Michael Dialley
AOSTA – Le vite degli uomini creano reti invisibili che collegano le esistenze e intrecciano i sentimenti e le emozioni. Questo avviene anche a distanza di anni, decenni: vite apparentemente lontane, anche geograficamente, che si incontrano grazie ad altre esistenze. “Etica di un amore impuro”, di Alessandro Savona, edito da Edizioni Leima nel 2013, racconta proprio l’intreccio delle vite di uomini e donne, separate da molti anni, ma che si ricongiungono grazie a questa “corrispondenza di amorosi sensi” che è stata edificata.
Un amore fittizio che ha dato alla luce un bambino abbandonato alla madre e, ben presto, lasciato orfano; un amore forte, che resiste agli anni, alle difficoltà, alla “vita di strada”, ma che veniva (e purtroppo ancora oggi) considerato un “amore impuro”; legami di amicizia, progetti, idee che diventano ponte a collegare tutti questi diversi amori.
Un libro breve, che si legge con leggera scorrevolezza, ma che è davvero intenso e vissuto: molti rimandi geografici, paesaggi e scorci reali, dipinti con le parole cosicché per il lettore è spontaneo vedere nella propria mente le scene che avvengono a Parigi; sentimenti veri, sinceri, potenti che si possono toccare con mano, sentirne la consistenza e il peso.
Perno delle vicende è la figura di Roland Barthes: saggista e semiologo francese che ha vissuto la Parigi di metà Novecento; un uomo che ha avuto moltissimi incarichi e, grazie a questi, ha potuto viaggiare molto; e viaggiando sperimentando e conoscendo.
Savona permette in questo modo al lettore di apprendere e approfondire la consapevolezza di un importante letterato francese, analizzato nel romanzo sotto una luce diversa, nella dimensione più privata e personale della sua vita.
Alla conclusione della lettura, capiamo come le parole siano fondamentali: ma quali sono più giuste per raccontare un amore? Si può esporre con parole perfette l’armonia dell’imperfezione? Sono un po’ le riflessioni suggerite al lettore attento e che legge il romanzo non solo con gli occhi, ma anche con la mente e il cuore.
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“Qual è il mio posto in quest’ordine?”
Michael Dialley
AOSTA – Un baule, una stanza: questi i due luoghi dove Momo, africano inventato da Tahar Ben Jelloun in “Le pareti della solitudine” (edito da Einaudi nel 1997 ma scritto dall’autore nel 1976), nel quale l’autore s’identifica, vive completamente abbandonato a se stesso in una Francia razzista della metà del XX secolo. È una narrazione molto poetica, parti in versi e parti che sembrano un quadro tante sono le immagini visive che si creano nel lettore.
Questa poesia, comunque, non è casuale: come afferma Ben Jelloun, “soltanto la poesia, solo la finzione letteraria può essere in grado di dire e di far vedere e capire un uomo che soffre nel cuore, nel corpo, nella vita”.
Leggendo ci si rende davvero conto di quanto difficile e triste sia la storia di questi uomini; Momo dà voce a tutti loro, creando quadri, con le parole, dalle pennellate vigorose, potenti, cercando di richiamare il calore del sole, i colori e le tinte più vive; cercando, soprattutto attraverso i suoi sogni, di ricordare e far rivivere i sorrisi e la felicità tipici di questi popoli, dotati di una grande ricchezza interiore, smarrita dagli occidentali, ma che purtroppo viene totalmente ignorata e cancellata dalle violenze e dalle ostilità.
Costretti alla schiavitù, ad accettare condizioni di vita pessime, contratti che fanno rabbrividire tante sono le regole senza senso che travalicano e calpestano ogni singolo diritto umano (non si può nemmeno morire nelle stanze che vengono concesse a queste persone!).
Paradossalmente, però, più vengono sottomessi, più questi uomini sognano e sentono accrescere la voglia d’integrazione: Momo cerca di mescolarsi tra la folla, perché vuole “far parte di quella folla”, desidera “di esistere diversamente da un calzino bucato”.
