Dalila Sansone
GRAZ – La lettura di Albert Hofmann è una breccia nell’idea delle prospettive, dei punti di vista. La catalogazione retro-copertina recita: “Scaffale: PSICHIATRIA – DROGHE E DIPENDENZE”. Ma “LSD, il mio bambino difficile”, pubblicato la prima volta nel 1979, può stare a suo agio tra i libri di storia della letteratura.
Albert Hofmann nel 1938 lavora nei laboratori Sandoz alle molecole estraibili dall’ergot, parassita della segale cornuta; sta cercando di isolarne i principi attivi con proprietà ecboliche e analettiche. Analizza, sintetizza, classifica. Cinque anni dopo riprende uno dei composti isolati, la dietilamide dell’acido lisergico, numero di catalogazione 25, LSD – 25. È un venerdì pomeriggio; torna a casa in bicicletta ed è ¬durante quel viaggio che nasce il suo bambino difficile. Ecco le prospettive: nel 1943 l’LSD è solo un composto indolico derivato dall’acido lisergico, una formula di struttura delle tante di cui si cerca di comprendere il potenziale terapeutico e che rivela proprietà psicoattive. Trent’anni dopo (1967) l’LSD diventa nemico della società per bene e il governo degli Stati Uniti lo mette addirittura al bando. Il racconto di Hofmann inizia dalla sintesi in laboratorio e spazia fino alle sue, personali, considerazioni finali, più o meno condivisibili con derive nel misticismo, e del ruolo delle droghe sacre nella storia dell’umanità, passando per l’incontro con gente più o meno comune, per la conoscenza di Timothy Leary, per il carteggio con Jünger e la morte di Huxley. Il suo racconto è un esempio della molteplicità di prospettive con cui si può decidere di osservare la realtà. Esiste la scienza, la materia che è oggettiva e non è di per sé suscettibile di giudizio; può esserlo cosa ne deriva, quello che chi la manipola decide di farne ma anche cosa scaturisce dall’uso della materia finisce con l’assumere una molteplicità di interpretazioni prospettiche. Emblematico che il filo del ragionamento si basi sulla storia di una sostanza che agisce direttamente sulla percezione, sull’alterazione del rapporto ricevente – trasmettitore, uomo – natura o, più complessivamente, con la realtà.
L’effetto psicoattivo dell’LSD non è una novità (eccetto per l’efficacia di dosaggi bassissimi), derivabile da tanti altri composti presenti in natura, forse già inconsapevolmente conosciuto nell’antichità classica nelle celebrazioni dei Misteri Eleusini. Quindi dove stanno le ragioni del suo “successo”? Qui Hofmann si interroga cercando radici profonde, domandandosi se l’evasione nella sinestesia della percezione (si, tutto sommato perché non considerare quello che banalmente viene chiamato trip da acido sinestesia della percezione?) non abbia un senso più ampio individuabile nell’esigenza del superamento del conflitto che vive l’uomo dominatore della natura verso la natura stessa e rispetto alla quale la condizione di dominio (avvertita effimera e infondo solo illusoria) lo rende partecipe ma estraneo. Nell’antichità e nelle culture definite primitive l’uso di erbe e sostanze psicoattive era appannaggio di pochi eletti, aveva valore sacro ed era considerato il tramite tra la divinità e chi tra gli uomini la divinità delegava. La divinità era quasi sempre rappresentazione delle forze naturali o ragione delle emozioni umane. Negli anni ’60 LSD, mescalina, psilocibina e psilocina diventano insieme ad altre categorie di sostanze simbolo di contestazione. Ma contestazione fino a che punto? Non si trattava piuttosto di un mancato riconoscimento in un sistema, dell’urgenza di frattura da qualcosa di cui si è parte ma di cui non ci si sente parte? Ma anche l’idea di una consapevolezza reale è un falso mito che si dissolve nella singolarità delle esperienze, spesso nell’assenza di coscienza che abdica al desiderio di appartenenza o semplicemente alla curiosità.
