“Soltanto la memoria è bella. Il resto è polvere e vento”

Dalila Sansone
GRAZ – “Nulla potrà riscattarci. Tu saprai cosa fare per serbare il ricordo di quanti meritano di essere salvati dall’oblio. Soltanto la memoria è bella. Il resto è polvere e vento.” Alla fine del libro questa frase suona come un imperativo. Una sorta di obbligo morale a cui ti senti vincolato, tu che tante cose non le sapevi, tu che ti eri fermato distrattamente a pensare che la storia avesse uno spessore diverso da quello del corpo di un uomo e quando l’avevi fatto fisicità e anima, passi per strada non li avevi “sentiti” abbastanza muoversi dietro di te.
“Il club degli incorreggibili ottimisti” di J.M. Guenassia (Salani, 2010) racconta un frammento della Parigi degli anni ’60, sullo sfondo la guerra in Algeria, l’imperversare del rock ‘nd roll, le defezioni da Est, la costruzione di muri invalicabili. Fisicamente, ideologicamente, emotivamente. E’ difficile dare una definizione all’opera di Guenassia: la narrazione si costruisce su più livelli, le vite non si appartengono e forse nemmeno si intrecciano, si incontrano un giorno per strada e si ritrovano a giocare a scacchi al Balto, un bistro. In un pomeriggio distratto potrebbe anche capitare di vederci seduti Kessel e Sastre lì. Insieme. L’unica regola di quello strano club è parlare in francese. Nessuno racconta da dove viene, chi era o cos’era. Se scegli di sopravvivere devi smettere di parlare, reinventare tutto di te e vivere un presente continuo fatto di alcuna altra prospettiva se non la vita e nessuna retrospettiva per non affogarci dentro. La memoria è un fatto privato, una piega interiore che le labbra non scandiscono per paura di ferirsi e ferire. Eccolo il tratto comune tra i membri del club: esistere, esistere adesso e non lasciare spazio a quello che non può farlo più. Al Balto impera la democraticità dell’assurdo, della fredda perfezione con cui si può cancellare l’esistenza, non importa se con la morte o con l’oblio. Solo che i ricordi di cui quelle esistenze sono la somma restano nello stesso modo delle poesie imparate a memoria, rubate ai fogli da bruciare, e vivono anche se in silenzio, rivivono tutte le volte o la volta soltanto in cui vale la pena che lo facciano.
Michel ha dodici anni quando si accorge della tenda verde che copre la porta d’ingresso del club e separa il calcio balilla e gli avventori ai tavoli dagli scacchi; nei quattro anni successivi imparerà che siano le ideologie, le circostanze o le decisioni di chi ci sta intorno, l’unica possibilità di scelta è limitata a cosa fare proprio di ciò che rimane. Non si poteva scegliere quanto sarebbe accaduto e brucia la sensazione che forse nemmeno quello che potrebbe accadere ancora dipenda fino in fondo proprio da noi.
E’ intessuto di umanità questo libro, nonostante qualche piccolo cedimento ai cliché del romanzo, ti sferra colpi allo stomaco improvvisi, netti e rimane capace comunque, sempre, di strapparti un sorriso. D’altra parte è la vita che fa questo gioco, a volte sembra tessere la trama di un lieto fine, altre sa essere spietata e intrisa nell’inspiegabile ma nella sua immediatezza è quella che è, qualunque sia stata e a chiunque sia appartenuta e a Guenassia riesce raccontarla con tocco lieve e la giusta ironia.
Già! Perché proprio “degli incorreggibili ottimisti”? – Michel! Sei vivo, per te tutto è possibile! –