Tanta sofferenza, fatica, tante rinunce, ma per cosa? Momo lo dice molto chiaramente: “Sono venuto nel tuo paese con il cuore in mano, espulso dal mio, un po’ volontariamente e molto per bisogno. Sono venuto, siamo venuti per guadagnarci da vivere, per salvaguardare la nostra morte, guadagnare il futuro dei nostri figli”.
Una grande solitudine vive nelle pareti di questi “bauli”, ma soprattutto nei corpi, nei cuori e nelle anime spente di questi uomini che rinunciano a tutto e tutti per il loro futuro e quello dei loro discendenti.
Lampedusa e la sua prima biblioteca. ChronicaLibri intervista Deborah Soria.
Giulio Gasperini
LAMPEDUSA – Lampedusa è l’ultima terra d’Italia, immersa nel Mar Mediterraneo. O forse, è più semplicemente la prima. Il primo luogo dove s’incontra l’Italia; la sua società, le sue leggi, i suoi uomini e le sue donne. E la sua cultura. Lampedusa è la “Porta d’Europa”, ma è anche quella italiana. E lo è con estrema dignità, con profonda consapevolezza. Lo è combattendo contro ostacoli e problemi di ogni misura e complessità, sfidando una natura aspra e un isolamento feroce. Come avamposto italiano, non si poteva continuare a eludere la mancanza di una biblioteca (tra le tante altre mancanze strutturali che l’isola conosce fin troppo bene). Una biblioteca che non sia semplicemente un deposito di libri ma un luogo dove i libri aiutano ad allacciare rapporti, ad approfondire conoscenze, a costruire quel ponte che possa trasportare tutti – migranti e lampedusani – verso una terra di tangenze comuni. ChronicaLibri, con profonda ammirazione per questo progetto, ha intervistato la responsabile, Deborah Soria.
Grazie al progetto “Libri senza parole” migliaia di volumi sono arrivati a Lampedusa. Nell’isola tradizionalmente conosciuta per gli “sbarchi” umani (che sono, in realtà, recuperi), approdano libri; per merito di Ibby Italia. Come mai si è pensato alla realizzazione di questo progetto? Da dove è giunta l’ispirazione?
Il progetto è nato nella mia testa dopo le emergenze del 2011. Volevo entrare in contatto con qualcuno che stesse lavorando con i minori che arrivavano sull’isola: sono nel direttivo di Ibby da molti anni e sono una fan dell’idea semplice e geniale che un libro ti può sostenere nei momenti difficili della tua vita e che non è solo utile ma necessario. Dopo vari tentativi andati a fallimento, ho avuto da un’amica che lavorava a Legambiente il numero di “una brava”; la chiamai per raccontarle la mia idea di libri per i bambini in arrivo da lontano e lei mi disse al telefono: “Lo sai, sì, che a Lampedusa ci sono 600 bambini italiani?!”. Lei era Giusi Nicolini e le se parole dettero una svolta decisiva al progetto. I bambini sono tutti uguali, per questo è ugualmente scandaloso che non ci sia una biblioteca per migranti quanto che non ce ne sia una per ragazzi: a questo punto mi sono indignata e mi sono convinta della necessità di questa azione. In seguito Giusi è diventata sindaco e così ha preso vita il progetto!
Sicché il progetto riguarda sia i bambini lampedusani che quelli migranti. Un modo ammirevole di insegnare a chi forse ci comanderà domani cosa significhi l’incontro e il rispetto di culture diverse. In cosa consisterà questo progetto? Quali attività saranno organizzate?