E poi cos’è quella soluzione di continuità tra la materia, lo spazio fisico in cui essa agisce e la percezione, l’azione mentale? I dubbi di un padre sugli effetti dell’azione di un figlio con tante ombre sulla psiche. È possibile che la materia agisca sulla mente? Se è possibile deve esistere un meccanismo indagabile e quella linea d’ombra ha la potenza indiscussa della fascinazione ma anche dell’orrore. Così scopriamo i primi passi dell’Lsd in psicoterapia (le teorie terapeutiche della psicolisi e della psichedelia), uno Jünger affascinato dall’alterazione delle forme e dei colori, dal simbolismo e la visione estetica dell’alterazione psichica sotto effetto di LSD e un Huxley attento alle implicazioni individuali e collettive ma anche uomo che, consumato dalla malattia, sceglie queste come ultime parole da scrivere: “LSD – provalo intramuscolare 100mg”.
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“Il gelo dentro” e la fatica di lottare col tempo per ricostruire sé stessi
Giulio Gasperini
ROMA – Lucide e spietate sono le lettere di Natalia Berla (“Il gelo dentro”, Archinto 1991), ragazza estranea alla letteratura ma che con la sua esperienza ci dimostra come le parole, quando potenti, trovano sempre la capacità di diventare arte. E la vita, per l’arte, è sempre la fonte più genuina, la più fresca e inesauribile, la più sorprendente e incalzante. Natalia non ebbe l’intenzione di scrivere per esser ricordata; lei cominciò a scrivere per salvarsi. O meglio, per accompagnare e sostenere il suo cammino di rinascita. Sicché la scrittura è rozza, spontanea, a tratti naif, addirittura in certi momenti troppo infantile per una ragazza della sua età. Ma è genuina, trasparente; non conosce orpelli né ricatti. È fresca perché Natalia stessa si presentò così, scrivendo con naturalezza ai suoi familiari e amici – lontano il sospetto di poter essere, un giorno, pubblicata e fatta conoscere al mondo intero. Natalia alimenta, nelle lettere, la propria interiorità più segreta e intima, e si comunica senza remore né limiti, non si vergogna né si limita, ma squaderna sé stessa con tutta la potenza di cui è capace e con tutta l’immediatezza che la sua lingua scarna e ispirata le concede. Come se stesse “pensando ad alta voce”, o “chiacchierando in un pomeriggio di luglio”.
Le lettere ci comunicano tutta la sua gioia dell’aver ritrovato una nuova rotta; riscopre la “quiete” alla quale così tanto, inconsciamente, anelava. Il soggiorno a San Patrignano le pare “una piacevole ‘infanzia’ come quando sei in vacanza con tutti gli amici”. La vive come un’opportunità per non stancarsi di sé, per darsi un’opportunità che gli altri le hanno già negato. Si scopre soddisfatta nell’ingrassare, nel lavorare in biblioteca, nell’insegnare ai bambini, nel poter mettere a frutto la sua conoscenza delle lingue, che una madre distratta e incostante nell’affetto le impose di imparare. Si sorprende, Natalia, a meravigliarsi delle piccole cose, dei delicati dettagli di una tiepida giornata, di una luce a sera indora il mondo, come solo in Italia può succedere. Si carica di ottimismo, di voglia di fare, di passione del lavoro: tutti atteggiamenti che, nella sua vita precedente, quella dominata dalla “piaga” dell’eroina, lei aveva ignorato di poter avere.
Ma allora perché non bastò? È questa la domanda estrema, alla quale non riusciamo a rispondere, alla fine dell’epistolario. Ci rimane l’ovvio sospetto che non fosse così celeste, il suo orizzonte; e che non fosse mai riuscita a dissipare definitivamente le nuvole che le adombravano il sole. Alla madre si firmava “tua figlia che spera”. Ma ben presto anche San Patrignano diventa una prova difficile, sofferta, per una donna che ha paura di non guarire mai, dal “carattere votato alla tristezza”, e che non ha più tempo “di guardare le colombe sui tetti”, come faceva mesi prima. Scrisse che San Patrignano le aveva dato “nuove ali”. Ma non le bastarono; e l’ultimo volo fu breve.