“Figlie dell’Iran”: Parvin, Mina, Massoumeh e le altre donne resistenti.

Figlie dell'IranGiulio Gasperini
AOSTA – La penna ferisce più della spada. È detto comune che mantiene un fondo di verità. Ma il libro curato dall’artista iraniano Reza Olia, “Figlie dell’Iran”, edito dalla maremmana Ouverture Edizioni (2013), dimostra come anche l’azione sia indispensabile per tentare, almeno, di cambiare un mondo che non funziona. Reza Olia arrivò in Italia nel 1959, per studiare Belle Arti: è un artista che non ha mai smesso di combattere per l’indipendenza e la libertà della sua nazione e del suo popolo, prima contro lo Scià e poi contro il cieco regime di Khomeini. Lo ha sempre fatto soprattutto attraverso le sue sculture e i suoi dipinti: ritrae e modella spesso donne dai volti fieri e coraggiosi, quelle donne che in silenzio, da sempre, subiscono le regole feroci e brutali dei regimi ma che, con la stessa dignità, cercano di minarli alle fondamenta e farli cadere.
L’idea di questo libro venne al maestro Olia in una capitale europea: durante la presentazione del suo libro “Il bronzo e l’esilio” fu avvicinato da una giovane ragazza, di nome Parvin, che cominciò a dispiegare il filo della sua memoria, inanellando una serie di orrori, di soprusi, di sevizie, perpetrate dal regime semplicemente perché era studentessa universitaria. La galleria umana delle “Figlie dell’Iran” continua con testimonianze dirette, donne che hanno accolto l’invito di Reza Olia nel voler condividere con il mondo le loro storie terribili in difesa della propria libertà personale e di quella dei loro connazionali, e anche col ricordo indiretto di altre donne, che hanno testimoniato con altri mezzi e altre espressioni artistiche e che adesso non ci sono più, già punite e condannate dal regime a una morte crudele: tra queste la fotografa iraniano-canadese Zahra Kazemi, o la vicenda tristemente nota di Sakineh Sangsar e della sua (sventata) lapidazione. Alcune di queste donne sono, appunto, diventate tristemente famose, balzate agli orrori della cronaca per le loro storie crudeli, per le loro vite devastate, per le interminabili violenze patite. Alcune, invece, non hanno né età, né nome, né volte, rimasto celato dietro veli e vesti della tradizione; alcune non hanno potuto gridare, né testimoniare le sofferenze patite, i gesti di quotidiano coraggio che permettono ancora di sperare in un mutamento: “Per molte donne che si avvicinarono alla politica in quegli anni difficili, ad esempio, vi erano obiettivi che andavano al di là delle battaglie per l’uguaglianza tra uomini e donne; soprattutto per il raggiungimento della libertà, della giustizia e per il socialismo” racconta Ziant Mir Hashemi. Sono donne, queste, spesso senza cultura, ma che edificano il sapere, diventando loro stesse cultura. E i regimi, tutti i regimi, di qualunque natura e impostazione siano, hanno paura della cultura: “L’obiettivo del regime era e rimane quello di annientare la libera comunità artistica iraniana”, sottolinea Marjan Tarjome.
Come ci insegnano Reza Olia e le “donne iraniane ancora rinchiuse nelle medievali carceri del regime e tutte coloro che sono cadute per la libertà”, l’azione e l’impegno civile sono indispensabili al cambiamento, mentre la penna è indispensabile per ricordare e non perderne la memoria. Perché è la testimonianza, in primis, che può edificare la coscienza civile e morale d’un intero popolo e d’un’intera nazione.

“Nel fruscio feroce degli ulivi” la parola che conforta.