Il progetto nasce dall’accorgersi di un evidente bisogno e poi cambia e si modifica. Ora la nostra priorità è aprire; aprire una biblioteca e una consapevolezza (che manca) nelle menti dei lampedusani adulti: che non è giusto far crescere dei bambini lontano dalla possibilità di trovare risposte in un libro. Una volta che si fosse riusciti a superare tutti gli ostacoli fatti di burocrazia di economie di volontà e responsabilità condivise, allora avremmo uno spazio in cui accogliere e invitare i migranti che arrivano e stazionano sull’isola anche per tre-quattro settimane. Questa sarà una battaglia da fare per difendere i diritti di quei minori senza parola che raggiungono il centro. Le autorità dichiarano libere queste persone, ma la verità è che non lo sono. Ci hanno detto che una volta pronto il posto (evidentemente non riponendo molta fiducia nella nostra riuscita) allora potranno considerare l’ipotesi di far uscire i ragazzi, accompagnati per venire in biblioteca. Questa sarà la nostra richiesta appena pronti; questo è un altro motivo che ci spinge a continuare… se non ci ascolteranno lo chiederemo con più forza, augurandoci che funzioni! La biblioteca vive di progetti normali, non eccezionali: letture, incontri con autori, piccole mostre, soprattutto prestito di libri e buoni consigli. Uno spazio dove trovare ascolto e dove impegnare in modo costruttivo e vitale il proprio tempo. Ma come lei saprà a volte si tende a far diventare eccezionale il normale. Vorrei tanto che questa biblioteca desse il senso di come si può fare tanto con poco e di come non si può pensare di creare una società pensante se non si danno gli strumenti perché esista. La biblioteca avrebbe bisogno di, diciamo, 50 mila euro l’anno. Oggi leggevo che i “grillini” danno 4 milioni di euro indietro al governo: i conti non tornano, le cifre non si riescono a paragonare. Quello che sembra importante non lo è e quello che è importante non è considerato tale! In ogni caso proseguiamo e vediamo dove arriviamo. I lampedusani, dopo un primo aiuto, dovranno dare segni di approvazione e cominciare a chiedere da soli quello che è nei loro diritti.
Sono appena rientrato da una vacanza a Lampedusa, perché anche io volevo rendermi conto di cosa fosse e come funzionasse questa terra che sulle cartine appare tanto remota ma che in realtà ci è così vicina. E, come sempre succede, più che delle risposte o trovato tante domande. Che cos’è Lampedusa? Cosa rappresenta per l’Italia? È veramente la “porta d’Europa”?
Anche io sono tornata con molte domande: perché ci sono persone italiane con dei diritti ed altre senza diritti? Perché i nostri giornali le nostre notizie sono sempre così lontane dalla “verità” dalle mille sfumature della realtà che si possono percepire. Io trovo che Lampedusa sia un posto da cui imparare l’accoglienza, e non perché penso che i lampedusani siano speciali, ma perché penso che ogni cosa ricavi il suo modo di essere da una specie di equilibrio naturale. Direi che Lampedusa è disegnata dal tempo dal mare, per accogliere. Non è accogliente, ma ha imparato a dare a chi si ferma quello che cerca. Ti mette in piedi, ti aiuta, e ti lascia andare. Accoglie ogni forma animale, tartarughe delfini uomini, allo stesso identico modo, ti dà il meglio, per il tempo necessario. Poi si aspetta da te che continui il tuo viaggio (motivo per cui ti ha aiutato!). Lampedusa non è una porta, è un ponte. Guardata dall’Italia è un luogo in cui non sono riconosciuti i diritti fondamentali (parlando di minori) libertà, sport, cultura, scambio. Un luogo dimenticato… perché l’Italia non ha attenzione per chi ha bisogno. Guardata dal sud del mondo è un’idea, un sogno che viene disatteso, ma che rimane un sogno. Guardata con i piedi sull’isola è un luogo: un posto di nutrimento, un luogo indipendente, con le sue regole le sue anarchie…
Io vorrei per Lampedusa la “normalità”: una scuola funzionante, un cinema, un teatro, una biblioteca, come la vorrei per il resto d’Italia. Io vorrei che tutti avessero uguali diritti. E che i bambini dei luoghi remoti fossero curati ed accuditi perché ne hanno bisogno, invece a Lampedusa come altrove vengono dimenticati e crescono senza letteratura, senza arti, senza strumenti per comprendere il mondo. Lampedusa è sicuramente un simbolo. Ma potrebbe facilmente, con un po’ di buona volontà, diventare un esempio.