“Ritorno al mondo nuovo” e il bisogno della libertà

Dalila Sansone
GRAZ – “Ritorno al mondo nuovo” è una riflessione sulla società incastrata a metà novecento, un’analisi in prospettiva alla luce di un pericoloso avanzare nelle direzione delle distopie di inizio secolo. Nel 1932 Aldous Huxley aveva scritto una favola futuristica, descritto un mondo in cui gli uomini nascono in provetta e il condizionamento riflesso è pratica educativa; dove l’ordine sociale è garantito dalla cancellazione del bisogno e dell’emozione. Non organizzazione ma trasformazione degli individui in organismo, entità unica in cui l’individualità corrompe e viene spinta all’autonegazione. Fratello maggiore meno noto di “1984” di Orwell, il “Mondo nuovo” appare molto più vicino alla realtà moderna. Tra il suo libro più famoso e questa raccolta di saggi passano il secondo conflitto mondiale, genocidi, eugenetica, propagande più o meno totalitarie, l’affermazione del consumo di massa: anno 1958. L’autore mette in evidenza l’inquietante parallelismo tra le dinamiche osservabili nella società contemporanea e la descrizione del suo mondo fantastico, una deriva apparentemente incontrollabile condizionata dall’eccesso di popolazione e dalla tendenza alla super-organizzazione, nella quale si affermano forze tutt’altro che occulte ma estremamente abili nell’utilizzare le conoscenze che derivano dal progresso della scienza nell’imprimere una qualsivoglia data direzione. Huxley dà prova, come consueto nella sua saggistica, di profonda conoscenza della scienza del tempo, cita esperimenti, studi, risultati e coincidenze tra prove di laboratorio e concretizzazioni storiche. L’effetto è quello di un documentario virato seppia, un passo più in là del bianco e nero ma ancora troppo precoce per la definizione dei colori. Huxley è una di quelle menti che ha visto sempre oltre la contemporaneità, di cui aveva imparato a leggere le sfumature e a prevedere ogni implicazione, soprattutto a coglierne dinamiche sottili, apparentemente innocue ma di ferocia inaudita. I poteri forti non si affermano permanentemente con la coercizione e la brutalità: il potere è assoluto solo quando capace di non farsi riconoscere come tale e mimetizzarsi in ordine naturale. L’individuo non si obbliga si educa.
La chiave di volta, esattamente come in natura, sta nella diversità, condicio sine qua non per l’affermazione della libertà. Libertà che è prima individuale poi collettiva: non esiste resistenza che non passi per il riconoscimento di principio della libertà individuale fondata su diversità e unicità. Ma la libertà deve anche essere conquista e difesa costante, incentrata sulla constatazione dei fatti e l’enunciazione di valori. La difesa dell’umanità dalle derive totalitarie dell’educazione (e del consumo) di massa non può che passare attraverso l’educazione (o contro educazione) individuale alla libertà a cui va riconosciuto il rango di valore supremo.
Non c’è spazio per le impressioni, ottimistiche o pessimistiche, conoscenza ed educazione individuale alla libertà equivalgono alla costruzione di spirito critico, l’unico a cui fare appello per osservare circostanze e fatti e trarne le dovute conseguenze. La storia insegna che la categoria dell’assolutismo di giudizio è fondamentalmente sbagliata ma anche che l’unica forza di opposizione alle derive assolutiste è l’osservazione critica. Chi crede nella libertà come valore supremo non si trincera dietro l’enunciazione di un diritto astratto ma rinnova costantemente le condizioni che ne rendendo effettivo il riconoscimento. Per necessità, per dovere e per istinto di sopravvivenza.

“Le braci”: la verità non risiedere in pochi fatti polverosi.

