VerbErrando: Ciò che già si sa

ROMA – “Dopo molti anni ho capito che in quella luce era morta l’innocenza italiana. L’innocenza che aveva attraversato tutti gli anni sessanta come una scarica elettrica o un crampo nello stomaco. Morì da giovane soubrette a Viareggio, buttandosi alle spalle le commedie, le tonnellate di spaghetti alle vongole, le illusioni di ricchezza. Sparì nel luogo che già possedeva la luce dei morti nel giorno in cui ritrovarono cadavere Ermanno Lavorini. […]
… con la sua fine, l’Italia si gettò dietro le spalle l’innocenza.
A quella perduta innocenza vorrei dire:” Ciao, bellina, come stai? Ti voglio tanto bene.” Alla creatura straziata avrei voluto dedicare la vita che mi resta. Ma gli anni muoiono prima dei secondi. Il tempo è finito. Eppure desidero tanto spedire una lettera per supplicarla di tornare. Invece so che non lo farò. Perdonatemi, allora, se scrivo addio.” (“Addio” di Aurelio Picca, ed. Bompiani 2012)

Questo è Aurelio Picca, questo è Addio. Il suo addio all’innocenza, a un tempo, che arriva fino al  31 gennaio 1969, in cui ancora si poteva vivere di sogni, di immaginazioni. Perché le immaginazioni non erano pericolose, anzi, diventavano un surrogato ma migliore della vita vera, dei fatti, della ragione; e la sua forza era tale, quella dell’immaginazione, da riuscire a influenzare la verità stessa, la razionalità. Era il tempo in cui le mamme potevano ancora spingere i figli a mangiare le verdure sotto il ricatto del buio, perché i bambini a quei tempi erano bambini e avevano ancora paura del buio. Ora non è più così, i bambini il buio se lo portano dentro e lo vomitano fuori, puntualmente, ad ogni occasione. Non è forse vero che, con il tempo, ci si adatta a tutto? Del resto Darwin ce lo insegnava nella sua teoria sull’evoluzione della specie, un processo di “miglioramento” o di aumento della complessità degli organismi nella capacità di “uscire vincente” dal processo di selezione naturale.
Quindi noi saremmo i vincenti. Quindi noi saremmo i migliori.
“E se quelli che rimangono fossero i peggiori?” mi coglie di sorpresa, come il cellulare caduto dal cielo di Ritorno (di Fabio Viola, Feltrinelli e-books 2012),  la frase di Elias Canetti.
E allora decido che voglio capire meglio perché sono tanto d’accordo con lui, e con Aurelio.
“Si vuole diventare migliori; ci si vuole solo rendere le cose più facili” dice. E poi aggiunge “Alcuni raggiungono la loro massima cattiveria nel silenzio.”(“La provincia dell’uomo” Elias Canetti, Adelphi, 1978). Quindi, riassumendo, per Canetti siamo o peggiori ed evoluti, o migliori ma furbi, sempre alla ricerca della scappatoia facile; e, nell’essere cattivi, esercitiamo la pratica del silenzio.
Riconosco che intorno a noi, sempre più spesso, cade il silenzio, ma non voglio dare retta alle parole di Canetti… no, troppo apocalittiche. Solo che non riesco a fermarmi, vado avanti e scopro di più su di lui, tipo che nei vent’anni successivi alla guerra mondiale si dedicò allo studio della psicologia di massa e che fu una delle figure più importanti della cultura mitteleuropea. Sembrerebbe una voce autorevole. Provo a superare la diffidenza e vado avanti:
“Sono sempre più convinto che le mentalità sorgono dalle esperienze di massa. Ma gli uomini hanno colpa delle loro esperienze di massa? Non vi incorrono assolutamente indifesi? Come dev’essere fatto un uomo per potersene proteggere? Ecco quello che veramente m’interessa in Karl Kraus. Bisogna forse poter formare masse proprie per essere immuni dalle altre?” (“Il cuore segreto dell’orologio” Elias Canetti, Adelphi 1987)
Allora mi domando a cosa dobbiamo la nostra mentalità, ma prima ancora, che mentalità abbiamo noi e qual è l’ultima esperienza di massa che abbiamo vissuto dopo la Resistenza.
Cerco, mi documento, chiedo e poi, la risposta: nessuna. La resistenza è stata l’ultima esperienza di massa che gli italiani hanno vissuto. Quindi tutto a posto! La nostra mentalità dovrebbe essere strutturata secondo quelle regole! Mh… Oddio, parliamo di quasi settant’anni fa… quanti anni hanno, oggi, quelli della resistenza? … ah, sono quasi tutti morti. E allora come si fa se quelli che dovevano “fare” la mentalità della massa sono scomparsi? Allora non abbiamo una mentalità strutturata secondo le regole della resistenza… allora, che mentalità abbiamo?
Partiamo dagli strumenti che ci hanno dato i nostri amici scrittori: abbiamo perso l’innocenza e  l’ultima esperienza di massa non la conosciamo perché non c’eravamo, quindi davanti a noi c’è malizia e ignoto. Purtroppo, anche stavolta, quel pessimista di Canetti ha da dire qualcosa:
“Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto” ah… capisco, quindi è questa la ragione per cui siamo così distratti e distanti, l’uno dall’altro. E ancora “Solo tutti insieme gli uomini possono liberarsi dalle loro distanze. È precisamente ciò che avviene nella massa.”  (“Massa e potere” Elias Canetti, ed. Adelphi 1981)
Forse non siamo una massa… potrebbe essere questa la ragione per cui non ci sono più state esperienze di massa….
Veruska! Basta! Stai diventando noiosa. Sento la sua voce…
“Perché vuoi sempre spiegare? Perché vuoi sempre scoprire che cosa c’è dietro? E più dietro ancora, sempre e solo dietro? Come sarebbe una vita limitata alla superficie? Serena? E sarebbe da disprezzare solo per questo? Forse c’è molto di più alla superficie – forse è tutto falso ciò che non è superficie, forse tu vivi ormai tra immagini illusorie, continuamente cangianti, non belle come gli dèi, ma svuotate come quelle dei filosofi. Forse sarebbe meglio: tu allineeresti parole (giacché hanno da essere parole), ma ora sei sempre alla ricerca di un senso, come se ciò che tu scopri potesse dare al mondo un senso che il mondo non ha.” (“La rapidità dello spirito” Elias Canetti, Adelphi  1996)
Forse è vero. Ma non mi interessa. Conoscenza è coscienza. Cultura è conoscenza. Diffondere, attraverso la cultura, la conoscenza è spingere a cercare una coscienza. Quando avremo tutti una coscienza sociale, allora potremo essere una massa. C’è chi ha lavorato anni, dalla Resistenza a oggi, per toglierci l’innocenza, fino a farcela perdere quel 31 gennaio 1969, come ci dice Picca. C’è chi ha lavorato anni, dalla Resistenza a oggi, per toglierci la memoria. Per non farci essere più una massa e mettersi, così, al sicuro.
Per farci “essere insensibili fino a disprezzare le cose interessanti, e diventare insensibili proprio riguardo a ciò che ci interessa maggiormente.” (“Pensieri” Blaise Pascal, Garzanti 1994)
Spero di poter vivere abbastanza per essere parte di un’esperienza di massa. Spero arrivi qualcuno capace di farci tornare ad essere una massa. Qualcuno in grado di farci ricordare quello che già conosciamo, quello che sappiamo già, perché “La memoria si blocca. Ma è ancora lì tutta intera.” Ricordare, riscoprire. Riscoprire, provare ancora emozione. E muoversi verso una direzione.

 

La cosa più dura è tornare a scoprire ciò che già si sa.
Elias Canetti, Premio Nobel per la letteratura (1981).

