africano, senza dimenticare la montagna come ricerca essenziale e imprescindibile dell’evento: Alpinismo, Rifugi e architettura alpina, La pecora, Il fumetto/reportage, Destinazione Africa: viaggio verso il futuro, Le vette della scienza.
Un apposito spazio, con attività e laboratori, sarà dedicato ai bambini, ospiti d’onore, come ogni anno, del Festival che unisce il fascino dei luoghi vicini alle suggestioni degli orizzonti lontani.
Cliccando qui, l’intero programma dell’evento.

“Il maestro dentro”: la scuola anche in carcere, nonostante tutto.

Il maestro dentroGiulio Gasperini
AOSTA – Ci sono mestieri che sono piuttosto vocazioni. E ci sono mestieri che non si è mai pensato di poter fare, ma che poi diventano il migliore dei possibili orizzonti. Questo secondo caso è un po’ quello capitato a Mario Tagliani, ritrovatosi a fare l’insegnante un po’ per caso e finito, ancora più per caso, a fare il maestro nel Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino. Trent’anni di insegnamento in una situazione non convenzionale sono raccontati in “Il maestro dentro”, appena uscito per Add Editore. Un diario, ma ancora di più un lungo memoriale di incontri, scoperte, disagi, dolori, attese e sorprese che non sarebbero potuti accadere in nessun’altra parte se non là, all’interno di quel carcere.
Ma nelle pagine di Tagliani si ripercorre velocemente anche la storia degli ultimi trent’anni di Italia, in una prospettiva sociologica particolare e interessante: i cambiamenti della società italica visti attraverso i cambiamenti del carcere. Perché è innegabile che il rapporto sia stretto, e che si alimenti a vicenda. Si comincia coi primi anni, quelli nei quali le celle straripavano di ragazzini meridionali: napoletani, calabresi, siciliani. Finiti al Nord per colpa di una migrazione interna, mai adattatisi alle regole e al modo di vivere così distante dal loro. Ma poi l’Italia cambia: orizzonte di migrazioni internazionali. Prima gli albanesi, poi cittadini del Nord Africa che decidono di attraversare lo stretto braccio di mare per una terra che sembrava il paradiso ma che, in realtà, molto spesso fu gabbia e prigione. E così anche le classi del Ferrante cambiano: serve una nuova scuola, servono lezioni che insegnino spesso i rudimenti dell’italiano, servono confronti che aprano a una prospettiva interculturale, innalzando i livelli di difficoltà e incomprensioni ma anche potenziando le scoperte inattese. Ma cambiano anche i secondini, le guardie, i direttori. E cambia anche il Ferrante stesso: sparisce il campetto di erba vera e ne compare uno di erba sintetica, sparisce l’entrata maestosa del palazzo storico e ne compare una grande come la porta di uno sgabuzzino.
La scuola può essere declinata secondo modalità diversissime. Si può fare scuola esulando da libri e tabelline, da compiti e cartine mute. Si può fare scuola educando al confronto, nutrendo idee, proponendo impulsi e scatenando reazioni. Si può fare scuola anche solo organizzando partite di calcio, dipingendo, raccontando, smettendo di guardare fuori da una finestra sbarrata per posare gli occhi sui compagni e cominciare a interagire nelle tante spigolosità di carattere e pensieri. Non sempre la scuola riesce nel suo intento, ma non per questo si può rinunciare, si deve disertare un ruolo che, quando amato e portato avanti con passione, diventa un gioco. Ancora di più in un carcere, che dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, “un luogo di sosta, di passaggio per chi ha sbagliato, luogo ideato per permettere di ripensare all’errore commesso: si deve allora superare la colpa per arrivare alla responsabilità”. La stessa responsabilità che dovrebbe aver lo Stato nel permettere che un carcere del genere possa effettivamente affermarsi.

Il coming out “Sulla mia pelle”.