NelFruscioFeroceDegliUliviGiulio Gasperini
AOSTA – La ricerca poetica è ricerca spirituale: il fine della poesia di Angela Caccia è lampante e palese. Nella sua silloge “Nel fruscio feroce degli ulivi”, edito da Fara Editore nel 2013, la Caccia squaderna la potenza della sua parola poetica nella contemplazione del metafisico, nella ricerca di evidenti prove dell’esistenza d’un particolare (e specifico) altrove. Ma ogni prova, ogni dato d’evidenza, è coraggiosamente vagliato dalla ragione, che non perde mai il suo ruolo di referente ultimo: il pensiero è filo guida, anche quando le istanze profonde, i richiami più urgenti oltrepassano il sensoriale, l’empirismo, lo spiegabile e il comunicabile. E la parola ricerca lo spessore: “Parole parlanti le tue / parole scritte in fuga”; lo cerca sulla pagina bianca, sul campo d’arare della letteratura: “È campo di battaglia il foglio”; lo ricerca nella materia più terrestre, nella dimensione più terrena, quella che è più sincera e naturale: “Parole vere / le più terrose”. E lo cerca in relazione a un interlocutore, un tu che cambia spesso forma, come dune nel deserto: se spesso pare la poetessa rivolgersi a Dio, altre volte chiaramente l’interlocutore è più fisico, maschile, definito nella sua identità (“Ora sei altro da me / ora sei l’uomo che io sognavo / e tu non speravi. Ho spinto il tempo / e lui ti ha colmato di sé”).
Le immagini sono attinte, come capita sovente in questi anni, dalla realtà quotidiana; ma è una realtà particolare, per certi tratti remota, con pennellate di “sai di cielo e / di bucato sulle corde”. C’è il ricordo, la reminiscenza di interni intimi e caldi, profumati di umanità: “Terrò il / focolare sempre acceso e grappoli di cipolle / ed erbe secche ai muri”. Ma oltre la soglia c’è comunque il mondo; e il mondo è il luogo dove si concretano le scoperte; ma è anche il luogo della gioia, del benessere: “Nei rumori familiari della strada / una gioia sottile / rimbalza dai marciapiedi alle case”. È una ricerca di grande libertà, una spinta non all’evasione ma all’espansione: “Solo al vento / sarà dato scollinare le frontiere?”. La fiducia nell’estensione è totale, attraverso l’utilizzo delle parole e della comunicazione; si rifiuta il silenzio fine a sé stesso, un silenzio che non sia meditazione, ma come Giovanni si preferisce urlare nel deserto: “”Lancia in alto le sillabe / e ricadranno pietre / a frantumare i muri”.
La materia poetica è tratta in grande quantità dal Vangelo, dalle sue immagini e dalle sue parabole: “È chiarore di vita […] / è il chicco di grano che torna a cadere nel solco”. Ed esattamente come nel Vangelo, la portata di umanità travolge il mondo in ogni sua attesa e aspettativa, cercando soluzioni e continuità alla Storia umana più estesa: ecco che compaiono le poesie “I giorni sottili (pensando al terremoto in Emilia)”, “Lettera alla mafia (in memoria di Falcone e Borsellino)” e “A Giovanni Paolo II”. La Storia non intasa, non soffoca la continua ricerca, l’esplorazione oltre ogni gradino, ma la rende solo più feconda, più abbondante e nutriente; tutto si fonde in una sorta di “geografia spirituale” che alimenta la domanda e concede il tentativo di risposte: “E saprà ancora farsi primavera”. L’origine del tutto è una scintilla, che esplode “nella penombra di una grotta”, e la nostra crescita rappresenta la costante evoluzione verso un approdo ultimo, dove ci sia la certezza di aver compiuto un percorso di crescita intima e personale, ma che metta in rapporto anche con la società e l’alterità: “Qualcuno approda dove la coscienza si fa porto”.

Il matrimonio secondo Rebecca West.