Dalila Sansone
GRAZ – Esistono scritture potenti: mani che imprimono alle parole sui fogli la plasticità delle emozioni, rendendo vive le passioni, quelle che ardono e mentre bruciano consumano ciò di cui si alimentano, eliminandone la fisicità ma non la forza. “Le braci” di Sándor Márai è esattamente questo, l’equivalente della scultura in letteratura, la tensione che cresce sulla corda di un arco teso fino all’istante prima di scoccare il tiro. È il racconto di una notte: un incontro atteso quarantuno anni, preparato per tutto quel tempo e il compimento di ogni attimo di vita vissuta fino a quel momento. Due amici di una volta che si ritrovano davanti al fuoco di un camino in una notte di fine estate, consapevoli di prendere parte all’ultimo atto di un duello da combattere, ciascuno con la propria esistenza, una resa dei conti che solo la presenza dell’altro rende concreta.
Cresce la narrazione, attraverso i pensieri del generale, dall’arrivo di una lettera alla partenza di Konrad all’alba del giorno successivo. I ricordi ricostruiscono il passato, un passato di fatti la cui consistenza si sgretola lentamente, inesorabilmente, nel rincorrersi di momenti cristallizzati nell’istante esatto in cui si sono compiuti e l’alternarsi di emozioni troppo fragili e inesperte quando sono rimaste ancorate alla mente, fissate per sempre. La sensazione è che siano stati loro, momenti ed emozioni, a vivere nel frattempo e non le esistenze che hanno scandito, modellandosi, acquisendo identità e potenza.
La ricerca della verità che cos’è? Le risposte hanno bisogno della formulazione di domande ma riuscirci, arrivare alla domanda, può richiedere il tempo di una vita e non ha presunzione di compimento. Diviene una sfumatura dell’esistenza che non ammette categorie fisiche, abolisce il tempo e permea l’essere. Le categorie, quelle categorie insufficienti che rispondono allo spazio e al tempo, vengono sostituite da una dimensione che vive una morte inesorabile nel silenzio, nella sua continua e inevitabile tensione verso lo scandire delle parole che la motivano: l’attesa. Attesa della verità, che non può risiedere in pochi fatti polverosi: conoscere i fatti non è abbastanza.
Le braci ardono a differenza delle ceneri. Nelle braci langue la forza delle fiamme che le ha generate. Quello che brucia vive e quando si consuma, prima di spegnersi, è pronto a riaccendersi e ardere d’intensità pari all’incendio di un tempo indefinito precedente. Basta il passaggio di un alito di vento.
Di fronte alle braci che riprendono vigore, consumando le risposte dei fatti che invece diventano cenere, dopo un’attesa durata più a lungo di quegli stessi fatti, non importa più cosa abbia scatenato la passione, da dove sia provenuta la prima scintilla, solo che lo abbia fatto. E la ricerca del senso si scopre il senso stesso.

“The true adventures of Rolling Stones”

