“Il mio ragazzo”
ERMANNO TAMBURRANO – I tempi a cavallo tra la scuola elementare e le medie mi sono rimasti impressi, cuciti addosso, stampati nella memoria. I motivi credo siano riconducibili ai ricordi che mi appaiono, nitidi, oggi più di ieri, come le figure che mi rilassavo a disegnare quando il maestro ci lasciava la libertà di immaginare. Ed io mi divertivo tanto. Alcuni miei compagni si annoiavano, pensando a chissà cosa, li vedevo strani, distanti. Ricordo il sole, e mentre cambiavo i colori fra le mani guardavo spesso fuori. Cercavo sempre di avere un banco che desse sul cortile, una finestra che mi permettesse di sognare, perché dopo un po’, lo devo ammettere, ascoltare la lezione mi stancava. Preferivo stare in mezzo ai ragazzi, o almeno era quello che ricercavo con entusiasmo, per fare nuove conoscenze. Questo nei primi anni, quando non potevi andare in classe senza grembiule e dovevi avere un borsellino ordinato, con uno zaino sulle spalle di libri immacolati. Volevo un contatto con altri bambini, scodinzolando fra le diversità come un cucciolo alla scoperta di nuovi odori, col suo naso a fare da lente d’ingrandimento sui poteri del creato. La mia famiglia mi ha sempre amato, ma loro erano una certezza, sapevo che sarebbero rimasti sempre nello stesso posto a volermi bene incondizionatamente. Ma sapevo e avevo intuito che non era quello il mondo. Il mondo era fuori, con gli estranei, mi sentivo come una calamita da loro attratto senza un motivo apparente. Avevo bisogno di conquiste, di carezze meritate, di sentire voci e osservare ogni bambino come fosse una rara copia dei miei desideri, talmente semplici da non ricordare adesso neppure quali fossero. Ma altri erano già grandi e sembrava avessero già in mente di rovinare tutto, recitando la parte del cattivo che faceva paura di sera, quando ogni cosa si spegneva e dava luce agli incubi di sudate notti insonni. Un branco, qualcosa di istintivo, in contrasto con una base di umanità in attesa di scomparire o riaffiorare. Non sapevo come confrontarmi o rispondere agli strattoni, agli sgambetti, agli sputi e agli scarabocchi sui miei vestiti. Io volevo disegnare, giocare e sorridere, rincorrere gli uccelli correndo a perdifiato, e non scappare dai bulli ed essere inseguito da povere bestemmie. Mi picchiavano, e quasi mi vergogno a ritrovare nei cassetti questi ricordi. Il più delle volte riappaiono quando osservo mio figlio, quando lo accompagno a scuola aspettando che si chiuda quel mondo, così bello, ma anche così difficile, e tutto questo scuote la mia paura, e ho il terrore che l’innocenza di quegli anni possano divenire per lui una piccola prigione. Avevo gli occhiali, ero quattrocchi e non importava prendere a calci la mia montatura, prendere in giro la mia benda che ero costretto a sopportare per correggere quel maledetto strabismo, importava che loro sbavassero odio e si divertissero sulla mia pelle. Occhi storti, disallineati su un mondo che guardavo sfumato di paura e allegria, ero spesso preda, e mai cacciatore. Ma i cacciatori di cui leggevo nelle favole erano cattivi, e quindi non capivo, ma al tempo stesso non avevo il coraggio di confessare. E non parlavo, perché gli volevo bene, perché non volevo far preoccupare i miei genitori. Cadevo, dicevo di cadere, di inciampare, di essere salito su quelle montagne di terra da cui stare lontano per i ragni e i serpenti, e non so per quale diavoleria iniziai poco dopo ad adorare i vermi. Avevo amici immaginari, sorrido e mi spavento se ripenso a tutto quanto. Mi piaceva correre, ma odiavo scappare. Avevo il terrore di essere deriso davanti al maestro, a cui recitavo fiero poesie a memoria. Ero preso di mira da carte gettate come pietre, con parole organizzate sottovoce, a fomentare risse fuori quei cancelli che trattenevano controvoglia la mia esuberante natura. Sono cresciuto in gabbia e ho imparato col tempo a prendere le misure, sulle apparenze e le persone, ma vorrei non aver perso la fede, la speranza di potersi fidare. Penso sempre a mio figlio, e credo che nonostante la presa di coscienza e la cultura a portata di mano, poco in questo tempo moderno sia cambiato. Se vogliono ti schiacciano, con il fisico, con le offese, con la violenza, perché a quella età sembra non bastare essere bambini, si dovrebbe nascere già grandi, e da vecchi, morire di rimpianti. A volte questo accade, e anche se la mente sembra reagire, pensare ad altro, sono cose che segnano e resteranno, e mi meraviglio di come non mi abbandonino neppure dopo trent’anni di distanza, in cui già non ricordo cosa ho mangiato ieri a pranzo. Infanzia, crocevia importante, di cose che verranno fissate come cemento nell’animo e di cui tutti dovremmo avere attenzione, curare con dolcezza e innaffiare con pazienza. La forza dovrebbe arrivare dalla condivisione, dall’istinto di scoprire giocando assieme, partendo dalle piccole cose, dall’imparare osservando le differenze che da adulti ci arricchiranno. Piangere deve essere solo per i capricci, per un gelato caduto, per un giocattolo non comprato alla fiera di paese, e non per essere stato buttato a terra calpestato da i tuoi stessi coetanei, da coloro che credevi amici. Così si brucia tutto, si cancella la speranza e si cambia il timore con la paura, l’istinto con l’angoscia e il terrore scavalca la voglia di scoperta, lasciandoci affogare nella solitudine che renderà instabile tutto il nostro percorso, e sarà la fine. Nessuno si salva da solo, dicevano, da soli si nasce, poi si cresce assieme, si sbaglia, si lotta, si reagisce e si continua a crescere. Si educa, si ricorda, si impara dagli errori e si continua crescere. Si invecchia, si cambia, ci si innamora, si diventa padre, e lui, il mio ragazzo, continua a crescere.
© Racconto di Ermanno Tamburrano per “VOLEVAMO SOLO RIDERE”, iniziativa di ChronicaLibri.
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© Foto di Vivian Maier