Giulio Gasperini
AOSTA – Rebecca West ha opinioni chiare e forti: “Continuo a pensare al matrimonio con grande paura e orrore. Non è che non mi piacciano gli uomini. Mi piacciono molto. […] Eppure sento che il matrimonio, l’ingresso in un sodalizio con un uomo, permanente, pubblico e favorito dallo Stato, sia l’atto più sconsiderato che esista”. La dose è rincarata: “Quando sento che una mia amica sta per sposarsi, provo per lei un dispiacere sincero. Quando un uomo mi chiede di sposarlo, mi sento ferita e imbarazzata. È come se mi avesse presentato qualcosa di simile a un’ingiunzione fiscale – un espediente ufficiale per ridurmi in miseria”. Le parole bastano a spiegare e autogiustificarsi: “Non è che non mi piacciano gli uomini”, curato da Francesca Frigerio e edito dalla Mattioli 1885, raccoglie un racconto lungo e un saggio nei quali la scrittrice britannica discetta su matrimonio e sue conseguenze. Per questa istituzione borghese la West non ha certamente parole dolci: “”Il pregiudizio che ho iniziato a nutrire da giovanissima verso il matrimonio mi impedisce di accettarli senza opporre una disperata resistenza”. Pregiudizio, ammette lei stessa; ma non si può certo dire che le ragioni, le motivazioni attraverso cui il suo attacco procede non siano né motivati né verosimili. La West sa quello che dice e, prima ancora di tutto il resto, lo sa comunicare in maniera cristallina e disarmante.
Nel racconto che apre il volume di Mattioli 1885, “Matrimonio indissolubile”, va in scena la rappresentazione grottesca di un’avventura matrimoniale: c’è un marito che odia la moglie, che odia il loro vivere borghese, che detesta il susseguirsi monotono e vuoto di giorni scanditi dalla routine del quotidiano; e inoltre pensa che lei lo tradisca, come nelle migliori favole coniugale; ma lei non lo sa, o forse preferisce ignorarlo. E l’unico modo che il marito trova per liberarsi della compagnia ingombrante della moglie è quello di ucciderla. La scena assume subito contorni onirici, una specie di visione che conserva, però, un’inquietudine e un morboso accesso voyeuristico di violenza. L’accelerazione è aggressiva; la descrizione dell’omicidio ossessiva. Ma la sorpresa è che tutto accade in sogno, in un’accelerazione all’odio e alla fissazione che scardina l’amore e il mutuo soccorso coniugale. Il risveglio è nel letto, nella culla della quotidianità matrimoniale, dove le coppie finiscono maggiormente per ignorarsi, ma dove si salva almeno il concetto di sponsale.
Nel saggio, invece, Rebecca West offre la chiave interpretativa per capire la sua vita e per comprendere l’ostilità profonda al vincolo coniugale. Nella sua avventura argomentativa si serve anche del Vangelo e prende in esame l’episodio della Samaritana: “Avevo capito che quando Gesù aveva incontrato la samaritana, si era addolorato perché aveva avuto cinque mariti, ma non mi era mai venuto in mente che il motivo del Suo dolore fosse il fatto che la donna aveva condotto una vita dissoluta […]. Pensavo che fosse arrabbiato perché la donna aveva gettato via la felicità prendendo un marito, il che ovviamente significava che era diventata povera, aveva dovuto fare dei lavori che le rovinavano le belle mani, indossare abiti brutti e distruggere se stessa, e perché poi non aveva capito quale fortuna le fosse capitata quando il marito era morto o se n’era andato, e se n’era addirittura preso un altro”. La sua conclusione è drastica, parole che non potrebbero esser più chiare con nessun commento: “Era come andare in bancarotta per cinque volte o finire in prigione per cinque volte per un crimine che si poteva tranquillamente evitare di commettere: una caparbia ricaduta nello squallore”.

“Senza rete” per affrontare le nuove epoche.