Dalila Sansone
GRAZ – Non è una biografia in senso proprio: dietro i vent’anni di Mick Jagger sulla copertina patinata dell’edizione riproposta per i cinquant’ anni della rock band non c’è la storia dei Rolling Stones. Troppo facile. Gli Stones non ci si sono mai del tutto prestati alla categoria del “facile”. Sfuggenti, taglienti, capaci di creare l’aspettativa e risponderle ancora meglio. Stanley Booth invece era un giornalista, scriveva di musica negli anni ’60. Un’idea: scrivere la loro biografia; ed è per questo che li segue nella tournée statunitense del ’69. Gli ci vorranno quindici anni per concludere una delle più graffianti auto confessioni di un’epoca. Le ragioni di una genesi così lunga stanno lì, in fondo al libro, incastonate nella postfazione come una pietra rara: un’analisi retrospettiva talmente lucida da valere tutte le parole, le immagini e le sensazioni che il loro intreccio precedente aveva evocato. A distanza, una distanza che impreziosisce la prospettiva.
Ci vuole tempo a capire le sovrapposizioni della narrazione, il collegamento con l’epigrafe all’inizio di ogni capitolo, le parole della madre del già annegato-in-piscina Brian Jones, i voli da un college all’altro, gli Hell’s Angels, il dente di coguaro che dondola all’orecchio di Keith Richards, nomi, tanti nomi, marijuana, alcool, il ritratto sbiadito di Jagger provato dalla stanchezza e convinto di essere ormai vicino al declino: – Sono otto anni che facciamo questa vita, quanto volete possa ancora durare?!
Si alternano una storia, polverizzata in mille storie, e la cronaca degli ultimi mesi di un periodo destinato a frantumarsi e implodere su se stesso allo scadere dell’appuntamento con il nuovo decennio. Gli Stones una delle metafore possibili. “The true adventures” (1984)si apre e si chiude con Altamon, 6 dicembre 1969. La promessa di una nuova Woodstock, al termine di una tournée folgorante che celebrava il riscatto di quelli che tre anni prima erano stati dati per finiti davanti agli scranni dei tribunali dell’Inghilterra perbenista. Fu l’emblema della fine degli anni ’60. Un declino che trapuntava con fili sottili le contraddizioni, le contestazioni, quel senso illusorio di libertà di espressione che, nonostante la polizia, i poteri forti, il Vietnam, si aveva la presunzione di possedere. Eppure Booth la provava quella nausea; non erano sufficienti le droghe, il ritmo, era lì, tutte le volte che Mick lanciava petali di rosa in chiusura sulle note di “I’m free”. Liberi? Liberi dentro le mura di una palestra? Liberi di suonare per gli studenti in libera uscita? Liberi circondati dagli Hell’s Angels ? Liberi di credersi liberi?
Quell’anno muore Kerouac. Una telefonata. La notizia. L’illusione si spezza e, solo a questo punto, ti accorgi che stai leggendo la STORIA. La fine è macchiata di sangue. Niente sarebbe stato più lo stesso, nemmeno gli Stones. Non guidavano, né erano il simbolo di nessuna protesta: erano giovani della periferia anonima di Londra, come tutti gli altri, come tutti i protagonisti dimenticati e senza nome che hanno fatto degli anni ’60 quello che sono stati fuori dalle analisi ufficiali e dalle cronache; la generazione di passaggio verso una società destinata a rimodellarsi continuamente in realtà che avrebbero, di li a poco, continuato a mutare credo e definizione (o presunti tali) vertiginosamente.
L’orrore collettivo di Altamon fu l’incubo che precede quei risvegli bruschi dalle percezioni dilatate in maniera straniante, fuori dal sogno, distanti dalla realtà. Una terra di nessuno dei sensi e di mancanza di riferimenti per certe coscienze. Booth ebbe bisogno di ridefinire se stesso, gli Stones avrebbero costruito pezzo su pezzo la loro identità, la loro di realtà consacrandola all’immortalità. Eppure nella musica di quegli anni la senti vibrare ancora quell’urgenza vitale di esistere, la rivendicazione di libertà, l’assoluta affermazione si sé stessi attraverso la negazione di adeguamento a qualunque schema precostituito. È lì che affondano le radici della leggenda. La rottura ha in sé le premesse della riorganizzazione dopo l’urto. Si sceglie se riutilizzare i pezzi e di quali fare le colonne portanti della ricostruzione. Non è riuscito a tutti bene. Ai protagonisti di questo racconto nella storia, voce narrante e personaggi principali, invece si. No, non avrebbero mai potuto trovare soddisfazione. Erano di quelli destinati a non provarla mai.

I cento anni del “Pigmalione”