VerbErrando: Pigneto dreaming

ROMA – “L’etica e le regole di comportamento che ho escogitato e applicato fino a oggi, che mi hanno permesso di condurre e interpretare la mia vita come pareva a me, hanno smesso di funzionare, e non ne ho di nuove a rimpiazzarle. Mi ritrovo circondata da persone che, a quanto pare, invece, mi hanno sempre vista in un modo tutto loro e che ora continuano a impormi questa immagine falsata di me […]
Ce l’ho messa tutta perché su di me non ci fossero mai fraintendimenti. Ho sempre esposto le mie opinioni, agito nel modo più diretto, franco e inequivocabile […] Possibile che non sia servito a niente?”  (Romanticidio
di Carolina Cutolo, Ed. Fandango 2012)

 

Il Pigneto da un po’ è diventato l’ombelico del mondo culturale di Roma. Lì trovi sempre qualcosa in corso, che sia un concerto, un reading, un contest di scrittura, una mostra, qualcosa c’è  e non sei mai solo. Giovani buttati sui marciapiedi, o poggiati addosso alle macchine o fuori dai locali. Giovani che bevono… ecco, hanno sempre in mano un bicchiere di vino, di superalcolico o una bottiglia di birra, a seconda della propria inclinazione e al gruppo al quale appartengono. Ebbene sì, al Pigneto trovi i gruppi, proprio come accadeva nei paesi tanti anni fa. Così, se vai da Necci, ad esempio, torvi quelli della ‘dolcevita’, che mangiano spiedini di pesce spada cucinati da uno chef inglese; se vai da Birra + trovi i punk seduti sul ciglio della strada con i loro cani a guinzaglio. Al Forte Fanfulla gli habitué dei circoli ARCI che vanno lì per rilassarsi e ascoltare un po’ di musica o di passaggio, per fumarsi una sigaretta nel giardinetto esterno, ché tanto qualcuno che conosci lo trovi sempre; al Chiccen c’è Rossano che ti fa sedere al tavolino, ti accende una candelina immersa in quello che una volta era un vasetto di omogeneizzato ed ora è un portacandele, e ti serve vino e cibo cucinato da lui, tra un libro e l’altro. E’ proprio lì che, un venerdì qualunque di primavera, passeggiando, ti capita di incontrare Jack Hirschman che legge le sue poesie, accompagnato dalla Brigata dei Poeti Rivoluzionari di Roma, nuova di zecca. E allora, al fresco della sera, con un vinello tra le mani, puoi ascoltare le parole dell’ultimo genio della beat generation, ex professore di inglese alla UCLA di Los Angeles, che nel 1966 fu licenziato perché promotore di proteste e manifestazioni contro la guerra in Vietnam, tra le quali dare il massimo dei voti a tutti gli studenti destinati all’arruolamento per aiutarli a sfuggire alla guerra.

 

Il poeta dei giovani, per i giovani. Forse è per questo che tutti se ne innamorano. Forse è per questo che in tutto il mondo fioccano Brigate dei Poeti Rivoluzionari in suo onore, gruppi di giovani, promettenti poeti che hanno scelto lui come mentore. Una carrellata dei suoi più incisivi e accorati appelli al mondo fanno trattenere il respiro a una via del Pigneto stranamente stretta intorno a un unico luogo. I suoi arcani, tra cui quello “dei giorni dei morti”, dedicato a Pasolini e l’intramontabile “One day”:

“Un giorno smetterò di scrivere e dipingerò soltanto
smetterò di dipingere e canterò soltanto
smetterò di cantare e me ne starò seduto soltanto
smetterò di stare seduto e respirerò soltanto
smetterò di respirare  e morirò soltanto
smetterò di morire e amerò soltanto
smetterò di amare e scriverò soltanto”.

Insomma, sì, al Pigneto accadono cose. Ogni venti metri. Cose di arte, di musica, di letteratura, di folklore. Cose pubbliche, per le strade o nei locali, ma anche semi-pubbliche, dentro le case o nei cortili, quelli nascosti alla vista. Ed è proprio fuori da un cortile che mi trovo e sto per citofonare. Citofonare interno 7, questa è la mia destinazione. Giorni prima avevo ricevuto una convocazione segreta per questo evento a cui puoi partecipare solo dietro invito del padrone di casa (e fin qui tutto normale) e  se conosci la parola d’ordine. L’evento è un reading, di quelli che di solito si fanno alla libreria Eternauta, ma stavolta è dedicato a pochi, ai più intimi o ai più fortunati, i privilegiati. Questo invito ha del massonico, probabilmente è la ragione per cui risulta così affascinante. Ogni volta la location cambia, perché ogni volta si svolge nella casa dell’autore del libro di turno.
Questa volta l’invito è in via del Pigneto ed è il turno di Carolina Cutolo e devono aver esagerato, perché di invitati ce ne sono tantissimi, almeno una settantina, compreso qualche infiltrato, che si riconosce perché è staccato dagli altri, non parla con nessuno e non osa nemmeno avvicinarsi allo squisito buffet che la padrona di casa ci ha amorevolmente preparato.
Lì incontri tante persone, come Girolamo, che lavora per una cooperativa impegnata nel sostenere e aiutare i senza fissa dimora. Con lui mi metto a parlare di quanto sia ancora tragicamente naturale scansare le persone come loro, quelli che vestono abiti lisi, sporchi e maleodoranti  “La gente viene a chiedermi perché sono senza tetto e sai cosa rispondo io? Domandalo a loro! Avvicina uno di loro e chidiglielo, parlano, sai?”. Discutiamo circa l’importanza della conoscenza come mezzo per sconfiggere la paura della diversità, e delle azioni, necessarie e mirate, che la sua associazione, la casa di cartone, organizza per creare ponti tra i senza fissa dimora e le persone che una casa ce l’hanno, perché “la gente raggruppata dentro questa categoria è la più disparata. C’è il barbone, il tossicodipendente, il rifugiato politico. L’anziano che aspetta il suo posto in ospizio e l’uomo che ha perso il lavoro; c’è il vedovo, il trans, c’è la schizofrenica e poi ci sono quelli in fuga. Sono storie diverse, mondi diversi e necessitano approcci diversi, attenzioni diverse, aiuti diversi. La generalizzazione è un male da curare.” Ci diamo appuntamento al 15 di giugno, sulla Tuscolana, ci sarà un evento curato dalla sua associazione: il BIP , un mega concerto in un ricovero per i senza fissa dimora.
Appena il tempo di salutarlo e parte la serata. Ci sono ospiti-amici ad aprire il reading, tra cui Fabio Viola con l’estratto del suo libro prossimamente in uscita; e poi, alla fine, lei, Carolina Cutolo con lui, il  protagonista della serata, Romanticidio.
Si rivela subito. Generoso e ospitale, proprio come la padrona di casa. Il pretesto narrativo è qualcosa a cui non posso resistere: le cose stupide che si fanno per amore. Come finire in coma, ad esempio. Come affidarsi alle fantasticherie, negare la realtà, rifuggirla e sostituirla con un surrogato a metà tra il sogno e la schizofrenia. Carolina è così quando scrive, come quando parla: diretta, concreta, senza sofisticazioni, inutili orpelli, dice quello che vede con semplicità e garbo; circa la vita, l’amicizia, la ricerca del proprio futuro, la costruzione dei rapporti, l’amore e la morte. E quando ne scrive, così come quando ne parla, non puoi fare a meno di ridere, perché lei è fatta in questo modo: ironica e carismatica, teatrale e dissacrante ai limiti del paradossale e del grottesco. Così, quando fa incontrare alla sua protagonista, per la prima volta, l’amore e un nuovo inizio le fa incontrare, immancabilmente, anche il suo opposto: la fine. E lo fa così:
“Eccola, la mia fine perfetta, la mia morte ridicola, il mio istinto di sopravvivenza sacrificato all’idiozia di volermi far bella ai suoi occhi a ogni costo. Avevo appena messo a rischio la mia vita in modo irreversibile, e lo avevo fatto perché sopraffatta e vinta da qualcosa di cui, fino a quel giorno, avevo negato l’esistenza con tutte le mie forze. Come se non bastasse, su questo già patetico epilogo ecco implacabile l’ironia della sorte a chiudere il cerchio e a prendermi per il culo senza pietà: una fiera professionista dell’alcol che schiatta assassinata dall’acqua minerale.”