Giulio Gasperini
AOSTA – La parola poetica è un grimaldello: forza le serrature e apre nuovi orizzonti. Nella silloge di Fiorella Carcereri questo compito è evidente: seppur con significanti quotidiani, semplici e piani (“La mia parola è chiara / ma il tuo cuore la rifiuta”), si cerca di far perno sul significato per scardinare quello che altrimenti rimarrebbe serrato. In “Senza rete”, edito da Edizioni Ensemble, palese è il tentativo di dare importanza e vigore alle parole, anche tramite figure retoriche di ripetizione e ridondanza, soprattutto anafore (“Angelo”), ma anche tramite un continuo confrontarsi di piani temporali diversi e consecutivi (“Ieri, oggi e domani”) e la contrapposizione di opposti aspetti che sottolineano lo stridore e innestano il dubbio: “Decelerazione, / accelerazione, / decelerazione, / accelerazione…”.
Le due parti in cui è divisa la silloge danno l’immediata cifra interpretativa dell’esperienza della Carcereri: “Tu ed io” e “Io e il resto”, in un chiasmo a distanza, stabiliscono il punto centrale della sua ricerca – l’Io – (come in ogni tradizionale ispirazione poetica), mentre i due poli opposti ma complementari rimangono “l’altro”, un interlocutore col quale sempre ci si rapporta e ci si confronta, e “il resto”, dalle varie e complesse accezioni e declinazioni.
Il rapporto col “tu” è altalenante, fatto di avvicinamenti e di allontanamenti, di richiami e di separazioni: “Sembrava un altro addio, / sembrava l’ennesimo addio, / ma le nostre due anime / sono legate / da un moto perpetuo / di andata e ritorno, / di alta e bassa marea”. Il tu esiste, quasi carnale nella sua prospettiva di futuro, nella sua analisi del presente, nel suo ricordo del passato, (“Dimmi come riusciremo / a non essere / uno di questi amori sbagliati”) ma spesso si allontana, se non addirittura fugge, disertando il campo di battaglia e scomparendo nella latitanza: “Ora so che alcuni ricordi / sbiadiscono / o scompaiono del tutto.. / Penso sempre a te, / per saperti con me”. E il poeta rimane in bilico tra rimpianti, rimorsi e la sicurezza di aver ben agito, in ogni caso: “Basta / un’incomprensione / a farci capire / cosa sarebbe la vita / senza di lui. // Fiamma mai spenta. / Solo sopita”.
Il confronto con “l’altro”, invece, nell’esperienza della Carcereri, sancisce l’opportunità di dar vita a una poesia sociale che, com’è evidente negli ultimi tempi, ha oramai perso la sua identità e non riesce più a trovare una chiave espressiva valida e importante. Nel prevalente ripiegamento erotico-amoroso della poesia contemporanea, la carica sociale della poesia si riscopre, in questa silloge, ancora interessata a emergere. Sicché ecco comparire poesie dalle immagini rassicuranti e conosciute, come “Armadio di vita” o “Fari e lucciole”, che si caricano soprattutto di una tensione umana e universalistica: “E poi compro tre calle ad una bancarella, / ne osservo incantata / l’assurdo candore / e mi chiedo / come sia possibile / tanta bellezza / in altrettanta semplicità”.
Non sempre è agevole, né esaustivo, il tentativo di perforare la superficie e di approdare al “porto sepolto” di ungarettiana memoria: il movimento discendente è la somma aspirazione di tutti coloro che con la parola poetica si confrontano e giocano anche se non tutti raggiungono il punto estremo, l’approdo definitivo. La Carcereri sceglie la via della parola piana, dell’immagine rassicurante: quasi una forma di contrappasso per il nostro mondo frenetico e inquietante.

“L’horror è un contenitore che può più di altri toccare corde essenziali dell’animo umano”: ChronicaLibri intervista Claudio Vergnani

Michael Dialley
AOSTA – Un viaggio particolare in un’Italia popolata da zombie: questo il contesto del nuovo romanzo di Claudio Vergnani, “I vivi, i morti e gli altri”, uscito da poco per la Gargoyle Books.
Tinte fosche, luoghi misteriosi e rumori sinistri provocati da quelli che sembravano morti, sono invece gli ingredienti che tengono il lettore vigile e attento a tutti i dettagli.
ChronicaLibri ha intervistato l’autore per cercare di capire cosa c’è dietro questo romanzo e per dar voce a chi ha dato la luce a quest’avvincente storia.

 

Ha scritto una saga di vampiri, prima de “I vivi, i morti e gli altri”: che cosa l’ha avvicinata agli zombie? Come mai ha incentrato il nuovo romanzo su queste creature?
Né i vampiri né gli zombi hanno molta importanza per me: mi servivano solo per creare uno sfondo horror conosciuto dove poter raccontare soprattutto altro.

“Ritengo che l’horror sia un contenitore che, se usato adeguatamente, può più di altri toccare corde essenziali dell’animo umano”: queste le parole che ha usato in un’intervista per definire il genere horror.

 

Nel suo nuovo romanzo emerge la fragilità del protagonista, Oprandi, che viene quasi schiacciato dalla realtà, dalla società composta da cannibali: è questo, forse, un ritratto dell’uomo odierno e del mondo reale, trasposto ed enfatizzato poi nella realtà horror?
Di solito sfuggo le metafore. Spesso sono banali o ambigue. Ma certamente Oprandi si muove in un mondo che è solo un passo avanti al nostro, e infatti lo interpreta lucidamente in tutta la sua miseria, ignoranza, ingiustizia e pericolosità. Paradossalmente, pur essendo un uomo con tutte le carte in regola per crollare definitivamente, l’essere un figlio di questi nostri tempi gli sarà d’aiuto per non smarrire definitivamente sé stesso nel momento della catastrofe e dell’orrore.

