“Petite”, una confessione su solitudine e anoressia

2985-Sovra.inddGiulio Gasperini
AOSTA – La storia di Nouk è la storia di una malattia. Ma è anche la storia dell’autrice di “Petite”, edito da Edizioni Piemme Freeway, Geneviève Brisac, che nel testo si cela sotto il nome di Nouk. E, in questo senso, tutto il racconto diventa una confessione disperatamente e spietatamente autobiografica; un tentativo di spiegare sé stessa (e la sua anoressia) agli altri ma anche a sé, perché capirsi è compito paradossalmente difficile e ingrato, estremamente arduo.
Tutto il racconto è leggero, come il volume della protagonista. Si apre subito con una frase perentoria, come fosse un mantra o un salmo, come epitaffio ed epigrafe: “Non avrò mai più fame, mi dissi”. Da lì, da quel volere condotto fino all’estremo (e allo stremo personale), la vita di Nouk cambia. Completamente. Così come cambia la società intorno a lei, la sua famiglia, i suoi rapporti con gli altri, gli orizzonti e le sue diverse prospettive. Sono anni di formazione, sia personale che collettiva, sociale, in una Francia in fermento e in completa rivolta. E anche il corpo di Nouk è in rivolta, contro un desiderio che non vorrebbe assecondare, in uno sforzo di volontà che diventa schiavitù. “Avevo tredici anni e avevo smesso di crescere. Non crescerò più, mi ero detta”. La scrittura, in “Petite” è sempre in sottrazione, scarnificando la frase fino ai componenti basilari, riducendo spesso il trascorrere del tempo a semplici verbi, una scarica di azioni che, da sole, danno una lettura anche psicologica della ragazza. Le remore e il pudore tendono il racconto stesso, lo rendono levigato e cristallino, anche se popolato di ombre che nascondono e celano, che sviano e dissimulano.
Il percorso di Nouk, che ogni tanto dalla terza persona scivola nella prima, chissà quanto intenzionalmente o no, è un percorso di estrema solitudine, di contatti non desiderati né saputi coltivare. Arriva la svolta, ad un certo punto; una svolta che però non è risoluzione né fine termine finale: è semplicemente un leggero cambio di prospettiva. È l’incontro con un libro, “Una giornata di Ivan Denísovič”, e con un passo quasi banale, che descrive una scena persino scontata. Da quel momento qualcosa cambia, in Nouk, nella scrittrice, e comincia un percorso più complesso perché più articolato, teso a salvare almeno le apparenze di una realtà che non era così come si mostrava.
In questo piccolo ma densissimo romanzo di Geneviève Bisac c’è molto: anoressia, silenzio (della famiglia) ma anche impotenza, incredulità, rassegnazione, amore e disamore, cibo e assenza. C’è una malattia, diffusa, che forse non è neanche corretto definirla semplicemente così. La storia di Nouk dimostra come di semplice, in questo campo, non ci sia nulla. In particolare le definizioni che tanto piacciono, perché pare che tutto recintino e concludano.

Un diario e le tante esperienze di vita.

Distruggi questo diarioGiulio Gasperini
AOSTA – Il libro è anche cultura materiale, oggetto che invade e colora spazio, che abbellisce, arreda e affolla le librerie. Questo aspetto è dirompente nel lavoro di Keri Smith, edito in Italia da Corraini Edizioni con il titolo “Distruggi questo diario (dove vuoi)” con il sottotitolo: “Creare è distruggere”.
Il libro è, in effetti, una specie di diario con pagine “interattive”, nelle quali, cioè, non si trovano stampate parole, storie, pensieri dell’autore ma si trovano delle “istruzioni” per poter “utilizzare” il diario nella sua più estrema fisicità. Una serie, cioè, di imperativi per arricchire l’esperienza sensoriale e di vita. “Segna qui i numeri che vedi in giro”, “Strofina un po’ di terra qui”, Spiaccica qualcosa di colorato su questa pagina”, “Mentre aspetti (del cibo, un aereo, un tuo amico), scrivi un elenco di ciò che ved”.
Le pagine, le vere pagine bianche, si devono sporcare, bagnare, bucare, strappare, scrivere e cancellare, per lasciare una traccia, l’esperienza di un’avventura, di un incontro, di una visione. C’è spazio per tutto: per la vegetazione, i fiori, il fango, la neve e la pioggia. Il diario di Keri Smith diventa ricettacolo e recipienti per ogni manifestazione di concreta natura, di traccia sensoriale, di esperienza concreta che si possa fare vivendo la propria vita, come fosse in parte un romanzo, una storia.
“Distruggi questo diario” diventa un diario di bordo, il racconto di una quotidianità che altrimenti cadrebbe dimenticata se non dissimulata. Non è il sacrificio e la brutalizzazione di un libro ma la costruzione anche di una propria identità che parte dal concetto più materiale di letteratura. È un espediente per dare di nuovo valore alla propria esperienza personale, senza dover elemosinare più nulla da quella creata appositamente da altri, e da altri narrata.
“Trova un modo per portare questo libro dappertutto”: è un oggetto che ci dovrebbe seguire, accompagnare in ogni nostro orizzonte, su ogni strada, in ogni cammino che ci troviamo a calpestare ogni giorno, nelle nostre quotidiane migrazioni. Questo diario è una nuova frontiera del libero e della narrativa: una storia che non si ferma nelle pagine, ma che si narra con le prove tangibili della nostra esistenza.