Cosa si può fare per aiutare la creazione della biblioteca? In cosa ciascuno di noi può dare una mano?
Per aiutare nella creazione della biblioteca bisognerebbe sostenere iBBY Italia
(http://www.bibliotecasalaborsa.it/ragazzi/ibby/) iscrivendosi o semplicemente facendo una donazione, perché questo significa sostenere chi le cose le fa con passione, motivo e progetto. Per fare in modo che una biblioteca funzioni e sia veramente un servizio per un territorio bisogna che questo territorio ne senta la necessità: bisogna mostrare loro a cosa serve, come si usa, quali vantaggi porta alla vita di ognuno. È un lavoro lento, costante, e non si può mentire. Non basta calare dall’alto e inserire in un contesto una biblioteca: non funzionerà. Sarà la meta di qualche visita entusiasta e dopo un poco verrà abbandonata, come una “cosa” inutile. Sarà come i nostri musei e le nostre gallerie magnifiche e vuote in città. Una biblioteca è un servizio: ma bisogna saperlo e volerlo usare ogni giorno. Ibby Italia si sta occupando di questo lavorando con le istituzioni, lavorando con i bambini e con le insegnanti. Quindi ora servono soldi per far iniziare i lavori: 34.000 euro per l’esattezza. Bisogna realizzare il bagno per i disabili, i mobili per contenere i libri e gli artigiani dell’isola sono pronti ad iniziare. A novembre, dal 15 la 22, ci sarà la seconda settimana di IBBY camp. Nell’attesa dei finanziamenti della nostra lenta e sorda politica abbiamo deciso di andare avanti e festeggiare la giornata internazionale dei diritti del fanciullo a Lampedusa: chi vuole donare la sua esperienza può venire e proporre laboratori letture, formazione; soprattutto cerchiamo persone appassionate, che non si spaventino difronte alle difficoltà (basta scrivere a ibbyitalia@gmail.com). Insomma, per fare una biblioteca ci vuole un popolo che conosce i suoi diritti e i suoi doveri! Come per fare un tavolo ci vuole il legno!
“I compagni del fuoco”: generazioni ai ferri corti
Michael Dialley
AOSTA – Come reagiscono gli adulti, oggi, ai comportamenti e alle azioni delle nuove generazioni? Le risposte possono essere tante e svariate, alcune persino difficilmente indagabili. Nel romanzo “I compagni del fuoco”, edito da Laurana editore (2013), Ernesto Aloia vuole consegnarci la sua risposta, ponendosi l’obiettivo di raccontare la reazione di Valerio allo strano, e preoccupante, comportamento del figlio Seba.
L’indagine porta, però, a un inesorabile sgretolamento delle convinzioni e dei pilastri su cui il protagonista ha vissuto fino a quel momento, in ambito lavorativo, familiare e anche intimo.
È proprio questo il centro assoluto del romanzo: viene data importanza e visibilità al comportamento di Seba e al contesto nel quale vive Valerio, ma è la reazione di quest’ultimo a essere scandagliata e analizzata realmente, con grande attenzione e interesse.
“Compagni di fuoco” è un romanzo che da un lato contribuisce a dare risposte a interrogativi reali, ma può anche sconvolgere il lettore, mettendolo di fronte a una realtà che si tende a ignorare se non addirittura a fuggire. Proprio questo è in sostanza l’errore compiuto da Valerio nel suo percorso di vita: aveva e si era creato delle convinzioni, dei pensieri che poi nella realtà e soprattutto nel contesto dei primi anni del Terzo Millennio si sono rivelati sbagliati, antichi, vani.
Senza dubbio la generazione degli anni Sessanta e Settanta (per citare quella degli attuali genitori di adolescenti) ha una mentalità ben diversa, ma questo non significa certamente che tutti si sconvolgono di fronte a quella dei ragazzi del nostro nuovo millennio: credere nei propri valori e nelle proprie convinzioni è fondamentale, ma è necessario anche aprire la propria mente, abbattere le barriere, “uscire dagli schemi” per poter comprendere, e magari conciliare, il nuovo pensiero, la nuova società, le nuove idee.