 

Crede che il genere horror possa essere uno strumento utile alle persone per evadere, visto il periodo storico nel quale viviamo oggi?
È difficile da dire. Potrebbe sembrare di sì, ma i risultati delle vendite tendono a dire il contrario. Forse i tempi senza speranza in cui viviamo spingono maggiormente il lettore verso il fantasy, dove i buoni soffrono ma poi vincono, i cattivi vengono umiliati e sconfitti, e mille creature soprannaturali ma perbene ispirano al lettore la possibilità di un mondo magari ancora sconosciuto, ma decisamente migliore e più giusto di quello reale.

 

Una persona mi ha detto “leggi e rilassa la mente”, ed effettivamente la lettura ha, su di me, quest’effetto; a lei in che modo la lettura aiuta? Perché consiglierebbe alle persone di leggere un buon libro?
Me l’avesse domandato anche solo due anni fa mi sarei detto d’accordo, e avrei spiegato il perché. Oggi, le confesso, non lo so più. Qui in Italia la maggioranza dei lettori non legge, si limita a scorrere con gli occhi un insieme di parole che altri hanno scelto per loro. Non acquistano un libro, acquistano un autore, per pigrizia, per abitudine, per sentirsi rassicurati. Forse un giorno la gente tornerà a leggere, e allora, chi lo sa, potrò rispondere diversamente alla sua domanda, se le parrà ancora d’attualità.

 

I lettori, ormai, la conoscono nel genere horror: in quale altro genere le piacerebbe impegnarsi? Sta già lavorando a qualche altro progetto?
È uscito in questi giorni un thriller, Per ironia della morte, dove cerco ancora una volta di inserirmi in un genere, con amore e rispetto delle sue strutture classiche, e per poterlo poi rinnovare dall’interno con il mio stile considerato drammatico, profondo e ironico nello stesso tempo.

 

Come scrittore, quali sono le tre parole che preferisce?
Me ne basta una: quella giusta, schietta e sincera che arriva dritta al cuore e alla mente di un lettore attento e intelligente. Quella parola è tutto. Perché, come dico sempre, un romanzo è solo un’opera parziale, al quale solo un lettore attento e ricettivo può dare il soffio della vita, portandolo con sé nel suo mondo, arricchendolo con la sua partecipazione, le sue considerazioni e, perché no, con il suo amore. A mio parere è tutto qui, tutto quanto qui.

“I nipoti di Scanderbeg”, verso l’Italia, alla ricerca dell’America.

Giulio Gasperini
AOSTA – Era il 1991. A marzo ne giunsero 27.000. Ad agosto 20.000 tutti su una sola nave partita da Durazzo. In quei pochi mesi la Puglia, e Bari in primo luogo, furono il teatro di uno sbarco di massa. Tanti albanesi, soprattutto giovani uomini, fuggivano dalla loro patria, perseguitati dalla mancanza di libertà, dal bisogno di un lavoro, dalla povertà asfisiante prodotta da anni di repressione di Enver Hoxha e del suo regime. Artur Spanjolli si trovava su quella nave, la Vlora, conquistata nel porto di Durazzo, che rappresentava una breccia inattesa per partire dalla disastrata Albania con nei pensieri soltanto l’Italia, l’Europa, la libertà e la ricchezza. In “I nipoti di Scanderbeg”, edito dalla coraggiosa casa editrice Salento Books, Artur Spanjolli ricostruisce quel lontano giorno d’estate, quando si trovava con gli amici in spiaggia, in pantaloncini e ciabattine, ignaro del destino che avrebbe provato a forzare, intraprendendo una rotta difficile e nemica.
L’Italia, per molti anni, dall’altra parte dell’Adriatico, era stata immaginata come l’America. Il luogo dove tutti i sogni si realizzano; dove si mangia; dove si diventa ricchi; dove si può pensare a un domani migliore. Dove poter fuggire un destino avverso e crudele. La televisione, i programmi con Pippo Baudo, le ostentazioni di merci e prodotti: chi potrebbe resistere a insistenti canti di sirene? A perfette e sfacciate fate morgane? Quelle che nel deserto allettano (e ingannano) gli assetati. In tanti partono, sfidando prima di tutto l’esercito albanese, poi le loro ansie, le paure; abbandonando gli affetti, la sicurezza dei parenti, la familiarità del suolo natio. L’esilio è il destino di tanti: decisione sofferta e dolorosa, frustrante e selvaggia. L’incredulità ferisce, però, quando il tentativo non riesce e dall’altra parte c’è il rifiuto, il respingimento.
Perché così accadde in Italia, in quei lontani giorni assolati. E così minutamente lo descrive Artur Spanjolli nel suo romanzo che è crudele e amara autobiografia. L’Italia non li volle; il Governo, in ritiro estivo a Cortina (premier era Andreotti, tanto per cambiare), non seppe darsi coraggio e preferì contravvenire alle regole del diritto d’asilo: tutti imbarcati su un aereo, a turno, e riportati al loro paese, dalla geografia così vicina ma dalla vita sì remota. E non importava se tra i tanti albanesi ci fossero perseguitati politici, ragazzi in pericolo di vita, disperati senza nessuna prospettiva. Tutti dentro il ventre di un aereo e tutti di nuovo indietro. “I nipoti di Scanderbeg” fa riflettere su uno dei drammi più evidenti dello scorso secolo; instilla in noi il dubbio di cosa sia un’accoglienza vera, di quali siano i bisogni dell’uomo, di cosa si possa fare per rispondere. Artur Spanjolli non ha parole di condanna, per l’Italia. Quanto, piuttosto, di incredulità. Dov’è l’Europa? Dove la libertà? Dove i diritti? Dove la dignità umana? Dove la sicurezza, la protezione, il rispetto della vita? Accanto ai tanti gesti di umanità, a cui lui stesso assistette e ne fu il beneficiario, si schiera un campionario di assurdità: non ci si stupisce, però, che questi ultimi siano esclusivamente riferiti ai responsabili e ai detentori del potere. Politico, in primis.