“Ricordarmi di”, tra aforismi e appunti sparsi.

Ricordarmi diGiulio Gasperini
AOSTA – “Ricordarmi di”, di Yves Pagès, edito da L’Orma Editore, è come fosse una raccolta di post-it colorati; una serie di promemoria, di appunti, di anomali aforismi per non dimenticare dettagli importanti, particolari imprescindibili, minuzie che diventano pietre angolari.
Attraverso un incalzante procedimento anaforico, che diventa quasi salmodiante, lo scrittore francese, famosissimo Oltralpe, inanella e squaderna una serie di considerazioni, personali e generali, sul mondo che si organizza e si sviluppa attorno a lui, squadernando un campionario vasto ed eterogeneo: si va da ricordi personali, dell’intimità e della quotidianità dello scrittore (ricordi della nonna e dei genitori) a post di rilevanza sociale, politica e civile. Persino satira, nei suoi scritti, come il post dedicato all’origine rom del cognome Sarkozy. O che riaprono ferite mai sanate della storia francese, come il post sulla Guerra d’Algeria e i campi di concentramento di Reggane, Oued Namous e Aïn M’guel. C’è la polemica religiosa (il post dedicato a San Luigi di ritorno nel 1254 dalla Crociata e all’ordinanza di tingere i capelli rossi delle prostitute) ma anche la polemica ambientalista, come nel post che riguarda la morte atroce delle api a causa dell’utilizzo dei pesticidi in agricoltura. Molti post, ancora, sono dedicati alle migrazioni e ai migranti, mettendo in evidenza, con affondi profondi e senza possibilità d’appello, le mancanze e i peccati di un occidente smemorato. C’è un po’ di tutto, in questo libro (anche se c’è molto – forse troppo, per noi – del mondo e della società francese), come fosse una miscellanea di punti di vista, di considerazioni, sempre però condotti dallo stesso sguardo spietato e severo, che sa individuare i nemici e li sa sbaragliare senza concedere loro nessuna possibilità di difesa né di rifugio. Gli attacchi sono affondi, diretti e consapevoli, talmente repentini da sembrare morsi velenosi di serpente: dopo, rimangono pochi secondi di vita, e pochi passi ancora da fare per poter tentare una fuga.
È una collana di perle, questo libro. Da centellinare e non divorare, da meditare e non fagocitare nello scorrere sfrenato della vita. E proprio qua sta un’importante chiave di lettura: la fruizione è la calma, la lentezza, il lungo respiro. Come antichi testi di proverbi e salmi, di sentenze e motti popolari che nascondono una ricchezza di visione e di valutazione.
Il modello parodiato pare essere quello della nuova comunicazione globale, in particolare dei post di facebook e dei cinguettii di twitter; è lo scrittore stesso, in un post, che però ne fa il verso e ne mette in evidenza la distanza: “Di non dimenticare che nessuno di questi Ricordarmi di rispetta il tetto di 140 caratteri di Twitter, tranne questo”.
Un tesoro, una ricchezza, questi appunti di Yves Pagès. Perché offrono la possibilità, a ogni lettore, di cominciare a considerare quanto importanti siano i dettagli della vita di chiunque; e di quanta letteratura inconsapevole, spesso, possa esserci dietro.