Sulla mia pelleGiulio Gasperini
AOSTA – Jodie Foster, Tom Daley, Maria Bello, Michelle Rodriguez, Thomas Hitzlsperger: il coming out non sta diventando di moda. Sta semplicemente facendosi più facile. Oramai i cambiamenti – seppur lenti – della società permettono di non sviluppare feroci sensi di colpa per la propria vera natura. Il coming out rimane comunque spesso un faticoso percorso interiore, frutto di uno scavo profondo nella propria intimità, nella lenta ma inevitabile presa di coscienza di sé, del proprio io; percorso, questo, che rappresenta per ognuno la pietra angolare dalla quale partire per costruire la propria personalità e sulla quale costruire le capacità relazionali. La storia di Beldan Sezen potrebbe essere particolare per tanti aspetti: turca, cresciuta in Germania, trapiantata ad Amsterdam, artista, lesbica. Ma la sua narrazione, in “Sulla mia pelle”, edito dalle Edizioni BeccoGiallo nel 2014, ce la rende tutto sommato abbastanza comune. Non per questo banale, ovviamente; ma una sorta di exemplum di dantesca memoria: un percorso, cioè, nel quale chiunque si possa ritrovare, adattandolo alle proprie variabili e modellandolo sulle proprie varianti, ma pur sempre carico di valori universali.
Probabilmente questo non era neanche l’intento dell’autrice, ma la capacità della buona letteratura sta proprio in questo: nel diventare strumento comune, identità collettiva. Letteratura, sì; perché oramai la graphic novel è genere letterario, sufficientemente adulto per poter permettersi di affrontare temi e questioni anche complesse, con una facilità di fruizione data anche dalla sinergia di linguaggio iconico e testuale. E questo “Sulla mia pelle” ne è esempio lampante e significativo. Con una varietà sorprendete di tratti e di forme, la storia del suo coming out si sviluppa non semplicemente in ordine cronologico ma seguendo dei percorsi tematici, in particolare il rapporto (e il complesso svelamento) con la madre e soprattutto i primi amori etero, che non riescono a soddisfarla completamente, per vari aspetti. Ma compaiono anche gli altri membri della famiglia, le loro inattese reazioni, i Gay Games di Amsterdam, i rapporti con le amiche, gli amori che si trova a dover affrontare e che la conquistano con la pienezza dei gesti e delle sensazioni.
Il percorso personale è una progressiva scoperta, dalle prime forme che non tengono alla pienezza del comprendersi e nel capirsi indipendentemente da tutti. È una consapevolezza che nel caso di Beldan Sezen cresce in maniera direttamente proporzionale alla scoperta dell’arte e della manifestazione artistica, in particolare del fumetto. Sicché tutta l’ interiorità – femminile, in questo caso –viene messa in gioco, entra nel complesso meccanismo di porsi feroci domande, che spesso inchiodano a terra, e nel trovarsi inequivocabili – ma sofferte – risposte. Perché il coming out, spesso più che con gli altri, è una sofferta forma di riconoscimento di sé stessi per sé stessi.

“La notte”, il fumo, il freddo e Auschwitz

wiesel2Marianna Abbate

ROMA – “Questo è Auschwitz. Come fate a non sapere cosa succede qui, è il 1944!” Sono queste le parole che accolgono gli uomini frastornati, scesi appena da un vagone per bestiame, dopo un viaggio durato diversi giorni. Dopo un viaggio terrificante, stipati in ottanta, senza acqua e senza aria.

Cosa può esserci di peggio di questo?

Ce lo racconta Elie Wiesel, celebre sopravvissuto del campo di Auschwitz, nel libro forse più conosciuto sulla Shoah: “La notte”, edito da Giuntina.

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La “Scimmia nera” che ci cammina a fianco.

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AOSTA – La violenza è dovunque. A ogni angolo, in ogni strada, dentro ogni appartamento; peggio ancora: in ognuno di noi. “Scimmia nera” di Zachar Prilepin, edito da Voland nel 2013 nella collana Sírin, ci fa sprofondare in questa banalità tanto sconcertante: non c’è luogo al mondo dove la violenza, in una qualche forma, non si palesi, dove non domini furiosa.
Partendo da una già strana inchiesta sulla violenza dei bambini, e documentando alcuni esperimenti di analisi e studio comportamentale di alcuni minori tenuti sotto vetro in un laboratorio occultato chissà dove, il protagonista della storia ci fa strada in una complessa vicenda di incontri e tangenze, tutte caratterizzate da una vena, più o meno densa, di violenza e sopraffazione, di angoscia e squilibri emotivi. A cominciare dalla sua relazione sessuale con una minorenne, per finire al cruento rapporto con la moglie e a una brutalizzazione estrema di ogni gesto della quotidianità più naturale e banale.
Il tentativo di capire come mai si studino i comportamenti di bambini all’apparenza normalissimi ma reputati capaci di estremi gesti di violenza, arrivando fino all’omicidio, crea nel protagonista un’ansia di documentazione, che lo induce a interrogare chiunque ritenga in possesso di informazioni o di particolari punti di vista. La sua è una ricerca perduta, un’immersione in una ferocia potente e totalizzante, un percorso che pare non avere nessuna soluzione: c’è solo il costante e irrecuperabile sentore di una dissoluzione, di una putrefazione anche umana. Perché la violenza trova sempre la strada per concretarsi, al di là di ogni difesa si possa pensare di innalzare, al di là di ogni intervento si possa realizzare (paradigmatica, in questo senso, la narrazione dell’assalto alla città da parte di fantastici eserciti di bambini senza paura). Ma la violenza spaventa ancora di più, perché tutti ne possono rimanere coinvolti; o, ancor di più, tutti ne potrebbero essere capaci. Come se a ciascuno di noi camminasse una scimmia nera a fianco; una sorta di ombra, presenza demoniaca, concretazione materiale del nostro lato più oscuro e più refrattario al controllo (razionale o meno, non spetta dirlo).
Il viaggio di Prilepin è quasi visionario, una corsa a occhi chiusi, un delirante rosario di azioni feroci e furiose; ma il tutto sublimato intensamente e drammaticamente (nel senso di potenza rappresentativa) da un afflato poetico ricco, che sublima e porta a perfezione ogni quadro, ogni narrazione, ogni episodio; anche i più confusi e mortificanti.