Numerosi bicchieri di vino dopo e, ormai, a notte fonda, lascio quel cortile per tornare a casa.
Il Pigneto… il luogo dove accadono cose…
Il quartiere dove sei sempre il benvenuto, in cui puoi non abitare e, comunque, sentirti accolto, casa. Basta andarci più di due volte per essere uno di loro, riconosciuto e salutato per strada, intrattenuto dai camerieri dei locali. Il quartiere per chi vuole ancora assaporare il gusto della vita di paese, un paese di arte e cultura, un paese di usi e costumi… calorosamente consigliato a chi è pronto a mettersi in gioco, a darsi agli altri senza sovrastrutture, a sorridere e a prendere la vita con la freschezza del ponentino che sembra soffiare per le sue vie. Per chi cerca la poesia delle piccole cose, per chi ha fame di conoscenza e di diversità, per chi, insomma, non si accontenta del proprio cortile e la vita la vuole vivere a più braccia. Un posto, insomma, perfetto sempre e per tutti.

Unica controindicazione: da evitare rigorosamente nel caso in cui voleste incontrarvi con qualcuno in clandestinità.

 

 

VerbErrando: Movimento. Italia-Veruska Armonioso

ROMA – Sei disposto a morire per un’altra persona? Da inerme cittadino, tu. Sì, tu, tu che vuoi l’articolo sul Salone Internazionale del libro di Torino, o tu, che vuoi avere consigli sui nuovi libri appena usciti; tu, che per renderti più colto leggi Satisfiction o navighi qui, tra queste pagine; tu, che lèggi due libri a settimana e, a stento, esci da casa. Tu, e tutti gli altri che non ho menzionato ma che so esserci, tu, sei disposto a morire per un’altra persona? Un’altra persona sconosciuta, non un caro, si intende. Troppo facile essere disposti a morire per una persona cara… Allora? La tua risposta più sincera? Qual è la tua risposta più sincera?
Le forze migliori delle istituzioni non ci sono più. I movimenti li devono fare quelli che non hanno niente da perdere. Ché gli altri, quelli che hanno troppo attaccamento alla vita, non la metterebbero a rischio mai nemmeno per il padre.
Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo. Minuscole volute, non frutto di refuso. Mio padre si chiama Alberto, ed è padre di un figlio che vive di espedienti bastardi, calpestando e violando legami e urgenze familiari in nome dell’egoismo e della droga. Mio figlio non c’è, perché per trentaquattro anni ho dovuto preoccuparmi di galleggiare e, si sa, più pesante sei, più facilmente affondi, un pupo in braccio proprio non lo potevo tenere. Lo spirito santo non so dove cazzo sia, sicuramente non qui. Questo fa di me una persona che non ha niente da perdere. Questo mi rende libera.
Allora scrivo questa lettera aperta a tutti quelli che, come me,  non hanno niente da perdere, perché a mio padre non chiederei mai di lasciare mio fratello orfano. Scrivo questa lettera a tutti quelli che sono disposti a rinunciare alla propria vita per mio fratello.
Facciamo un movimento. Che sia in movimento
Un movimento, strutturato e pensato. Un movimento generale che sia sincronizzato, determinato, compatto. Un movimento di quelli fermi, che fai quando hai un grave tra le mani da spostare e non puoi sbagliare e mettere il piede in fallo. Un movimento che sia di spostamento, un movimento che cambi.
“Se vi serve una penna io ci sono!”
“Perfetto! Scrivi un contributo di seicento battute da pubblicare su Chronica libri di domani!”
“Sarebbe meglio, prima, strutturare il tutto e aspettare adesioni…”
“Le adesioni siamo noi… tu struttura il tutto, intanto io vado.”
Ecco, non questo.
Questo non è movimento vero. Questo è desiderio di dimostrare. Io non voglio dimostrare. Sono sempre stata contraria alle dimostrazioni perché, come diceva la mia psicologa, mostrare a qualcuno un esempio non lo porterà ad agire in quel modo, mai.
Agisci. E nell’agire la gente ti seguirà. E se non lo farà, poco male, perché ti muovi per un tuo bisogno, così come fai quando scrivi. Un’esigenza uterina, o di pancia. Un’emergenza che ti sveglia nel cuore della notte come squilli o sirene, e ti fa andare a una scrivania a buttare giù parole. Non c’è giorno della mia vita in cui non abbia desiderato essere sola. Detesto chiunque, il genere umano è quanto di più disgustoso esista. “Siamo in troppi, ormai, a farmi schifo” come dice Gian Paolo Serino. Sì, siamo in troppi. Quello di troppo sono io. E, visto che non posso agire direttamente sugli altri perché il padre ci ha dato il libero arbitrio, allora agisco sull’unica persona che possa comandare. Me.
Allora, ora, posso dire “siete in troppi, ormai, a farmi schifo”. Ciò nonostante, sono disposta a morire. Non per voi, non morirei mai per voi. Mi fate schifo, con sincerità e nobiltà di cuore, vi dico che mi fate schifo. Polemici, arrabbiati, inutili nel vostro lassismo, nel vostro perbenismo cellulosico. Mi fate schifo perché nella vita non avete altro da fare se non giudicare dai vostri pc. Allora giudicate questo pezzo, fatelo con calma, mi raccomando. Editatevi, contenetevi, pensate bene alle parole. E poi, se potete, censuratevi.
Ecco, per la causa, fate questo. Censuratevi. Se siete di quelli con un grande attaccamento alla vita, censuratevi, questo sarà il vostro movimento. State zitti. Il silenzio è assenso. Contribuite così. Non per me, per la quale provate disgusto, ma per la causa, per l’ideale causa. La stessa per la quale mi muovo. Il muoverci per lo stesso obiettivo ci renderà meno distanti. Meno disgustosi, l’uno agli occhi dell’altro.E allora invito chiunque sia disposto a seguire l’ideale causa del morire per un’altra persona, a inserire nello spazio sottostante non commenti, ma propositi. I propri, personalissimi proposti di movimento. Piccoli, quotidiani. Grandi, plateali. Ognuno fa quel che può, per ruolo, occasione, possibilità, capacità e attitudine. E che lo facciate firmandolo, a viso scoperto.
Che questi propositi siano promesse e che vi ricordiate, ogni giorno, di rispettarle. E che le vostre firme siano reali, perché quando si sceglie di entrare in movimento bisogna essere onesti, verso sé stessi.
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Le gocce che fanno traboccare i vasi non si annunciano, arrivano e fanno quel che devono. La mia paura di vivere in questo modo ha superato, ormai,  la mia paura di morire.
E tu, non te ne accorgi che stai già morendo?

