Giulio Gasperini
AOSTA – La storia di Nouk è la storia di una malattia. Ma è anche la storia dell’autrice di “Petite”, edito da Edizioni Piemme Freeway, Geneviève Brisac, che nel testo si cela sotto il nome di Nouk. E, in questo senso, tutto il racconto diventa una confessione disperatamente e spietatamente autobiografica; un tentativo di spiegare sé stessa (e la sua anoressia) agli altri ma anche a sé, perché capirsi è compito paradossalmente difficile e ingrato, estremamente arduo.
Tutto il racconto è leggero, come il volume della protagonista. Si apre subito con una frase perentoria, come fosse un mantra o un salmo, come epitaffio ed epigrafe: “Non avrò mai più fame, mi dissi”. Da lì, da quel volere condotto fino all’estremo (e allo stremo personale), la vita di Nouk cambia. Completamente. Così come cambia la società intorno a lei, la sua famiglia, i suoi rapporti con gli altri, gli orizzonti e le sue diverse prospettive. Sono anni di formazione, sia personale che collettiva, sociale, in una Francia in fermento e in completa rivolta. E anche il corpo di Nouk è in rivolta, contro un desiderio che non vorrebbe assecondare, in uno sforzo di volontà che diventa schiavitù. “Avevo tredici anni e avevo smesso di crescere. Non crescerò più, mi ero detta”. La scrittura, in “Petite” è sempre in sottrazione, scarnificando la frase fino ai componenti basilari, riducendo spesso il trascorrere del tempo a semplici verbi, una scarica di azioni che, da sole, danno una lettura anche psicologica della ragazza. Le remore e il pudore tendono il racconto stesso, lo rendono levigato e cristallino, anche se popolato di ombre che nascondono e celano, che sviano e dissimulano.
Il percorso di Nouk, che ogni tanto dalla terza persona scivola nella prima, chissà quanto intenzionalmente o no, è un percorso di estrema solitudine, di contatti non desiderati né saputi coltivare. Arriva la svolta, ad un certo punto; una svolta che però non è risoluzione né fine termine finale: è semplicemente un leggero cambio di prospettiva. È l’incontro con un libro, “Una giornata di Ivan Denísovič”, e con un passo quasi banale, che descrive una scena persino scontata. Da quel momento qualcosa cambia, in Nouk, nella scrittrice, e comincia un percorso più complesso perché più articolato, teso a salvare almeno le apparenze di una realtà che non era così come si mostrava.
In questo piccolo ma densissimo romanzo di Geneviève Bisac c’è molto: anoressia, silenzio (della famiglia) ma anche impotenza, incredulità, rassegnazione, amore e disamore, cibo e assenza. C’è una malattia, diffusa, che forse non è neanche corretto definirla semplicemente così. La storia di Nouk dimostra come di semplice, in questo campo, non ci sia nulla. In particolare le definizioni che tanto piacciono, perché pare che tutto recintino e concludano.
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“Una vita sottile”: convivere con le ombre.
Dalila Sansone
AREZZO – Alcuni abissi sono insondabili, non possono essere presi e incasellati in una qualche categoria. Perché capita, in quei casi che non sono fatti ma vite incrociate, di accorgersi che le categorie siano insufficienti e comportino un prezzo troppo alto da pagare: dimenticarsi ciò che cercano di definire. L’anoressia è una nebulosa oscura senza astri che la trapuntano, nessuna fonte di luce, solo il’ripiegarsi su se stesse di infinite sfumature di nero, dove nero non è colore, nero è il condensarsi di tutto in niente. Chiara Gamberale scrive “La vita sottile” (Marsilio Editore, 1999) un passo oltre il bordo insidioso di quella nebulosa e l’incertezza del movimento si avverte tutta tra le righe.
La vita sottile è diario e racconto, una raccolta di pensieri e frammenti di vita vissuta a metà strada tra lo scritto privato e il testo da condividere. Non è un libro sulla malattia ma neppure il tentativo di ricostruire o definire cosa essa sia stata nel percorso personale dell’autrice. Anche il racconto si veste bene dentro quell’aggettivo “sottile”: tocca, arriva a dire e lasciare intravedere una dimensione che è stata singola e singolare. Chiara racconta un modo di sentire la vita, una percezione di sé in qualche misura fuori dalla propria storia: il corpo, la fisicità come una cassa di risonanza delle emozioni, capace di un’amplificazione assordante, talmente assordante da risultare insopportabile. È questa la ragione che spinge a scegliere una vita sottile che “scivola nei jeans e ti permette di non sentire addosso la loro tela ruvida […] scivola nel mondo e ti permette di non sentire addosso la sua imperfezione”. Il titolo cattura con l’immediatezza di un’istantanea questo dualismo tra la dimensione materiale e l’espressione reale di sé: ridurre alle estreme conseguenze la prima per rendere trasparente l’altra. È un libro che si muove su uno sfondo triste ma che non riesce ad esserlo, di una semplicità disarmante che rende il dolore ombra strappandolo alla malattia. Dalle ombre non è possibile distaccarsi completamente, perché se è vero che la proiezione sul muro cambia in base alle condizioni di illuminazione, ci si può anche giocare avvicinandosi o allontanandosi.
L’anoressia deforma e trasforma ma si riduce a una lotta impari tra il proprio senso di inadeguatezza e il bisogno disperato di vita e nel libro c’è soprattutto vita, nonostante lei, nonostante le sue ombra. L’ultima parola del libro è chiusa tra due punti: una soltanto, come una parentesi con i puntini di sospensione; se ne sta lì a separare un prima da un dopo che non importa conoscere ma che esiste. Le parole quando usate per “significare” bastano senza doverne usare altre per spiegare: Bentornata.