Vot’Antonio? No, Vota Socrate!

Marianna Abbate

ROMA – Chi ha detto che a sbagliare sono solo gli uomini? Anche nel disegno divino a volte possiamo trovare delle lacune. E così Socrate, uno degli uomini migliori per arbitraria decisione, non può usufruire del dono della vita eterna per un errore tecnico. Incastrato per oltre duemila anni, attende il suo turno fino a che san Pietro non si accorge del gravissimo mancamento verso il filosofo. Vogliamo lasciarci forse sfuggire la notevole conversazione tra i due? Fortunatamente nei paraggi passava la bravissima cronista Ada Fiore, che ha potuto origliare in prima persona quanto detto dal santo al filosofo e viceversa. Continua

“Roghi fatui”: la più grande invenzione della storia.

Roghi fatuiGiulio Gasperini
AOSTA – Probabilmente è stata la più grande invenzione dell’umanità: un’invenzione che ha rivoluzionato il mondo in tanti modi, aprendo prospettive e percorsi inarrestabili. La stampa ha cambiato il mondo della cultura, e la cultura ha cambiato la storia dell’uomo: un’evidenza che non è mai troppo sottolineata né considerata, quando si discute di cultura, di costi e tagli. Ma quale prezzo abbiamo pagato per la libertà di stampa? Questa è la domanda dalla quale parte l’indagine romanzesca di Adriano Petta, che in “Roghi fatui. Oscurantismo e crimini dai Catari a Giordano Bruno” edito da La Lepre Edizioni nel 2011 nella collana “Visioni”, dispiega un’appassionante vicenda, ai limiti del giallo e della spy story, tutt’intorno all’universo del libro e della stampa.
Quella di Petta è una narrazione basata su un’indagine storica accuratissima, secondo le parole stesse dell’autore: “Per scrivere questo libro ho scavato nella cenere dei roghi delle biblioteche e di tutti i martiri della ragione e della scienza”. Nelle intenzioni dell’autore “Roghi fatui” è una sorta di conclusione ideale del precedente romanzo, “La via del sole”, e porta a compimento un cammino di conoscenza e di indagine delle ragioni culturali e sociali di cambiamenti epocali: quelli scientifici e culturali.
La storia affonda le sue radici in epoche remotissima a conferma di come il cambiamento sia sempre in moto, sempre in azione: “Nella Grecia antica cominciava il cammino della conoscenza”, a partire dai calcoli di Eratostene sulla circonferenza della Terra all’ipotesi di Aristarco di Samo che la Terra non stesse ferma ma si muovesse intorno al Sole. E poi la storia continua, si dipana in una trama oscura, fatta di episodi snelli e ben descritti, attraverso lo sviluppo e il fiorire della cultura ellenistica, nell’Alto medioevo, nella persecuzione dei Catari, il filosofo Bacone e altri illustri esponenti dell’età moderna, fino ad arrivare a Galileo Galilei, il padre della scienza moderna, ingiustamente umiliato per posizioni che nulla avevano in contrasto con la religione.
Nel corso della storia si tramandano segreti appassionanti, potenzialmente destabilizzanti la tranquilla placidità di un mondo dove la religione detta le paure e mantiene il controllo di un’umanità da imbavagliare. Donne e uomini, tutti sono protagonisti di una rivincita: la stampa terrorizza l’istituzione e alimenta le speranze degli intellettuali, fiduciosi (al di là dell’illusorietà) di liberare la cultura e di poter gridare al mondo verità ritenute pericolose per la religione.
Struggenti e paradigmatiche di questo scontro eterno sono le pagine dedicate al colloquio tra Giordano Bruno, da tempo imprigionato a Castel Sant’Angelo, e il cardinale Roberto Bellarmino, uno dei principali responsabili della sua morte a Campo de’ Fiori. Lo scontro tra i due, serrato e appassionato, mette in campo due diverse e divergenti visioni del mondo, che fin da subito si caratterizzano come inconciliabile e non mediabili, in nome di interessi discordanti.

 

ChronicaLibri ha intervistato l’autore, Adriano Petta: http://www.youtube.com/watch?v=clLJW7Q1Ba8