 

ROMA – Flavio Carbone (alias Frank Solitario)
Tutto ruota intorno a terrore e tensione.
Dalla rivoluzione francese in poi.
I lumi della ragione sono durati uno scampolo di secolo, per cedere giusto il passo ad un irrazionalismo strutturato. Sul terrore e sulla tensione.
Lo Stato italiano attuale nasce da delle fasi conclusive di una Guerra Mondiale i cui contorni sono molto, molto sfocati e  confusi.
I voltafaccia sulle alleanze, i referendum probabilmente taroccati, le intrusioni invasive della C.i.a. Il tavolo della democrazia sempre, costantemente truccato.
Due partiti di massa, scaturiti dalla Resistenza di cui uno solo era legittimato a governare, nello scenario di blocco occidentale in cui era inserita l’Italia.Insieme alla C.i.a., intorno alla C.i.a., indipendentemente dalla C.i.a., apparati paralleli allo Stato, che interferiscono con lo scorrere delle tranquille e anestetizzate vite di un popolo allergico ad ogni cambiamento.
Momenti di passaggio epocali scanditi dalle bombe. Nelle stazioni, nelle piazze, sui treni, nei cieli.Il piombo. Nelle piazze, nelle gambe, nelle strade.
Un filo conduttore che è rappresentato dal riuscire a capire sempre tutto senza sapere mai niente.
Brindisi, ore 07:44.
Studentesse lasciano parte dei residui del sonno della mattina su un pullman; si spande il vociare, qualcuno corre, risate sovrapposte, un intero giro d’orologio e arrivano uno-due-tre tuoni a sovrastare tutto e spegnere ogni voce in un silenzio elettrico.
Non mi spiego perché, nell’immediatezza.
La mafia, le mafie, la pazzia. Macché: terrore e tensione.
Terrore per definizione; dacché compaiono come per miracolo subito dopo i R.o.s. dell’antiterrorismo che hanno “indagato” sull’attentato al dirigente della Ansaldo pochi giorni prima.
Tempestivi, sbucano dal nulla di un iperuranio da dove già si sapeva tutto prima che gli inquirenti cominciassero a fare ipotesi.
Hanno detto fateci largo, non vi preoccupate, lasciate fare. I rilievi del caso, le sistemazioni del caso.
Spesso così tempestivi da fare una tale pulizia non rintracciabile finanche prima dell’esplosione.La controinformazione impazza, su direttiva delle deliranti e volutamente confuse veline di qualche funzionario degli interni.
All’Ansa diamo… ma sì, va bene, la mafia siciliana contro l’Istituto Falcone.
All’Adnkronos diamo, diamo… la Sacra Corona Unita contro le retate dei giorni scorsi.
A Sky tg24 che cosa possiamo dare? Oddio, vabbé, diamogli la pista passionale, ché questa gente si beve tutto. Niente di più facile; la sedicenne in calore tradisce il fidanzatino, e lui che fa? Progetta un ordigno con tre bombole del gas manovrate a distanza da un congegno elettronico che potrebbero uccidere centinaia di persone.
Ma… c’è qualcosa che non quadra.
Napolitano: “Focolai eversivi”. Monti: “Tentazioni eversive”. Veltroni: “Manovre eversive che in momenti di passaggio tentano di conquistare il potere tramite l’attuazione di una strategia della tensione”.
Certo. E poi ci sono i R.o.s. che indagano sul caso Ansaldo. Il terrorismo.Ma forse sarebbe meglio dire il tensionismo. Entro in campo come soggetto attivo nella questione.
Decido di chiamarlo tensionismo.
Decido, arbitrariamente, che è strano che ci siano volantini che minacciano Monti e Napolitano proprio in questi giorni. Decido che è strano che ci siano bombe a Equitalia e mai nessuno che ci dica da dove vengono. Decido che è strano che venga gambizzato un dirigente dell’Ansaldo e che non si facciano già più ipotesi.
Ogni tanto viene ritrovata qualche bomba inesplosa nella metro.I partiti di maggioranza relativa al 15%, l’astensionismo al 40%, i movimenti di protesta quantificabili nel 20% del Paese.
I giorni in cui il P.C.I. poteva sorpassare la D.C. Bombe nelle piazze, stragi, sequestro Moro.La fine dei partiti derivante dalla caduta del Muro di Berlino, la fine di Andreotti.Il ’92, le stragi di Mafia, Falcone e Borsellino, un nuovo terrore.
L’arrivo di Berlusconi. Un sereno ventennio di plastica.La fine di Berlusconi. Il vuoto di potere.
La necessità di trovare qualcuno che rappresenti il 40% del Paese che desidera l’ordine e la disciplina.La sua mancanza. La tensione. La tensione e il terrore.
Brindisi, ore 07:45.
Buongiorno, Notte.