Dalila Sansone
GRAZ – “Piantala di fare l’idiota (…), se non sei in grado di apprezzare quello che hai ottenuto allora vedi di procurarti quello che sai apprezzare”. A volte in un giorno di pioggia vorrei muovermi dentro il tempo, aprire gli occhi e trovarmi di fronte Covent Garden, Londra, un centinaio di anni fa. Lì dove Eliza Doolittle ha incontrato la prima volta Henry Higgins. Inizia così “Pigmalione” di Bernard Shaw: la pioggia, persone che si riparano dietro le colonne di un portico, una misteriosa figura che prende appunti su un taccuino. Cento anni dalla prima pubblicazione: l’assoluta certezza che Shaw abbia scritto un testo senza tempo. Fuori dall’ambientazione, oltre la narrazione della storia della fioraia con il suo cockney dei bassifondi e dell’erudito professore di fonetica Mr Higgins, sono il modellarsi del rapporto, la mutevolezza delle forme e la potenza dei legami che prendono forma. Sarebbe facile cadere in errore e farne una riduzione sentimentale. La finezza di Shaw sta nel non cedere alla banalità. Perché i casi della vita raramente rispondono a tale definizione e se lo fanno sono destinati a non inciderla. Mai.
Eliza si presenta all’uomo che l’aveva terrorizzata la sera prima, ripetendo esattamente ogni suono uscito dalla sua bocca: vuole che le insegni un corretto inglese. L’unico modo per vincere i pregiudizi, lavorare in un negozio di fiori e smettere di farlo per strada. Il primo scontro titanico. La mediazione del colonnello Pickering lo trasforma in una scommessa: sei mesi per riuscire a far passare Eliza per una duchessa. Un tempo in cui lei si scopre nelle cose che apprende e che diventano sue. Non cambia, riordina un essere se stessa senza bisogno di definizioni e inconsapevole, con la naturalezza delle cose non cercate che si delineano più velocemente di quanto le si possa cogliere, si crea il legame. Ed è quel legame a rivelarsi prepotentemente nel riaccendersi dell’istinto, quando la scommessa è vinta e Higgins è solo sollevato di non dover continuare con un affare così noioso mentre Eliza non sa più chi è. Lui non si accorge nemmeno di lei, troppo occupato a chiedersi dove siano le sue ciabatte. Lei decide esattamente in quell’istante chi è e gliele lancia contro, quelle ciabatte, prima di andarsene e non tornare. Non tornare più come prima, né quella di prima. La consapevolezza di sé ha il suo prezzo. L’indipendenza emotiva anche ma richiede uno strappo per essere capita. Per capire che è li dentro che sta un’identità che, invece, non avevi mai del tutto compreso.
Higgins potrebbe nascondersi nel passato di chiunque, tutti potremmo essere stati delle fioraie con i confini del mondo chiusi dentro un cesto di viole e un terribile accento da strapparsi di dosso per seguire un qualche destino. La scoperta di sé, il valore consapevole della dignità che si trascina dietro, scavano un angolo intoccabile e lasciano un segno indelebile sulla pelle. Si tratta di occasioni che possono capitare, oppure no e le conseguenze non gli dipendono necessariamente: la svolta non appartiene a nessun altro se non a chi decide di compierla. Ma restano anche i segni, quelli invisibili agli sguardi. Quelli che ricordano l’attimo esatto in cui qualcosa è cambiato. Il perimetro sottile del punto di non ritorno, quando non c’è stato nessuno a dirti chi eri e dove saresti andato.
C’è un alone di malinconia, non di tristezza, nei brividi dietro il calare improvviso di un’ombra che capita si allunghi nell’animo di un’umile fioraia ma non tocca mai quello del suo pigmalione. Potrebbe succedere di domandarsi tutta la vita se a lui, invece, sia rimasto non un segno, anche solo un graffio di lei, lasciato nell’urto con quell’occasione.
Il senso comune si infrange contro i vetri opachi che separano le emozioni da tutto il resto. Lasciano appena intravedere e proteggono quello che ci appartiene dal tentativo di volerlo spiegare: ciò che veramente ci appartiene non ha bisogno di essere compreso, non ha nulla da pretendere se non l’essere lasciato intatto.
Henry Higgins ha fatto di Eliza Doolittle una donna. Lui lo sa. E la risposta alla domanda quella donna la conosce dall’alto della sua dignità e di quella inspiegabile commistione di riconoscenza e di affetto che non si sceglie, si può solo provare. Nonostante tutto.

Crisi, spread e welfare nel Vecchio Continente.

