VerbErrando: Waiting for good

Veruska Armonioso
ROMA – “Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende.”
Settant’anni fa, il grande scrittore ungherese Sándor Márai metteva al mondo Le Braci e raccontava l’oblio dell’attesa, scandendone con superba incandescenza tutte le fasi, tutte le conseguenze…le conseguenze. Perché quando si attende si è soli, da soli “… nella solitudine si impara a comprende ogni cosa, e non si ha più paura di niente”. Sándor Márai sapeva bene cosa volesse dire essere soli e attendere, perché lui era passato dai lustri di un successo e di una fama meritata, ai bui dei margini nei quali i cataclismi politici lo avevano confinato. Per lui attendere era la risposta. Aveva la fiducia completa nel’attesa che avrebbe portato qualcosa, avrebbe dato indietro qualcosa. A lui diede indietro domande…domande capitali come “Chi sei?… Cosa volevi veramente?”. Márai, attraverso la voce eterea di Krisztina, diceva:
“Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza. Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende. Alla fine, alle fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza.” Attesa come esercizio di pazienza, di fede, non di tattica di difesa come ci suggerisci Sun Tzu ne “L’arte della guerra”. Fiducia verso l’arrivo di qualcosa, di qualcuno. Di qualcuno che cambierà il corso della nostra vita, dei nostri destini.
Qualcuno che farà pur qualcosa, qualsiasi cosa, a patto che porti dei cambiamenti, come per Kavafis, ad esempio, erano i barbari:

“ – Cosa aspettiamo riuniti in piazza?

Oggi devono arrivare i barbari.
– Perché tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non legiferano?
Perché oggi arrivano i barbari.
Che leggi hanno ormai da fare i senatori?

Quando verranno i barbari le faranno loro
[…]


– Perché tutto a un tratto questa apprensione, tutta questa agitazione?

(Come si sono fatte serie le facce.)
Perché si svuotano rapidamente le strade e le piazze

e tutti se ne tornano a casa pensierosi?
Perché si è fatta notte e i barbari non sono comparsi.

Anzi, qualcosa è venuto dai confini
e ha detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso cosa sarà di noi senza i barbari?

Quella gente, dopotutto, era un soluzione.”
L’attesa, la vita. L’attesa, la solitudine. La vita, la solitudine… La solitudine. Sentirsi soli. Essere soli. In solitudine ci si conosce, ma riconoscersi è un’altra cosa. Ci si riconosce solo da fuori, fuori dal proprio cerchio.
Kafka diceva che ci sono due regole per cominciare a vivere “… restringere il tuo cerchio sempre più e controllare continuamente se tu stesso non ti trovi nascosto da qualche parte al di fuori del tuo cerchio”. Ci richiamava alla solitudine e, nel farlo, usava la confortante immagine di una geometria che contenga, senza spigoli contro cui sbattere. Gli spigoli, gli angoli, sono loro che ci distraggono. La curiosità di andare a vedere cosa nascondono, ci spinge, crudelmente, a non prestare attenzione a quello che, invece, c’è di qua, davanti, dalla nostra parte, e ci spinge a perderci…certo, perdersi è perfetto se ci si conosce… se ci si
conosce, uscire dal cerchio è un bel gioco e rientraci è uno scherzo. Ma se non ci si conosce? Che cosa si fa se si esce dal cerchio senza conoscersi?
Kafka sapeva bene dell’esistenza di questo rischio e scelse il cerchio. La confortante rassicurazione di una geometria facile e comoda per tutti.
Ma la solitudine, che cos’è? E’ una sedia vuota accanto alla tua o una casa con una sola sedia? Riflettevo in questi giorni sul tempo e la solitudine. Sul sentirsi soli e l’essere soli.
Su come questi due diversi stati d’animo influenzino il tempo che viviamo per esperienze, scelte, reazioni, azioni. Su come questi due diversi stati d’animo influenzino, appunto, l’attesa.
Allora ho pensato a Beckett, a come abbia stravolto il binomio attesa-solitudine e a come lo abbia svuotato, e, nello svuotarlo, lo abbia riempito.