VerbErrando: Il Salone Internazionale del libro di Torino 2012

Veruska Armonioso
TORINO
– In questi giorni appena passati avevo una missione. Dovevo raggiungere il Salone Internazionale del libro di Torino. Dovevo portare a casa un editoriale sul Salone e su tutto quello che di curioso e culturale ci fosse.
Sulla carta era un viaggio facile: destinazione Torino. Piccola deviazione per Milano, partenza da Roma. Sulla carta, come dicevo, era un viaggio facile.
Non è che la prudenza fosse il mio obbiettivo, era nata come una contingenza.
Partendo da Roma stavo lasciando tre settimane di cambiamenti radicali. Di quelli che fai ogni sei mesi, tipo cambio di stagione. I cambiamenti di quando scopri che quello che credevi bianco in realtà era nero, oppure di quando ti accorgi che quella che credevi verità era una menzogna. Quando pensi di essere sazio e invece lo stomaco sbraita, quando sei certo di aver capito e invece sei più confuso di prima. Insomma, quella roba là era quanto successo nelle tre settimane precedenti. Certo, erano successe anche altre cose. Tipo nuovi arrivi, nuove notti, nuove scarpe, nuove cose. Solo che le cose vecchie, quelle dei cambiamenti radicali, bruciavano ancora parecchio. Allora avevo cercato rifugio in un libro sullo scaffale accanto alla porta del mobile Ikea. Avevo capito che per superare quelle tre settimane precedenti avrei dovuto sviluppare una dote che non mi apparteneva e che, per riuscirci, era necessario attingere a strumenti precisi: la letteratura. Ciò che dovevo ottenere si chiamava pazienza. Come quella di aspettare prima di uccidere, di lasciare che gli eventi accadano da soli, di far maturare i tempi senza precorrerli. A me piace precorrere. A me piace correre, vado in palestra apposta… un tempo non era mica così, io a correre mi annoiavo. Lo trovavo faticoso e inutile. Fisicamente, perché mentalmente ed emotivamente correvo da sempre. Da trent’anni almeno. Così negli ultimi due anni, finalmente, avevo trovato una certa coerenza tra il corpo e la mente, ora tutta me correva. Solo che gli accadimenti delle tre settimane precedenti mi avevano fatto rallentare. Quando sei abituato a correre e rallenti, scalpiti. Allora serve praticare la pazienza. Ecco, direi che è nato tutto da lì, dalla necessità di gestire il rallentamento, perché la corsa mi avrebbe portata dritta verso l’omicidio di cui parlavo prima ed era un gesto da evitare se volevo rimanere libera. Sorvolerò su nomi e cause e andrò dritta al giorno della mia partenza per Milano e al momento che da qui in avanti definirò momento dell’illuminazione.
Erano le 7.30. Con me avevo un trolley arancio, una borsa con il notebook e Temperamento di Stuart Isacoff. Ero assonnata, ma decisi di leggere. Avevo questo libro da qualche tempo, lo avevo trovato in una piccola libreria durante un soggiorno ad Arezzo. Quando lo vidi fui subito affascinata dal tema: l’avvento del temperamento equabile nell’accordatura degli strumenti a corda per far sì che ogni grado della scala sia esattamente equidistante da quelli che lo precedono o lo seguono. Questo permette di ripetere la stessa figura musicale a partire da qualsiasi nota creando relazioni tra loro precise e coerenti. Da ex pianista ero affascinata dallo strumento, non solo sotto il punto di vista estetico musicale, ma anche letterario. Lo avevo sempre considerato un essere umano. Un pianoforte è una vita. Viene messo al mondo attraverso attente manovre, con caratteristiche “genetiche” particolari. Ogni strumento respira, perché fatto di legno, è soggetto al freddo, al caldo, all’umidità, all’aridità. Se cade si rompe, se subisce scosse gravi va riaccordato, se non lo si suona per tanto tempo si atrofizza, se lo si dimentica, muore. Per farlo parlare basta premere dei tasti, ma per sentirlo dire frasi di senso compiuto bisogna conoscere il suo codice e suonare i tasti giusti, che corrispondono alle corde giuste. Quasi tutto quello che sono l’ho imparato suonando o leggendo. Quello che stavo cercando arrivò presto, a pagina quattro:
“Di pari passo con l’evoluzione dell’arte musicale si andò formando un paradosso allarmante, che minacciava di insidiare e indebolire l’intero ordinamento. […] Nessuno strumento a note fisse, come ad esempio il pianoforte, è in grado di comprenderle tutte. E dunque, certe combinazioni di suoni che avrebbero dovuto suonare dolci e consonanti risultavano spesso, sugli antichi strumenti a tastiera, stridenti e dissonanti. Nella loro ricerca di una soluzione, i musicisti cominciarono a temperare, cioè ad alterare lievemente l’accordatura dei loro strumenti, allontanandosi dagli antichi ideali”. Era chiaro che fosse un messaggio per me: temperare. E poi continuava con un monito:
“Non fu un passo facile. I critici lamentavano la dolorosa perdita della bellezza e dell’impatto emotivo della musica; i fautori del cambiamento, al contrario, sostenevano che, poiché tutto è soggettivo, l’orecchio e la mente dell’uomo si sarebbero presto abituati alla novità”.
Tutto era improvvisamente limpido: avrei dovuto abbandonare le proporzioni fissate in passato a favore di un temperamento equabile. Dovevo iniziare subito a mettere tempo tra me e gli altri, a inserire spazi bianchi tra me e i pensieri. Partendo da quel momento stesso, il mio arrivo in Stazione Centrale, che era, sì, sempre lo stesso, eccitazione e voglia di fagocitare tutto quello che mi si fosse presentato davanti; solo che stavolta, passando sotto le volte del grande mobile decò, avrei sentito ogni centimetro di pavimento che i miei piedi calpestavano, ogni boccata d’aria, ogni suono. C’era l’odore di peperoncino che arrivava forte dallo snack bar, o il profumo chiaro di burro dei cornetti appena decongelati. C’era tutto, e tutto era a un passo da me. Tra me e il tutto c’era lui, il temperamento. Era il mio temperamento che passava per la prudenza.
“La prudenza è la capacità di distinguere le cose da fare da quelle da evitare” diceva Cicerone. “Prudenzia è virtú la quale ordina e dispone l’animo dell’uomo a verace conoscimento di bene e di male, con ferma volontà di pigliare il bene e lasciare stare il male e fug[g]irlo” secondo il poeta Bono Giamboni. La prudenza avrebbe seguito il mio percorso, dal momento dell’illuminazione in poi. Ovviamente, per comodità, avevo deciso di apportare la prudenza ovunque. Con prudenza avrei incontrato le persone, con prudenza avrei conosciuto luoghi nuovi; con prudenza avrei sperimentato, con prudenza avrei provato sentimenti. Così, con prudenza conoscevo per la prima volta la magia della tempesta di lana dei pioppi, e mi ingegnavo per tirare giù da un albero dei fiori non ancora dischiusi per mostrare la sorpresa dell’interno ai miei cari di Roma, che di questa meraviglia non ne avevano mai nemmeno sentito parlare. Con prudenza attendevo che la rabbia verso gli accadimenti delle tre settimane precedenti passasse; con prudenza attendevo che le persone nuove facessero un passo verso di me o che sparissero; con prudenza lavoravo e sceglievo. Per la prima volta prendevo spazio, e nel farlo vedevo le possibilità moltiplicarsi e le incognite diminuire. Isacoff lo diceva, era una questione di equilibri e spazi, appunto, di temperamento:
“Suonare un pianoforte costruito senza uno scrupoloso rispetto di questo principio sarebbe come giocare una partita a scacchi in cui le regole possono cambiare a ogni mossa”.
Avevo intenzione di vivere dal momento dell’illuminazione in avanti temperando; subito avanti c’era la mia partenza per Torino.
Fu così che arrivai a Torino, entrai in fiera, rimasi ad osservarla per un po’ e poi feci quanto di più naturale possa accadere quando, con prudenza, conosci qualcuno e ti accorgi che non fa per te: me ne andai. Con il treno delle 8.03 di domenica 13 maggio, tanto per chiarire l’urgenza.
Perché alla fine, come dice il mio Bruno Valente “Le cose è bello viverle ma a volte è anche bello morirle” e non è per niente detto che a una grande aspettativa segua un grande accadimento, anzi, quasi sempre avviene il contrario. Ed è qui che entra in campo il temperamento. La prudenza, lo spazio tra le note, sempre uguale, sempre lo stesso: nessuna aspettativa, nessuna delusione. Nessuna delusione, nessuna azione ebbra. Nessuna ebbrezza, equilibrio. Perché la vita non può essere per sempre una partita a scacchi in cui le regole possono cambiare a ogni mossa. Con prudenza e temperamento riesci a schivare molti rischi, il fallimento soprattutto.
Fu così che tornai a Roma sana e salva, e portai a casa il mio editoriale sul Salone internazionale del Libro di Torino.

 

Nelle foto:

1. Volo durante al sua lezione di “Letteratura”.
2. Ligabue durante la presentazione del suo tomo letterario.
3. Saviano e Fazio durante la presentazione del loro nuovo programma “culturale”.
4. Del Piero durante la presentazione del suo “tomo letterario”.

VerbErrando: un regalo fatto di parole, un romanzo in anteprima

ROMA – Quando una scrittrice ti regala due pagine del suo nuovo libro non puoi non essere felice. Felice perché la scrittrice in questione è Veruska Armonioso, autrice di VerbErrando. Veruska, che da qualche mese ci fa vivere nelle storie di altri autori o altre città, questa volta ci fa entrare nella sua storia, tra le sue righe. Nella settimana della 25esima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino c’è un nuovo libro che sta prendendo vita sotto i tuoi occhi: Accadde così che imparai a nuotare con le sirene.
Veruska Armonioso regala a VerbErrando, a ChronicaLibri, le prime pagine del suo nuovo e atteso romanzo; una storia che comincia con una leggerezza fatta di ricordi, di attese e di parole.