“Ce l’ha un libro marrone?”: le poche idee (ma confuse) dei frequentatori di librerie.
Giulio Gasperini
AOSTA – Dà sempre un brivido di dispiacere il pensiero che la figura professionale del libraio stia scomparendo. Si intende, non quella del commesso che digita un titolo sul computer e va a scovarti il libro perso sugli scaffali della libreria vasta come un campo da calcio; si intende quel libraio che è, prima di tutto, un raffinato conoscitore della letteratura, che sa dare consigli e giudizi, e che è il primo critico del prodotto che si trova a vendere. Di questi librai ne sopravvivono pochissimi esemplari, spesso persi nei più remoti angoli di mondo, sempre in agguerrita lotta contro la comodità di internet e l’impersonalità delle grandi catene. Leonardo Oliva è uno di questi: a San Giovanni Valdarno gestisce un caffè letterario, il Fahrenheit 451 (un nome altisonante, che spesso viene equivocato: “Per via del profumo, immagino”), dove la letteratura è un punto di riferimento, prima che una voce di bilancio. E per Ouverture Edizioni ha pubblicato “Ce l’hai un libro marrone?”, un divertente campionario di strafalcioni e orrori quotidianamente pronunciati dai clienti della sua libreria. Il sottotitolo del volume riprende il fantastico romanzo di un altro toscano DOC, Luciano Bianciardi, non solo grande romanziere ma anche grande teorico del “lavoro culturale”: “L’agra vita di un librario”. Perché vivere a contatto con libri e pubblico non sempre è facile e può portare a fraintendimenti, crisi, arrabbiature e discussioni accese.
Come la signora che cercava l’11 settembre della Fallaci: “Con molta immaginazione c’è da credere che si trattasse de ‘La rabbia e l’orgoglio’, ma la signora è uscita stizzita perché del titolo era assolutamente certa”; o come chi cerca “un libro da 10 euro e 50” o uno “scritto da uno che si chiama Davide”. E c’è anche chi cerca i “libri bisex che vanno bene per tutti” o chi confonde la libreria per qualche altro negozio: “Avete un libro pressa per i fiori?”.
Al di là del campionario favolistico e persino grottesco delle richieste che il libraio si vede rivolte ogni giorno del suo lavoro, è gratificante – e persino un po’ tenera – l’immagine di un libraio che ancora dialoga coi suoi clienti, ne percepisce gli umori e ne dosa gli sfoghi convergendo sulla letteratura.
Non si tratta di ridicolizzare l’ignoranza o di prendere in giro l’incuria culturale: è un omaggio – un divertissement – per celebrare la libreria e le persone che ancora – è il caso di dirlo – hanno il coraggio e la costanza di frequentarle. E chi, soprattutto, ha il coraggio di resistere e cercare di tenerle aperte.
Lettera ai lettori
Cari lettori,
da sedici anni, incontrando nelle librerie, nelle biblioteche o nelle scuole, le persone che hanno amato i miei libri, mi trovo a rispondere a una domanda ricorrente:
a che cosa servono i romanzi?
Talvolta la questione, magari posta da uno studente, nasconde un autentico desiderio di capire la funzione della letteratura; altre volte cela il desiderio di condividere quel sentimento apparentemente inutile che è l’amore per i libri. In ogni caso non è mai una domanda banale: riguarda il senso di ciò che faccio.
A cosa serve un romanzo?