Dalila Sansone
GRAZ – Uno dei tratti distintivi delle crisi, crisi come definizione generale, è l’estrema confusione. Quella economica, quella finanziaria con tutto il loro corteggio di effetti-declinazioni non fanno eccezioni. Confusione perché l’effetto crisi è un po’ effetto valanga: travolge, ti travolge e quando stai nel mezzo non distingui più niente e se provi a mettere a fuoco un obiettivo tutto quello che sta nella mischia contribuisce a diluire la comprensione. “Non ci possiamo più permettere uno stato sociale. FALSO!” di Federico Rampini per Laterza è un bell’esempio di come in mezzo a tanta confusione si possa provare a fare chiarezza. Per punti, tesi e antitesi in maniera semplice. Rampini parla di stato sociale (welfare per chi lo preferisce), lo fa da corrispondente a New York e con un passato da residente in Cina, con un minimo di cognizione di causa del fatto che stato sociale non è ente astratto ma riflesso concreto sul quotidiano e l’effetto di quel riflesso cambia, e molto, a seconda di come lo si intenda o lo si neghi. Certo se si parla di stato sociale si parla anche di economia, di finanza, si parla delle presidenziali degli Stati Uniti in cui il modello europeo è stato messo sul piatto come esanime, concausa del fallimento. Ma appunto le approssimazioni e le generalizzazioni non sortiscono mai grandi risultati e prima di condannare a morte un imputato, meglio valutarne la presunzione di innocenza. Rampini in sei brevi e efficacissimi capitoli mette a confronto il modello americano e quello europeo, analizza le differenze interne allo stato sociale europeo lungi da potersi interpretare sintesi di un caleidoscopio di realtà profondamente diverse. Lo fa fuori dai tecnicismi e ci spiega perché il debito serve in maniera comprensibile a chi non mastica pane e economia, perché le politiche di austerità siano una contraddizione di termini e, proprio in Europa, chi se ne fa portavoce si fondi su uno stato sociale forte e consolidato. Cerca le radici culturali delle discrasie di un Europa che forse in qualcosa ha tradito ma che è stata anche tradita. Tradita da chi si è trovato tra le mani il risultato ancora in divenire di un progetto ambizioso voluto da gente, popoli e governanti, che usciva dal disastro del secondo conflitto mondiale e intendeva opporre la costruzione alla disgregazione dei particolarismi.
Tra una Germania che incarna il modello sociale europeo e si è dimostrata storicamente incapace di esportarlo e l’Italia, la grande malata dell’euro, si sta giocando un rapporto di forza il cui vero senso gli avvoltoi dello spread contribuiscono ad allontanare dalla percezione della gente comune, quella che poi ne paga le conseguenze. Ed è proprio la gente comune che necessita di chiarezza e consapevolezza e non di notizie sulle continue variazioni di differenziale, è una questione culturale, d’identità democratica, di riconoscimento dell’identità democratica dei popoli che si governano. D’altra parte crisi è etimologicamente scelta, questa crisi può essere opportunità di scelta: “La storia non è una gabbia. Il mondo è pieno di nazioni che hanno saputo ‘svoltare’, hanno reagito a decenni o perfino secoli di un declino che sembra irreversibile: dalla Cina all’india al Brasile, abbiamo formidabili esempi di popoli che hanno sconfitto la forze di inerzia, hanno saputo imprimere un corso diverso alla loro storia. A noi l’opzione, a noi decidere quale modello considerare il nostro. È molto più di una scelta politica, è una scelta di civiltà.”

“Che cosa ti aspettavi?”