Accadde così che imparai a nuotare con le sirene

di Veruska Armonioso
copyright ©2012

I pensieri da bene, le elegie sulla costanza, sulle fedeltà… niente di quel che l’etica razionale sceglie è ineludibile… l’uomo… imbocco tabacco… voglio sentire che sapore ha un uomo… del tipo decadente o bukowskiano, un uomo che va a puttane o che legge un libro. Come donna mi auspicherei di morire giovane, conoscere la miseria e imparare a masticare tabacco.
Nacqui a sei anni con la memoria già pronta e con una voglia diluviante di essere Tersicore… Rita Hayworth in Down to Earth, avrei dato la mia mano destra per un suo piede sinistro… danzare, sfogliare… petali, pagine, ciglia… geografie anatomiche, alloggiamenti di fortuna… uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi.
Passavo giornate a fantasticare su moti di rivoluzione, opponevo la mia immaginazione ai provvedimenti draconiani delle suore che proprio non ci stavano a lasciare un bimbo in mano alla sua fantasia. Amavo fabbricare… fabbricai, avevo sei anni appunto, una barca di stecchini… ci misi tanto, da Natale a prima della fine dalla scuola. Poi le diedi fuoco. Mio padre pensò fossi piromane e chiamò subito il dottore. Volevo attirare l’attenzione, disse… così mi portarono per tutto il mese di giugno al lago… ogni sabato e ogni domenica, compleanno incluso. Mio padre mi aiutò a costruire un’altra barca con gli stecchini e poi mi invitarono a metterla in acqua. Solo che il lago non è come il mare, dal lago non si esce… le diedi fuoco, Anna gridò e smisero di portarmi al lago. Io volevo solo far salpare la mia barca di legno…
Norma era la casa di Polifemo… all’entrata del paese c’era un grande cartello con la sua icona… ci passavo tutti i mesi di agosto (questo lo so anche se non me lo ricordo). A Norma c’erano tanti pezzi… pezzi di sassi, pezzi grotte, pezzi di epica… quando i miei andavano a riposare, io correvo su per la collina e andavo a guardare i pozzi. Se esiste il pozzo c’è anche un secchio… solo che quei pozzi non avevano più acqua, così non c’erano i secchi. Io cantavo dentro al pozzo. Salivo su un vecchio cassetto di legna e cantavo. Cantavo bugie… e poi raccoglievo le bugie da terra e ci soffiavo sopra… sì… quei fiori che si rompono al primo soffio… distese di bugie attorno a pozzi senza secchi e me, a gridare bugie dagli echi fondi. Mi guardavo intorno… prato e pezzi di pietra. Immaginavo che Polifemo doveva proprio sentirsi solo, così alto e senza un occhio. Chi lo avrebbe amato se non io?… fingevo di essere la sua innamorata che lo aspettava e danzava per lui… ero Tersicore che danzava per il suo gigante. E poi il profumo del mare che arrivava a folate discontinue. Il mare era lì, all’orizzonte, e io danzavo, danzavo… danzavo… i pensieri arrivavano a mazzi, a grappoli… le suggestioni poi… ah, le suggestioni… che ricordo penetrante… un ricordo che sbaglia sempre i tempi… arriva, ti esplode tra le gambe, il freddo nella pancia, i brividi sul petto… se non fosse mai tornato?
L’anno dopo, a scuola, ci dissero che la terra dei Ciclopi era la Sicilia. Polifemo non era mai stato a Norma …smisi di cantare e rimasi seduta un’estate intera ad aspettare. Non sarebbe più tornato…non c’era mai stato, eppure io lo sentivo…avere le risposte, accoppiarle alle domande o starsene in silenzio dimenticando? Uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi…
Cominciai a suonare per dimenticarlo… era a scuola, un gigante nero… feci la sua conoscenza passando le dita sulle listarelle nere, sempre le nere… suonava di me più una nera che tutte le bianche messe insieme…restavo in piedi dapprima, tiravo la linguetta che avevo scoperto essere una specie di regolatore di volume dal nome sordina… le carezze a punta di dita lì non funzionavano, se lo volevo sentir parlare dovevo pigiare… imparai a pigiare… poi a sedere… poi a non tirare più la linguetta e me ne innamorai.
Ci si innamora spesso per dimenticare un amore finito o un amore perso… fu l’unico amante che non tradii… così lui tradì me. Da un polpastrello esce più sangue di quanto non si pensi…

VerbErrando: Produci, consuma…

Veruska Armonioso
ROMA
– Produci. A trentaquattro anni per una lavastoviglie in cucina.
Lavaggio eco, che ti fa sentire meno colpevole ogni volta che pigi on.
Produci. A trentaquattro anni per un lavoro a tempo indeterminato che ti permetta
di andare al cinema e a mangiare la pizza il sabato sera. Multisala a Cinisello Balsamo,
che prima era una campagna con la latteria che vendeva i formaggi di mula e adesso è una città lego piena di pizzerie bio, con ingredienti a chilometri zero, a lievitazione zero, a farina zero, a prezzi zero, eat as you can.
Produci. A trentaquattro anni per accendere un mutuo per avere la tua casa di proprietà, un’Ici da pagare, degli interessi e delle rate di mobili presi da Ikea, che giusto in una casa tua possono entrare, visto che sai di non poterli smontare mai più dopo aver girato l’ultima vite.
Produci. Figli che saranno persone qualunque, che masticano gomme a bocca aperta e ti digeriscono in faccia, ridendoci su, ‘ché tanto mica hanno ucciso nessuno che si devono vergognare.
Produci. Cambiamenti continui e perituri, psicotici, confusi. Geografici, sentimentali, di stile, di abbigliamento.
Produci. Calcare mentale, di quello che ti necrotizza il grigio delle giornate, il grigio dei ricordi, il grigio della materia.
Produci. Distruzioni. Interne, come diceva Yates in Bugiardi e InnamoratiDentro ognuno di noi- e nello spazio tra i nostri corpi e le nostre storie, ovvero in quella cosa che si chiama legame- non si dà altro che disgregazione”.
Produci. Legami, come “sostanze fisiologicamente agoniche e disgregate” perché, del resto, l’uomo è questo: “una cosa che ci illude per deluderci, un grumo, una mistura, un ordigno prepotente e fragilissimo che deve di continuo difendersi da sé stesso inventandosi miraggi e divagazioni”.  “Tutti straordinari fabbricatori di abbagli.”[1]
Produci. Misericordia e compassione, autoassoluzione e Viagra.

Consumi. A trentaquattro anni l’idea come concetto. L’ideale come motivazione. L’azione come conseguenza.
Consumi. A trentaquattro anni la fame di un’appartenenza, unica, solida, imperitura.
Consumi. A trentaquattro anni la speranza come “rischio da correre”.
Consumi. La parola. Come la voleva Majakovskij…che “… esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria”.
Consumi. Lo spirito e le tradizioni. Che Yukio Mishima cercava di tenere saldi addosso a sé come valori supremi: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! E’ bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore  all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”[2]
Consumi. L’eroismo. Perché, come diceva David Foster Wallace ” … il vero eroismo non riceve ovazioni, non intrattiene nessuno. Nessuno fa la fila per vederlo. Nessuno se ne interessa”[3].

Crepa. Vladimir Vladimirovič Majakovskij, per amore non ricambiato.
“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”[4].

Crepa. Yukio Mishima, per patriottismo tradizionalista.
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”[5].

Crepa. David Foster Wallace, per depressione.
“La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette per sfiducia o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.”[6]

Produci, consuma e crepa. Lo dicevano ventisette anni fa i CCCP in Morire.
In sostanza di questo si tratta. Che tu viva per la pizza del sabato o per ideali romantici, che tu combatta ogni giorno o nessuno, che te ne accorga oppure no, produrrai e consumerai sempre qualcosa e sempre, ineludibilmente, morirai. L’unica differenza la farà la volontà, di mettere fine a una vita per tua scelta o di attendere che faccia da sé. Nessuna morale o presa di posizione, semplice cronaca.
E per chi si domandasse da che parte sto, io non sto da nessuna delle due.
Io sto nell’accettazione. Della sconfitta e dei cambiamenti.


[1] Yeats “Bugiardi e Innamorati”, Minimum fax 2011

[2] Discorso prima del suicidio rituale, Tokyo 25 novembre 1970

[3] Il re pallido, Einaudi – Stile libero 2011

[4] Biglietto di addio di Majakovskij.

[5] Biglietto di addio di Mishima.

[6] Infinite Jest, Einaudi – Stile libero 1996

VerbErrando: Waiting for good

Veruska Armonioso
ROMA – “Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende.”
Settant’anni fa, il grande scrittore ungherese Sándor Márai metteva al mondo Le Braci e raccontava l’oblio dell’attesa, scandendone con superba incandescenza tutte le fasi, tutte le conseguenze…le conseguenze. Perché quando si attende si è soli, da soli “… nella solitudine si impara a comprende ogni cosa, e non si ha più paura di niente”. Sándor Márai sapeva bene cosa volesse dire essere soli e attendere, perché lui era passato dai lustri di un successo e di una fama meritata, ai bui dei margini nei quali i cataclismi politici lo avevano confinato. Per lui attendere era la risposta. Aveva la fiducia completa nel’attesa che avrebbe portato qualcosa, avrebbe dato indietro qualcosa. A lui diede indietro domande…domande capitali come “Chi sei?… Cosa volevi veramente?”. Márai, attraverso la voce eterea di Krisztina, diceva:
“Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza. Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende. Alla fine, alle fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza.” Attesa come esercizio di pazienza, di fede, non di tattica di difesa come ci suggerisci Sun Tzu ne “L’arte della guerra”. Fiducia verso l’arrivo di qualcosa, di qualcuno. Di qualcuno che cambierà il corso della nostra vita, dei nostri destini.
Qualcuno che farà pur qualcosa, qualsiasi cosa, a patto che porti dei cambiamenti, come per Kavafis, ad esempio, erano i barbari:

“ – Cosa aspettiamo riuniti in piazza?