Per come la vedo io, serve a dare spazio ai pensieri a sfuggire alla fretta. La cronaca ci obbliga a racchiudere i fatti e le idee in due colonne; un post su internet ci costringe a confinarli in pochi caratteri. Al contrario, un romanzo ci regala pagine e pagine in cui i pensieri diventano storie, diventano frammenti di vita. “Le colpe dei padri” racconta la storia di un uomo, Guido Marchisio, la cui esistenza viene sconvolta dal sopraggiungere improvviso di un ricordo e della presenza di un misterioso sosia. A poco a poco, quel ricordo aprirà crepe sempre più profonde delle sue sicurezze di manager senza scrupoli e il mondo che aveva sempre cercato di tenere lontano, il mondo di chi perde il lavoro, di chi non arriva a fine mese, di chi si suicida, farà irruzione nella sua vita: niente potrà più essere com’era stato.
Io spero che avrete voglia di addentrarvi con Guido nel labirinto del dubbio, di condividere con lui e con me le riflessioni sul presente e le immagini di un passato, quello degli anni ’70, con il quale non abbiamo ancora fatto i conti.
Per questo cammino insieme vi ringrazio di cuore.
Alessandro Perissinotto
“Oriana Fallaci e così sia. Uno scrittore postmoderno”.
Giulio Gasperini
AOSTA – La diffidenza della critica nei confronti di Oriana Fallaci è evidente. Sempre contesa tra giornalismo e letteratura, sono soprattutto gli ultimi anni della scrittrice ad averle attratto lo scetticismo di critici vari. E la sua strabiliante e stra-ordinaria carriera le ha, da sempre, attratto invidie e risentimenti. Nessuno se n’è ancora occupato in maniera sistematica e concreta, quasi a non voler correre il rischio di riconoscere i suoi meriti. Franco Zangrilli nel suo “Oriana Fallaci e così sia. Uno scrittore postmoderno”, edito nel 2013 da Felici Editore, è uno dei primi critici che con sistematicità offre la sua chiave di lettura dell’opera fallaciana, soffermandosi soprattutto sui cinque prodotti che secondo lui possono rientrare nel genere del romanzo, in particolare postmoderno, da “Penelope alla guerra” a “Un cappello pieno di ciliege”.
L’assunto di partenza è chiaro: i prodotti narrativi della Fallaci sono un chiaro (e sorprendete) esempio del romanzo postmoderno, in particolare di quella non-fiction novel che affonda le sue radici nel mutamento del giornalismo avvenuto intorno alla metà del ‘900, quando si affermò (anche un po’ disordinatamente) la corrente del New Journalism (quello, per intendersi, di Capote, Wolf, Talese). Sicché la Fallaci narratrice, sin dalle sue prime esperienze (con “Penelope alla guerra”), non sarebbe da rapportare alle esperienze italiane del neorealismo né della neo-avanguardia, ma più sicuramente ai tentativi del postmodernismo statunitense, rendendola in tal senso una grande sperimentatrice. Il merito della Fallaci è stato quello di saper rappresentare “con raffinato stile letterario la notizia giornalistica”: un lavoro sempre al confine, pertanto. Giornalismo e narrazione diventano due diversi comportamenti che la scrittrice utilizza quasi interscambiandoli, rendendo il giornalismo narrazione e la narrazione giornalismo.
Pochi sono gli esempi testuali che Zangrilli cita a sostegno delle sue tesi, e forse in alcuni punti le sue critiche alla Fallaci potrebbero essere rimodulate e ricalibrate, senza sconfinare nell’esagerazione. I “mezzi iterativi”, “le forzature, stonature e digressioni, divagazioni e deviazioni, elucubrazioni fluviali”, che Zangrilli individua come punto debole, potrebbero al contrario essere riconosciuti come una sua cifra distintiva peculiare, come un costrutto valido e potente, sempre incentrato sulla musicalità e il ritmo della frase, che mai cede né si fa vuota o zoppicante. Molto interessanti sono, all’opposto, i riferimenti meta-letterari e meta-narrativi che Zangrilli offre come strumenti per la decifrazione della Fallaci scrittore, dal confronto con gli esempi più luminosi di giornalismo femminile italiano fino a rimandi intertestuali con i grandi capolavori della letteratura italiana (“I Promessi sposi” sopra tutti). Il saggio di Zangrilli diventa uno strumento interessante per cominciare a realizzare come l’importanza della Fallaci sia comunque indiscutibile nel panorama letterario, se non italiano, sicuramente internazionale, in una prospettiva che la vede tra i pochi scrittori nostrani ad aver saputo cogliere un afflato e una potenza dal chiaro respiro extra-mediterraneo.