Un nuovo viaggio tra “I vivi, i morti e gli altri”

Michael Dialley
AOSTA – È un’Italia, un mondo, dove gli uomini devono combattere contro il popolo dei non-morti, gli zombie, che stanno prendendo il sopravvento e si stanno moltiplicando all’ennesima potenza: uno scenario, insomma, che richiama quella tradizione del XIV secolo legata ai “Trionfi della morte” che si trovano nel panorama artistico e letterario del tardo medioevo.
Claudio Vergnani torna nelle librerie con “I vivi, i morti e gli altri”, per la casa editrice Gargoyle books, per raccontare questo mondo caduto nel caos totale; è una lettura scorrevole, che permette un momento di evasione e di “stacco della spina” dal caos reale che regna, oggi, nella società.
Oprandi, il protagonista, è un uomo di mezz’età, che ha fatto ormai la sua vita e che ha il vizio dell’alcool: ex combattente, la sua attività attuale è uccidere gli zombie, dar loro l’eterno riposo che la morte dovrebbe concedere ad ognuno.
Sono situazioni difficili, agghiaccianti, con immagini crude e suoni: sì, vengono descritti nei dettagli i moltissimi rumori che questi cadaveri fanno nei cimiteri, nei loro loculi, nelle casse; da un grattare continuo e costante a mugolii ed urla vere e proprie.
Ma non è solamente questa “non morte” la protagonista del romanzo, anzi: la chiave dell’intero racconto è Oprandi, la sua anima, la sua psicologia, i suoi sentimenti. È un uomo straziato dalla solitudine e dal dolore e cerca di reagire a queste difficoltà nel migliore dei modi, ma soprattutto con i mezzi che ha; in un momento di particolare crisi, però, ogni volta arriva qualche aiuto: dalla signora che prega per lui e gli dona una medaglietta di San Cristoforo, fino ad un incarico che, sì è molto difficile e complesso, ma che promette la tanto agognata luce in fondo al tunnel.
Durante questo incarico il protagonista vivrà situazioni estreme e di estrema difficoltà, ma conoscerà anche la passione, l’aiuto di persone estranee, l’amore per una ragazza che sarà costretto a abbandonare, il dolore della perdita. Oprandi ha una missione che lo porta a camminare sempre sul filo che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, ma che gli fa riconoscere quanto, a volte, siano meglio i cannibali bramosi di carne (che non hanno più un’intelligenza, ma rispondono solo alla loro fame) rispetto a quegli uomini, ancora vivi, che hanno perso qualsiasi umanità (ma che sono assolutamente in grado di pensare ed agire secondo la ragione); emerge, infatti, la crudeltà fine a se stessa, la parte peggiore dell’uomo in momenti di estrema difficoltà e drammaticità.
Estremo silenzio ed estrema solitudine, alternati a caos, rumori, spari ed incendi: su questo dualismo si snodano le vicende del romanzo, che permettono al lettore, piano piano, di entrare sempre di più in quella realtà e, soprattutto, in Oprandi.