Oggi devono arrivare i barbari.
– Perché tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non legiferano?
Perché oggi arrivano i barbari.
Che leggi hanno ormai da fare i senatori?

Quando verranno i barbari le faranno loro
[…]


– Perché tutto a un tratto questa apprensione, tutta questa agitazione?

(Come si sono fatte serie le facce.)
Perché si svuotano rapidamente le strade e le piazze

e tutti se ne tornano a casa pensierosi?
Perché si è fatta notte e i barbari non sono comparsi.

Anzi, qualcosa è venuto dai confini
e ha detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso cosa sarà di noi senza i barbari?

Quella gente, dopotutto, era un soluzione.”
L’attesa, la vita. L’attesa, la solitudine. La vita, la solitudine… La solitudine. Sentirsi soli. Essere soli. In solitudine ci si conosce, ma riconoscersi è un’altra cosa. Ci si riconosce solo da fuori, fuori dal proprio cerchio.
Kafka diceva che ci sono due regole per cominciare a vivere “… restringere il tuo cerchio sempre più e controllare continuamente se tu stesso non ti trovi nascosto da qualche parte al di fuori del tuo cerchio”. Ci richiamava alla solitudine e, nel farlo, usava la confortante immagine di una geometria che contenga, senza spigoli contro cui sbattere. Gli spigoli, gli angoli, sono loro che ci distraggono. La curiosità di andare a vedere cosa nascondono, ci spinge, crudelmente, a non prestare attenzione a quello che, invece, c’è di qua, davanti, dalla nostra parte, e ci spinge a perderci…certo, perdersi è perfetto se ci si conosce… se ci si
conosce, uscire dal cerchio è un bel gioco e rientraci è uno scherzo. Ma se non ci si conosce? Che cosa si fa se si esce dal cerchio senza conoscersi?
Kafka sapeva bene dell’esistenza di questo rischio e scelse il cerchio. La confortante rassicurazione di una geometria facile e comoda per tutti.
Ma la solitudine, che cos’è? E’ una sedia vuota accanto alla tua o una casa con una sola sedia? Riflettevo in questi giorni sul tempo e la solitudine. Sul sentirsi soli e l’essere soli.
Su come questi due diversi stati d’animo influenzino il tempo che viviamo per esperienze, scelte, reazioni, azioni. Su come questi due diversi stati d’animo influenzino, appunto, l’attesa.
Allora ho pensato a Beckett, a come abbia stravolto il binomio attesa-solitudine e a come lo abbia svuotato, e, nello svuotarlo, lo abbia riempito.

“ Estragone: mi domando se non sarebbe stato meglio restare soli, ciascuno per conto suo. eravamo fatti per seguire la stessa strada.
Vladimiro (senza offendersi): Non è sicuro.
Estragone: No, non c’è niente di sicuro.
Vladimiro: Possiamo sempre lasciarci, se credi.
Estragone: Ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Vladimiro: E’ vero, ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Estragone: Allora andiamo?
Vladimiro: Andiamo.
Non si muovono.”

Per Beckett la solitudine è in due, due che sono uno, perché nell’attesa si può non essere da soli ma si è comunque soli… come nell’attesa di una risposta, di un esito, di un arrivo… come nell’attesa della morte…un’attesa vuota, un’attesa stanca, un’attesa senza la fede cieca di Penelope, o senza la speranza di Borgna… un’attesa del niente. Un niente.
Esistono, però, altre attese. Sono quelle che ho scelto di vedere. Sono le attese che si vivono con il sorriso, quelle che si trascorrono con una trepidazione bambina, che ti ricorda quando aspettavi il Natale per scartare i regali. L’attesa per un nuovo incontro, l’attesa per una nascita, l’attesa per una nuova stagione… l’attesa per raggiungere un desiderio ed esaudirlo.
Che l’attesa di questo 25 aprile, amici, ci ricordi il sapore delle attese belle e ci faccia venire voglia di provarne ancora; che questa attesa sia liberazione e, nel renderci liberi, ci faccia sempre essere presenti a noi stessi e ci ricordi che la libertà è un dono per metà, per l’altra metà è una meta da raggiungere.
Che la libertà sia uno status in divenire e non un punto d’arrivo.
E che le nostre attese siano, comunque, una soluzione e ci portino verso un qualche dove!

 

Costantino Favafis, Aspettando i barbari, Passigli 2005

Franz Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, 2004

Samuel Beckett, Aspettando Godot, Einaudi 1956
Eugenio Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli 2005
25 aprile giornata della liberazione d’Italia

VerbErrando:Trentatré

Veruska Armonioso
MILANO
– A Milano piove. Dicono che andrà avanti ancora per dieci giorni. L’ho trovata così quando sono arrivata venerdì scorso… alle otto e cinquanta del mattino la Stazione Centrale era una sfinge bagnata, silenziosa e addormentata… come me, che avevo lasciato Roma con il treno delle sei, dopo un sonno piccolo, figlio di una serata senza fondo con vecchie birre e un amico nuovo.

Da quando il lavoro mi porta a Milano il treno è diventato uno dei miei nonluoghi preferiti… cerco di prenotare sempre la stessa seduta, anche se in carrozze diverse, così da mantenere un senso di familiarità che renda il mio nonluogo ospitale… all’occorrenza un letto, spesso un ufficio, a volte (quelle più fortunate) un salotto; comunque un osservatorio. Proprio sul treno penso di aver capito che non sarò mai una grande scrittrice… l’ho capito leggendo un’intervista a Céline…quando chiedi a uno scrittore cosa ami di più tra la conoscenza e l’immaginazione non ti risponde mai la conoscenza, invece io ho sempre preferito indagare piuttosto che inventare, chiedere piuttosto che supporre…eh sì, c’era un tempo in cui, per me, chiedere era tutto… eppure smisi. Forse perché cominciai ad avere paura di non ricevere risposte, o forse perché cominciai a temere le riposte. Smisi di fare domande e così la mia carrozza di conoscenza, indagine, tracce, perse di resistenza fino a diventare un polveroso e pericolante carretto pieno di strumenti in disuso… magari è proprio da lì che proviene la mia passione per gli utensili antichi, abbandonati…è una passione che ho scoperto condividere con Paolo. L’ho scoperto sabato scorso alla cappelleria Mutinelli, durante una delle nostra passeggiate del sabato mattina. Da qualche tempo passeggiare di sabato mattina con Paolo per Milano è diventato un allenamento intellettuale. Insieme a lui c’è un gruppo di persone che si riuniscono e condividono conoscenza… letteratura che sedimenta nell’asfalto, negli anfratti delle rotaie del tram, sui muri dei palazzi, nelle pieghe della memoria di Milano. Si chiamano “Passeggiate d’autore” e ogni settimana incontri uno scrittore diverso, un libro diverso, un quartiere diverso e con loro un mondo nascosto, silente. E allora succede come sabato appena passato in cui Paolo (Melissi) ti guida per Porta Venezia e, senza dover chiedere, lui ti racconta cose.. .cose che vorresti proprio sapere… con lui le “donne di carta”, donne che non recitano ma ‘dicono a memoria’ estratti dai libri a cui le passeggiate sono ispirate. Costeggiando i confini immaginari di quello che un tempo era il Lazzaretto finisci, così, per incontrare la chiesa Di San Nicola. E’ la vigilia di Pasqua per la Chiesa Ortodossa e questo prevede un rito chiamato “miracolo della luce”. La tradizione vuole che, nel buio prima della mezzanotte, il vescovo accenda trentatré candele da portare in processione per le vie della città e che, per i primi trentatré minuti, il fuoco di quelle candele non bruci ciò con cui entra in contatto. Trentatré minuti di grazia, di trentatré candele di luce senza calore, di fiamma senza pericolo. Trentatré minuti in cui si potrebbe ancora correre il rischio di chiedere…per trentatré minuti almeno. Ho sempre saputo di aver perso dei passaggi chiave nella costruzione della mia coscienza emozionale. Mi domandavo cosa ne sarebbe stato di me se avessi saputo fin da subito come si fa … come si fa a riconoscere un’emozione, attribuendole il giusto nome, individuandone i tratti distintivi, senza errori, senza confonderla con altro…e poi come si fa a prenderla in mano quell’emozione e a tenerla senza farla cadere o, peggio, mandarla via. Infine, come si fa ad affrontarla…viverla insomma…o, se non altro, camminarci accanto restando vivi.