Babel Été, la letteratura al cospetto del Cervino
VALTOURNENCHE – Anche in estate in Valle d’Aosta si celebra la letteratura. Dopo la manifestazione primaverile aostana di Babel, il festival della parola, è a Valtournenche, ai piedi del monte Cervino, che si leggono e si festeggiano i libri e i suoi autori. Quest’anno la manifestazione “Babel été, parole illuminate dal Cervino” si terrà nel mese di agosto, organizzata dalla Biblioteca di Valtournenche in collaborazione con il Comune, il Consorzio del Cervino, le Associazioni Albergatori e Commercianti e le società impianti Cervino Spa.
Gli incontri, curati dal critico Arnaldo Colasanti, consistono in tre presentazioni di libri, tra i quali spicca la presenza di Simona Sparaco, recente finalista del Premio Strega, che il 2 agosto presenterà il suo “Nessuno sa di noi”. Gli altri incontri saranno su “Il suicidio perfetto” di Franco Matteucci (il 16 agosto) e “Pensare il calcio” di Elio Matassi (il 23 agosto).
Ad anticipare “Babel été” saranno, già in luglio, una serie di conferenze: il 6 sarà presentato il libro “Rifugi e bivacchi della Valle d’Aosta” di Massimo Martini e Luca Zavatta, il 17 luglio il libro “Il chiosco romanico di Sant’Orso e la sua interpretazione” di don Paolo Pepone; il 24 “Lettera a Bianca” di Gabriella Tabbò e il 27 “Dal Resegone al Cervino passando per il tunnel del Monte Bianco” di Loris Campagnoli; il 25 luglio, invece, Mirko Fresia Paparazzo presenterà il suo “Una principessa sul Cervino”, libro fotografico su Maria Josè di Savoia che amava trascorrere le sue vacanze in Valle d’Aosta.
La “Fisica della malinconia” e l’empatia, questa sconosciuta.
Giulio Gasperini
AOSTA – È francamente sorprendete leggere un romanzo che comporta un uso sfrenato dell’empatia. Oltre che gradevolissimo escamotage narrativo, il romanzo “Fisica della malinconia” dello scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, edito da Voland nel 2013, fa riscoprire una parola che nel nostro vocabolario è sempre più bistrattata, se non addirittura ignorata, quando – ancora peggio – usata a sproposito. Perché empatia è una parola potentissima, che germoglia dal greco antico: en e pathos sono i due significati che la compongono e l’idea è quella di “sentire dentro”; ma un sentire in senso lato, una compartecipazione emotiva tra due o più entità umane. Anticamente si utilizza il termine per definire il rapporto emozionale stabilitosi tra poeta e pubblico, tra artista e spettatore. Al di là di queste mere riflessioni etimologiche – ma fondamentali per capire la portata e l’importanza del romanzo di Gospodinov – lo scrittore bulgaro ha un’idea folgorante: scrivere dal punto di vista di un bambino che riesce a calarsi nelle vite degli altri, tramite questa dote dell’empatia, e a rivivere le varie situazioni da angolature diverse, conquistando di volta in volta punti di vista diversi: “La tendenza all’empatia è più forte tra i 7 e i 12 anni. Le ultime ricerche riguardano i cosiddetti neuroni specchio, localizzati nella parte anteriore della corteccia insulare”.