“Babel”, ad Aosta la parola celebra la ‘tentazione’

AOSTA – La quarta edizione di Babel, il festival della parola in Valle d’Aosta, si svolgerà nella città alpina dal 19 aprile al 5 maggio e, nonostante i tagli rispetto alle edizioni passate, anche quest’anno si prospetta come un delizioso festival incentrato su autori, testi e performance di varie arti. Quest’anno tema sarà la tentazione. Perché, come proclamò anche Giobbe, “forse che la vita dell’uomo non è una tentazione?”. Tutto si svolge nella piazza principale, Emile Chanoux, dove sarà allestita la Casa di Babel: un centro di culturale propositiva, formato da l’Agorà dei libri, una grande libreria provvisoria aperta da tutti i librai della città, e Spazio Autori, dove si terranno le conferenze e gli incontri previsti in cartellone. Da sempre, Babel è stato animato dalla curiosa ricerca del significato: ogni anno una parola viene sviscerata e declinata in ogni sua accezione, in ogni sua sfumatura. Nelle sue luci e nelle sue ombre. Quest’anno tanti autori si passeranno il testimone discutendo della “tentazione”, perché “la tentazione è l’esperienza. Ma nessuno sa raccontare un’esperienza. Ecco perché mi faccio tentare ancora” (Victor Hugo): il 19 aprile Antonella Boralevi e Dario Argento; Veronica Benini e Marcello Sorgi martedì 20, per proseguire poi con Pupi Avati, Antonio Manzini, Cinzia Tani, Giuseppe Culicchia, Nadia Fusini, Catena Fiorello, Luisella Costamagna, Martino Gozzi, Enrico Ruggeri, Sergio Campailla e Carmine Abate.
Ma Babel è attento da sempre anche alla letteratura del luogo, con una serie di presentazioni che hanno come oggetto gli autori valdostani, chiamati a confrontarsi con il pubblico. In ogni presentazione, inoltre, viene presentato e fatto degustare i vini della regione, che può vantare produzioni estremamente pregiate e di qualità.
“Le parole sono azioni” scrisse Wittgenstein e così recita il primo articolo del manifesto di Babel: un festival dove la parola si tempra di significati.
Il programma completo della manifestazione è disponibile sul sito della Regione Valle d’Aosta.

“Le cose brutte non esistono”: i punti di vista che frantumano lo specchio.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci guardiamo allo specchio e siamo sicuri dell’immagine che ci rimanda. Ci siamo noi: coi nostri inattesi capelli bianchi; con le nostre occhiaie; coi nostri dubbi. E poi capita che guardiamo gli altri riflessi allo specchio e, si sa, che tutto cambia. Tanti ne hanno scritto, tanti ne hanno discettato, tanti ci han speculato. Ognuno di noi ha la sua prospettiva e difficilmente due ritratti indiretti arrivano a combaciare. Anche solo di qualche dettaglio. Riccardo Romani scrive un delizioso romanzo, “Le cose brutte non esistono”, pubblicato in un’edizione raffinata – ne rendiamo merito – dalla 66thand2nd nel 2013, incentrato sul tentativo compiuto da un ragazzo mediocre – detto, anni fa, inetto – nel tentativo di smarcarsi dall’ombra incombente di un padre incomprensibile e ingombrante. Ma la sua ricerca si scontra con l’evidente risultato di un fraintendimento enorme, colossale: il padre è un eroe. Un imperfetto eroe.
Quell’uomo che portava a casa ragazze sempre diverse, che arrivava e ripartiva accompagnato da un uomo altrettanto misterioso ma più comunicativo di nome Alfonso Duro, che ignorava la moglie con una precisione maniacale, che evitava ogni affettuoso approccio col figlio e, anzi, lo puniva anche fisicamente, accusandolo di essere gay, per la sua timidezza e ansia da prestazione. Quell’uomo che in ogni immagine si figura tiranno e dominatore un giorno muore. E la sua morte spalanca un’urgenza di sapere, un bisogno di conoscere che porta il ragazzo a volare dall’altra parte del mondo, all’inseguimento di una ragazza dalle poche parole e dalla storia confusa. Era stata proprio la fuga con lei che aveva sancito la misura più alta di ribellione dal padre: lei, destinata a mandare avanti la tabaccheria di famiglia nel paesino dove vivevano, aveva subito esercitato sul ragazzo un’attrazione irresistibile, per qualche motivo apparentemente ignoto. La verità sarà ricercata in modo anche casuale, randomico, nello scenario degli Stati Uniti del Sud, assolati e aridi. Sarà un libretto del 1995 a fare un po’ di luce, di chiarezza, in una vicenda che è un continuo e altalenante allacciarsi di rapporti, di amicizie e di contrasti.
Il romanzo è tutto in sospensione e sottrazione; nulla è chiaro fino in fondo e non è dato capire appieno la direzione verso cui si sta andando. La luce della risoluzione del mistero è lasciata filtrare a gocce, lentamente, come sabbia in una clessidra. Ma lo sguardo non raggiunge mai l’insieme perché sono i dettagli a stabilire le giuste calibrature. E i dettagli ci suggerisco che, come per gli sguardi, possono sempre rappresentare troppi significati tutte assieme.