Pino D’Alfonso e “Foresta tacita”: sinergia tra arte e poesia

Foresta tacitaMILANO – Sarà presentato stasera a partire dalle 20:30 presso il Circolo ARCI Fuorirotta Treviglio (Bergamo) “Foresta tacita”, il nuovo libro edito dall’Associazione La Biblioteca dei Libri perduti (nella collana “I Multipli”), che raccoglie i componimenti di Pino D’Alfonso, poeta e artista nato nel 1942 e scomparso nel 2013. Il volume, concepito dallo stesso autore e al quale lavorò nell’ultimo periodo, è stato reso possibile grazie alla famiglia dell’artista e al volere della vedova, Simona Anna Paracchini, custode dell’archivio del poeta.
La poesia di Pino D’Alfonso sorprende per la sua unicità, per la dimensione – anche spaziale – che si conquista sul foglio bianco, seminandolo di parole salmodianti e che consegnano suggestioni e fascinazioni uniche per ogni lettore. Affascinante anche la sinergia tra arte e parola, tipica della poetica di Pino D’Alfonso, che ha consegnato un nuovo significato ai suoi significanti anche tramite un potente vettore immaginifico: “Queste opere, proposte nell’appendice di Foresta tacita e rimaste purtroppo inedite fino a oggi, non costituiscono solo la summa di differenti tradizioni artistiche, ma sono forse l’espressione più potente della poetica di Pino D’Alfonso. Se da un lato, in effetti, esse rimacinano le sperimentazioni avanguardistiche passate, dal collage cubo-futurista ai ready-made duchampiani fino agli assemblaggi di elementi del quotidiano, cari al Nouveau Réalisme, dall’altro esprimono un’intimità quasi devastante” (Silvia Colombo).
Proprio i materiali poetici realizzati negli anni dall’artista, immortalati dal fotografo Paolo Battistella, saranno esposti durante la presentazione al Circolo ARCI, ad accompagnare idealmente questo omaggio a una figura di artista a tratti dimenticato. Il volume “Foresta tacita”, disponibile anche sul sito dell’Associazione, è accompagnato da una prefazione di Silvia Colombo, storica dell’arte contemporanea e fondatrice della rivista Nèura Magazine, e da una nota di Dome Bulfaro. La serata di presentazione prevederà anche un reading di Damiano Grasselli e un poetry slam, a cura della LIPS valido per la qualificazione ai campionati nazionali. ChronicaLibri seguirà per voi l’evento in media partnership.

La scuola è mondo, tra aula e strada.

La scuola è mondoGiulio Gasperini
AOSTA – La scuola, in Italia, è sempre al centro delle più roventi polemiche. La sua riforma, di solito, accompagna l’insediamento di ogni nuovo governo, che sia di centro di destro o di sinistra. Spesso si susseguono senza lungimiranza né programmazione, con il solo scopo di dar l’impressione di star riformando qualcosa. Ma la riforma non è necessariamente collegata a un effettivo miglioramento della condizione di partenza. Spesso, invece, è stato – soprattutto con la scuola – l’esatto contrario. Marco Rossi-Doria, maestro elementare e co-fondatore del progetto Chance, Sottosegretario di Stato all’Istruzione dal 2011 al 2014, ha dialogato con Giulia Tosoni in questa lunga intervista edita dalle Edizioni del Gruppo Abele di Torino nella collana Palafitte: “La scuola è mondo. Conversazioni su strada e istituzioni”.
L’esperienza di Marco Rossi-Doria è un’esperienza avvincente: il progetto Chance, tra gli altri, ha permesso alla scuola di aprire le porte delle aule e di riversarsi nelle difficili realtà di zone d’Italia dove l’abbandono scolastico è ancora una piaga sociale. Una scuola sociale, cha ha i suoi predecessori e modelli in don Milani e Mario Lodi. E proprio una scuola sociale, una scuola che ha un ruolo politico, di costruzione di identità e modelli per consolidare e arricchire la società, è il punto focale e centrale della lunga conversazione tra Rossi-Doria e Tosoni. Le sei sezioni in cui l’intervista è stata suddivisa, toccando aspetti diversi dell’argomento scuola, sono legati tutti dall’idea che “l’educazione è una funzione umana naturale perché universale. Ma hai anche una missione, socialmente fondata”. Perché “la scuola è un luogo sociale, di costruzione sociale e di apprendimento svolto insieme”. E il maestro ne è la guida, ma anche un artigiano che deve affinare pratiche e inventarsene altre, perché il questo “mestiere” ha un carattere creativo.
Secondo Marco Rossi-Doria la scuola dovrebbe abdicare dal quel suo compito, piuttosto sterile e fallimentare, di “trasmettitrice di nozioni”, rendendosi protagonista di un cambiamento che non si difenda dai bambini, dalla loro creatività, dalle loro esigenze e richieste. A cominciare dagli insegnanti, che Rossi-Doria indica come gli attanti principali nel processo di educazione e apprendimento. “Va fortemente scoraggiato – non solo durante la formazione per diventare insegnante, ma anche dopo che si è entrati a scuola – chi si ostina a credere che un gruppo di bambini o ragazzi possa acquisire gli strumenti per leggere e cambiare il mondo perché un signore più grande glieli ha semplicemente ‘spiegati’”. Questo perché l’insegnante, secondo Rossi-Doria, è “immerso in un artigianato emotivo e cognitivo insieme”. La scuola diventa spazio non solo di conoscenza ma anche di incontro e confronto, di crescita e costituzione della cittadinanza attiva: “Creare, migliorare, custodire e manutenere questo contesto, che vede l’azione dei docenti, ma soprattutto l’incursione quotidiana di ogni bambino e dei bambini tutti insieme. È la prima cosa che va mantenuta, stimolata e promossa in ogni scuola della Repubblica”.
L’ideale è ottimo, ma la nostra realtà a che punto è?