L’avventura è un continuo sovrapporsi di situazioni, di eventi, di emozioni che devono essere ricostruite ma che si ricollocano nel piano temporale e logico con una facilità da fiaba. A fare da macrocornice il recupero del mito del Minotauro: un essere mostruoso, ma che forse è stato fin troppo punito dalla tradizione mitica per non provarne pietà e compassione (anche qua, nel senso più alto e tragico del termine). Ci si dimentica spesso della componente umana del Minotauro: era anche un uomo, è stato un bambino, è cresciuto ragazzo. Quale potrebbe esser stata la sua reazione al rifiuto genitoriale? Quale la sua sofferenza nell’esser chiuso in un labirinto senza uscita, senza amicizia, senza amore? “La storia di una stirpe può essere descritta attraverso gli abbandoni di alcuni bambini. Lo stesso vale per la storia del mondo”. Con l’età la tendenza all’empatia diminuisce, si scarnifica e cessa: ecco allora che è il bambino a creare e plasmare le storie e a teorizzare, prima che sia tardi, le grandi regole del racconto, del ricordo: dalla fisica della malinconia alla fisica del pulviscolo, che sedimenta e copre ogni racconto della storia.
E le storie dei protagonisti, soprattutto della famiglia del bambino, si dipanano attraverso guerre e sofferenze, toccando vari momenti della storia bulgara ed europea. Ma non soltanto le azioni sono i dati importanti; Gospodinov trasforma i suoi attanti in saggi, che distillano sapienza da ogni esperienza e che hanno come loro arma ultima la parola, con cui filtrare e comunicare le esperienze maturate e che spesso carica di un potente afflato lirico ogni aspetto del più insignificante quotidiano: “Ho imparato le lettere al cimitero di quella cittadina riarsa dal sole. Posso anche dire che la morte è stato il mio primo sillabario. I morti mi hanno insegnato a leggere. […] Non sapevo che sotto la lingua potesse covare tanta morte”.
L’assenza del mito e la rassegnazione
Michael Dialley
AOSTA – Il mito è un idolo che le persone hanno come punto di riferimento e che utilizzano come modello da seguire nelle azioni quotidiane e come modello di vita. Avere un mito da seguire è stato fondamentale fin dalla nascita dell’uomo, ma lo è stato soprattutto per le generazioni degli ultimi anni.
Con “Post. 13 storie dopo l’89 che non sapevano di diventare mito”, edito da Lupo editore (2013), il curatore Paolo Paticchio pone l’accento sulla mancanza di veri miti negli anni ’90 da seguire per le generazioni attuali e, se alcuni sono stati miti, non sapevano che lo sarebbero mai diventati.
Ecco presentate quindi 13 storie, da altrettanti autori, che fanno conoscere al lettore 13 personalità, le quali hanno vissuto per creare qualcosa, combattere i mali della società, fornire ideali e perseguire scelte di vita.
Al centro si pone il problema del mettersi in gioco da parte delle persone: i veri miti degli anni ’60, ’70 e ’80 si mettevano in discussione, facevano scelte forti, controcorrente e soprattutto le urlavano al mondo esterno; i problemi erano chiari e le persone non avevano paura di mostrarsi e mostrare soprattutto il proprio disappunto.
Questo è ciò che i 13 autori-collaboratori del libro auspicano per le nuove generazioni: mettersi in gioco e non aver paura di esprimere le proprie idee; anzi, è dall’espressione dei propri pensieri che si può partire per migliorare la società, per risolvere situazioni e problemi che altrimenti continuano ad intaccare il nostro Paese.
È necessario porre domande e mettere in tavola le proprie carte, anche nel semplice quotidiano perché ciò che devono capire i giovani è che si parte dal piccolo per creare una vera “rivoluzione” che abbia i risultati cercati e concreti.
Ogni individuo può dare il suo contributo per migliorare la società e forse mai come ora abbiamo bisogno di esempi da seguire e di idee da sostenere.
Ciò che ci si deve chiedere, forse, è il motivo per cui dopo il 1989 le persone hanno iniziato a non avere più dei miti da seguire e come mai grandi e piccoli personaggi, come quelli presentati nel libro, non sono stati ascoltati e seguiti a sufficienza. Forse la sfiducia verso ogni cosa ha portato a questo risultato, o forse con il progresso e la tecnologia tutti sono incentrati su loro stessi, diventando più egoisti e non pensando al prossimo, all’altro, che ci sta accanto.