 

Vedi QUI il booktrailer de “Le cose brutte non esistono”

“A cuore aperto”: la confessione di un uomo tradito da sé stesso.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci sono delle volte in cui è il tuo stesso corpo a tradirti; come se si ribellasse al tuo volere; come se non avesse nessuna remora, nessun pudore di colpirti a tradimento, quando di situazioni ne hai affrontate di ben più gravi e pericolose. E ti senti forse anche più indifeso, in pericolo. Perché oltre alla vita rimetti in gioco la fedeltà a te stesso. Questo “A cuore aperto”, edito da Bompiani nella collana Grandi PasSaggi, è la storia di un uomo che scopre la paura di morire. E si sorprende. La storia di Elie Wiesel è nota: deportato ad Auschwitz e a Buchenwald, autore dello straordinario “La notte”, premiato con il Nobel per la pace nel 1986. Dopo una vita così, si potrebbe anche pretendere di sentirsi al sicuro, oramai, dai colpi della sorte e dalle coincidenze del caso. E invece no, perché a compromettere la sicurezza e la pace questa volta è una parte del proprio corpo: il cuore cede. Quasi d’improvviso; o comunque in maniera sorprendente. I guai si cercano altrove, in altri organi, e invece è la pompa che non funziona bene e che danneggia tutto il resto.
Sicché il ricovero in ospedale, un’operazione che tutti prospettano con una sicurezza chirurgica ma che si sa quanti rischi comporta (e dalla quale qualcheduno non si è mai più risvegliato), la dolorosa convalescenza sono i pretesti per rimettere tutto in discussione, come se i bilanci non fossero mai definitivi e ci fosse sempre qualcosa su cui riformulare il giudizio e ricalibrare il significato. Elie Wiesel passa così in rassegna tutti gli aspetti della sua vita, tutte le declinazioni del suo impegno, della sua ostilità all’indolenza e all’accidia, con la consapevolezza che “se Auschwitz non ha saputo guarire l’uomo dal razzismo, che cosa potrebbe riuscirci?”: l’insegnamento, che tanto ama e che deve lasciare interrotto; il suo impegno “contro la banalizzazione di Auschwitz”; la rassegna delle sue opere, da “L’oblio” a “Ani Maamin”; il tema della Bufera, chiamata così in montaliana memoria; il rapporto con Dio (“Troverò l’audacia di rimproverarGli il suo incomprensibile silenzio?”); il legame di profondo amore con la moglie e con il figlio che lo assistono indefessi al capezzale.
Elie Wiesel depone l’orgoglio, il pudore virile e affronta quest’ennesima avventura svelando tutte le sue debolezze, i suoi tremori, le sue angosce di avere a che fare con un nemico che lo spaventa, perché non dà certezze; ma soprattutto che disarma proprio perché nemico che proviene dall’interno del sé: “Ritenevo che la morte non mi spaventasse. Non ero vissuto con essa, e anche in essa? Perché temerla adesso?”. Non teme neppure di scadere nel patetico e nello sdolcinato, di virare verso una presunta saggezza strappalacrime. Perché Elie Wiesel è solo un uomo e questa volta deve combattere contro il suo stesso corpo.