Ero cresciuta poggiando i piedi su un basamento solido che diceva così:

“Alcuni vanno alla ricerca di luoghi in cui ritirarsi, in campagna, al mare o sui monti, e anche tu hai l’abitudine di desiderare ardentemente tutto questo. Però è quanto mai sciocco, dato che puoi, in qualunque momento tu voglia, ritirarti in te stesso. Perché in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; soprattutto se si hanno dentro di sé i princìpi tali che, al solo contemplarli, si acquista una perfetta serenità. E per serenità non intendo altro che ordine interiore.” Marco Aurelio me lo aveva insegnato quando avevo tredici anni e io avevo cercato di tenerlo sempre a mente. Solo che non avevo considerato che sapere dove cercare qualcosa non volesse dire trovarla. E allora da un po’ avevo cominciato ad associare fraintendimento a comunicazione e a pensare cosa succede quando si comunica con diversi codici e ci si fraintende…a lungo…di continuo.
Succede che ci si perde. Succedono i distacchi, le separazioni…succedono gli addii.
Succedono valigie fuori dalla porta, lacrime, parole piene di spigoli…succedono reazioni, cariche di brutte intenzioni, succedono illusioni, delusioni.
Succede che non ci si capisce. E si comincia ad avere paura.

Nei rapporti tra umani rintraccio tutta la solitudine dei contenitori vuoti, siamo sempre più simili a scatole, bellissime, curate nelle rifiniture, ma senza contenuto….così le relazioni diventano condivisioni di spazi vuoti riempiti a forza da inutili gingilli che distraggano dalle mancanze. Cosa ci manca per essere uomini e non solo esseri umani? Per capirci? Forse usiamo codici diversi? No, temo si tratti di altro. Penso che non abbiamo codici, e quando andiamo a decodificare una reazione ad esempio, la interpretiamo male perché è frutto di un’azione svolta senza criterio, senza codice. Continuo ossessivamente a domandarmi da un po’ che cosa ne sarebbe stato di noi se, alle scuole materne o alle elementari, avessimo ricevuto lezioni di sentimenti.
Così ieri sera, con quelle trentatré candele in mano, ho deciso di ricominciare a chiedere. A Giovanni ad esempio, che tra poco diventerà sacerdote, di fare la Pasqua con loro; di condividere con me le loro uova e i loro tozzi di pane secco. E poi ho deciso di chiedere altro, a un’altra persona. E sono andata a bussare alle porte di Dario Borso. Che è, sì, uomo dall’intelletto sopraffino e dalla sconfinata cultura, traduttore di bravura inestimabile e docente universitario di prim’ordine, ma prima di tutto un conoscitore delle filosofie dei più grandi pensatori, un uomo capace di rintracciare e sintetizzare l’essenza delle cose. Allora gli ho chiesto… di scegliere un sentimento, uno qualunque, e di insegnarmi a capirlo come se fossi sua sorella…

Non avrei dubbi: la curiosità. Che deriva da cura. Curiosità è prendersi cura chiedendo: cur? in realtà viene da cuor, perciò non è un sentimento freddo, e come l’amor parte da un vuoto/mancanza/bisogno. Sete di sapere/fame di… insomma, la curiosità comincia con una confessione: d’ignoranza.

Mh…poi però deve essere successo qualcosa, perché provare curiosità è diventato un sentimento di cui avere pudore… Sempre meno si ha in stima il curioso, sempre più si associa la curiosità all’invadenza. Allora, cos’è cambiato… quando è successo?

Da sempre la curiosità è associata al pudore e al divieto: Ulisse finì all’inferno, no?Adamo fu curioso, ogni curiosità prevede un velo da sfondare, o almeno da scostare. La chiesa cattolica, quindi stato e famiglia, sono concrezioni patologiche di blocco della curiosità. Come diceva Paolo di Tarso “la legge crea il peccato”, perciò la curiosità è vista come invadenza di un territorio altrui. In realtà la curiosità di per sé è una forma altissima di rispetto… rispetto da respicio = guardo due volte, ossia guardo con cura: curiosità. Piuttosto, ultimamente si è diffusa una curiosità strana, senza cura: si curiosa senza neanche guardare, si fruga cioè, si cerca/crea l’osceno, il fuori scena oltre, o meglio sotto il divieto. Se curiosare è nevrotico, frugare è psicotico.

Quindi inibire la curiosità è un effetto della diseducazione al sentimento… e come mi educo alla curiosità?

Alla curiosità ti educhi soddisfacendola. Se è vero che la legge crea il peccato, essa crea parimenti il piacere, è come l’assicella del salto in alto. L’ignoto è oltre i valori, se ne fosse assogettato, sarebbe noto. Ciò crea paura, solitudine, ma contemporaneamente spinge all’unione, all’alleanza. La ricerca colllettiva/curiosa dell’ignoto è la fonte della società perfetta, che è anche la più imperfetta, perché priva di tutto, vuota.

E cosa mi dici della delusione allora? Uno dei pericoli in cui si rischia di cadere per soddisfare la curiosità è proprio quello…la delusione per la conoscenza dell’ignoto…

La delusione è il rovescio dell’illusione, e il ludus si gioca tra soggetti, non tra soggetto e oggetto: l’ignoto né illude né delude. La curiosità tra soggetti è reciproca, raddoppiata rispetto a quella per l’ignoto. E’ il campo del patto e della promessa, in una parola del futuro.

Il campo del patto e della promessa…

Prendiamola da un altro lato: osservare, ob-servare, serbare davanti. Curiosità, rispetto, osserv… anza. per serbare davanti, devi essere sicuro dietro (il timoniere di Ulisse). Il patto è di rispettare/osservare una promessa. Pro-messa è l’apertura al mondo… una famiglia, una società, un mondo va a ramengo se alla base manca ciò.

Delusione, ludus, cor, Ulisse, ignoto, solitudine… mica un passo da niente. Del resto, però, se si chiede aiuto a qualcuno, poi bisogna affidarsi a lui. E allora sia!
Così avrà inizio il mio viaggio… e l’inizio partirà da qui.
Un viaggio alla scoperta del mondo, con un occhio verso Ulisse e l’altro verso il suo timoniere.
Trentatré candele ancora da accendere sul comodino e una promessa a me stessa: non avere più ’70aura dell’ignoto.
Una curiosità da alimentare, soddifacendola, senza paura e poi… giocare, giocare, e ancora giocare…
…forse, così, finalmente, imparerò anch’io a immaginare.

“La libertà interiore” – Marco Aurelio (ed.Mondadori)
Passeggiate d’autore – Associazione Pluriversi (pluriversi@gmail.com)
Chiesa Russa Ortodossa di San Nicola – Via San Gregorio, Milano (15 Aprile 2012 Pasqua Ortodossa)