Dalila Sansone
GRAZ – È la domanda che Stoner scandisce ripetutamente alla fine del romanzo, la domanda che sa non appartenergli per sé stesso o per la sua storia bensì perché arrivato al momento di confrontarsi con la vera consapevolezza. “Stoner” di John Williams è un libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1965 e edito in lingua italiana da Fazi editore solo quest’anno. È un crescendo eccellente che annaspa nella parte iniziale, languendo in una grigia monotonia, quasi che la vita riflettesse il colore degli occhi di Stoner, dove l’emozione è relegata a un balenare improvviso quanto effimero, un fulmine la cui rapidità fa dubitare persino della sua esistenza. Ma poi accade qualcosa, accadono tanti qualcosa, e il sentore di fallimento, mai pronunciato, mai paventato, si dilegua e dalle scale di grigio emergono i colori, emerge la luce che accompagna espressioni piene dell’esistenza di uno zelante professore della Columbia University.
Ma non esistono i lieto fine, non esistono le morali da favole riduttive perché la realtà è molto più complessa e anche la felicità sa che prima o poi la sua consacrazione passa per l’abdicazione. E così la luce torna a scivolare in quei toni di grigio che non sono metaforici ma vere descrizioni di ambienti e colori; compare il senso di vuoto nello spegnersi della passione, di qualunque passione, che ha la conseguenza devastante di vanificare tutto anche ciò a cui non è apparentemente collegata. Poi ritorna il quotidiano, ritornano i ruoli e accade anche che l’amarezza scuota e sia la spinta a opporsi a un certo fluire della vita che appare inutile ma i risultati “sono solo vittorie ottenute con la noia e l’indifferenza” e non cambiano niente.
Forse nessun dettaglio è davvero rilevante e a quelli che abbiamo ritenuto tali, e ai quali si è stati costretti a rinunciare, la attribuiamo noi l’irrilevanza nel tentativo di farne la radice del distacco prima dall’emozione, poi dalla memoria. È un modo di inscenare l’esistenza, portare avanti il teatro della propria vicenda personale, guardando avanti e evitando di voltarsi indietro nella convinzione imposta che non ci sia niente da ritrovarci. Tutto questo fino a quando proprio dall’osservazione di un dettaglio, al termine di una vita trascorsa dagli anni venti al secondo dopoguerra inoltrato, è l’analisi di una presunzione di fallimento (questa volta evocato) che spinge a farsi quella domanda – Cosa ti aspettavi? –. La risposta sta nella consapevolezza del peso dell’accumularsi di quei dettagli. “La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso e sapeva cosa era stato.”
Il merito di Williams e di aver descritto un’esistenza anonima (potentissima la frase breve, concisa, che segnando un passaggio della storia di Stoner finisce col descriverne profondamente l’animo: “Imparò il silenzio e mise da parte il suo amore”) lasciandola sempre tale con una prosa assolutamente lontana dall’esistenzialismo fine a sé stesso. La lingua racconta in maniera semplice, un semplice che sa di naturale, a volte quasi di inevitabile, divagando solo nello spazio lasciato all’erudizione a sottolineare la distanza tra l’esistere, la vita vissuta di un uomo, e i tentativi di volerla forzatamente ricondurre a delle categorie. Tentativi che non ne esauriranno mai comunque la comprensione e che troppo spesso finiscono per distogliere l’attenzione dall’aspetto più dirompente di quelle vite vissute: l’unicità.

LSD e l’ultimo appunto di Huxley

Dalila Sansone
GRAZ – La lettura di Albert Hofmann è una breccia nell’idea delle prospettive, dei punti di vista. La catalogazione retro-copertina recita: “Scaffale: PSICHIATRIA – DROGHE E DIPENDENZE”. Ma “LSD, il mio bambino difficile”, pubblicato la prima volta nel 1979, può stare a suo agio tra i libri di storia della letteratura.
Albert Hofmann nel 1938 lavora nei laboratori Sandoz alle molecole estraibili dall’ergot, parassita della segale cornuta; sta cercando di isolarne i principi attivi con proprietà ecboliche e analettiche. Analizza, sintetizza, classifica. Cinque anni dopo riprende uno dei composti isolati, la dietilamide dell’acido lisergico, numero di catalogazione 25, LSD – 25. È un venerdì pomeriggio; torna a casa in bicicletta ed è ¬durante quel viaggio che nasce il suo bambino difficile. Ecco le prospettive: nel 1943 l’LSD è solo un composto indolico derivato dall’acido lisergico, una formula di struttura delle tante di cui si cerca di comprendere il potenziale terapeutico e che rivela proprietà psicoattive. Trent’anni dopo (1967) l’LSD diventa nemico della società per bene e il governo degli Stati Uniti lo mette addirittura al bando. Il racconto di Hofmann inizia dalla sintesi in laboratorio e spazia fino alle sue, personali, considerazioni finali, più o meno condivisibili con derive nel misticismo, e del ruolo delle droghe sacre nella storia dell’umanità, passando per l’incontro con gente più o meno comune, per la conoscenza di Timothy Leary, per il carteggio con Jünger e la morte di Huxley. Il suo racconto è un esempio della molteplicità di prospettive con cui si può decidere di osservare la realtà. Esiste la scienza, la materia che è oggettiva e non è di per sé suscettibile di giudizio; può esserlo cosa ne deriva, quello che chi la manipola decide di farne ma anche cosa scaturisce dall’uso della materia finisce con l’assumere una molteplicità di interpretazioni prospettiche. Emblematico che il filo del ragionamento si basi sulla storia di una sostanza che agisce direttamente sulla percezione, sull’alterazione del rapporto ricevente – trasmettitore, uomo – natura o, più complessivamente, con la realtà.
L’effetto psicoattivo dell’LSD non è una novità (eccetto per l’efficacia di dosaggi bassissimi), derivabile da tanti altri composti presenti in natura, forse già inconsapevolmente conosciuto nell’antichità classica nelle celebrazioni dei Misteri Eleusini. Quindi dove stanno le ragioni del suo “successo”? Qui Hofmann si interroga cercando radici profonde, domandandosi se l’evasione nella sinestesia della percezione (si, tutto sommato perché non considerare quello che banalmente viene chiamato trip da acido sinestesia della percezione?) non abbia un senso più ampio individuabile nell’esigenza del superamento del conflitto che vive l’uomo dominatore della natura verso la natura stessa e rispetto alla quale la condizione di dominio (avvertita effimera e infondo solo illusoria) lo rende partecipe ma estraneo. Nell’antichità e nelle culture definite primitive l’uso di erbe e sostanze psicoattive era appannaggio di pochi eletti, aveva valore sacro ed era considerato il tramite tra la divinità e chi tra gli uomini la divinità delegava. La divinità era quasi sempre rappresentazione delle forze naturali o ragione delle emozioni umane. Negli anni ’60 LSD, mescalina, psilocibina e psilocina diventano insieme ad altre categorie di sostanze simbolo di contestazione. Ma contestazione fino a che punto? Non si trattava piuttosto di un mancato riconoscimento in un sistema, dell’urgenza di frattura da qualcosa di cui si è parte ma di cui non ci si sente parte? Ma anche l’idea di una consapevolezza reale è un falso mito che si dissolve nella singolarità delle esperienze, spesso nell’assenza di coscienza che abdica al desiderio di appartenenza o semplicemente alla curiosità.
E poi cos’è quella soluzione di continuità tra la materia, lo spazio fisico in cui essa agisce e la percezione, l’azione mentale? I dubbi di un padre sugli effetti dell’azione di un figlio con tante ombre sulla psiche. È possibile che la materia agisca sulla mente? Se è possibile deve esistere un meccanismo indagabile e quella linea d’ombra ha la potenza indiscussa della fascinazione ma anche dell’orrore. Così scopriamo i primi passi dell’Lsd in psicoterapia (le teorie terapeutiche della psicolisi e della psichedelia), uno Jünger affascinato dall’alterazione delle forme e dei colori, dal simbolismo e la visione estetica dell’alterazione psichica sotto effetto di LSD e un Huxley attento alle implicazioni individuali e collettive ma anche uomo che, consumato dalla malattia, sceglie queste come ultime parole da scrivere: “LSD – provalo intramuscolare 100mg”.