“ Estragone: mi domando se non sarebbe stato meglio restare soli, ciascuno per conto suo. eravamo fatti per seguire la stessa strada.
Vladimiro (senza offendersi): Non è sicuro.
Estragone: No, non c’è niente di sicuro.
Vladimiro: Possiamo sempre lasciarci, se credi.
Estragone: Ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Vladimiro: E’ vero, ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Estragone: Allora andiamo?
Vladimiro: Andiamo.
Non si muovono.”

Per Beckett la solitudine è in due, due che sono uno, perché nell’attesa si può non essere da soli ma si è comunque soli… come nell’attesa di una risposta, di un esito, di un arrivo… come nell’attesa della morte…un’attesa vuota, un’attesa stanca, un’attesa senza la fede cieca di Penelope, o senza la speranza di Borgna… un’attesa del niente. Un niente.
Esistono, però, altre attese. Sono quelle che ho scelto di vedere. Sono le attese che si vivono con il sorriso, quelle che si trascorrono con una trepidazione bambina, che ti ricorda quando aspettavi il Natale per scartare i regali. L’attesa per un nuovo incontro, l’attesa per una nascita, l’attesa per una nuova stagione… l’attesa per raggiungere un desiderio ed esaudirlo.
Che l’attesa di questo 25 aprile, amici, ci ricordi il sapore delle attese belle e ci faccia venire voglia di provarne ancora; che questa attesa sia liberazione e, nel renderci liberi, ci faccia sempre essere presenti a noi stessi e ci ricordi che la libertà è un dono per metà, per l’altra metà è una meta da raggiungere.
Che la libertà sia uno status in divenire e non un punto d’arrivo.
E che le nostre attese siano, comunque, una soluzione e ci portino verso un qualche dove!

 

Costantino Favafis, Aspettando i barbari, Passigli 2005

Franz Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, 2004

Samuel Beckett, Aspettando Godot, Einaudi 1956
Eugenio Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli 2005
25 aprile giornata della liberazione d’Italia

VerbErrando:Trentatré

Veruska Armonioso
MILANO
– A Milano piove. Dicono che andrà avanti ancora per dieci giorni. L’ho trovata così quando sono arrivata venerdì scorso… alle otto e cinquanta del mattino la Stazione Centrale era una sfinge bagnata, silenziosa e addormentata… come me, che avevo lasciato Roma con il treno delle sei, dopo un sonno piccolo, figlio di una serata senza fondo con vecchie birre e un amico nuovo.

Da quando il lavoro mi porta a Milano il treno è diventato uno dei miei nonluoghi preferiti… cerco di prenotare sempre la stessa seduta, anche se in carrozze diverse, così da mantenere un senso di familiarità che renda il mio nonluogo ospitale… all’occorrenza un letto, spesso un ufficio, a volte (quelle più fortunate) un salotto; comunque un osservatorio. Proprio sul treno penso di aver capito che non sarò mai una grande scrittrice… l’ho capito leggendo un’intervista a Céline…quando chiedi a uno scrittore cosa ami di più tra la conoscenza e l’immaginazione non ti risponde mai la conoscenza, invece io ho sempre preferito indagare piuttosto che inventare, chiedere piuttosto che supporre…eh sì, c’era un tempo in cui, per me, chiedere era tutto… eppure smisi. Forse perché cominciai ad avere paura di non ricevere risposte, o forse perché cominciai a temere le riposte. Smisi di fare domande e così la mia carrozza di conoscenza, indagine, tracce, perse di resistenza fino a diventare un polveroso e pericolante carretto pieno di strumenti in disuso… magari è proprio da lì che proviene la mia passione per gli utensili antichi, abbandonati…è una passione che ho scoperto condividere con Paolo. L’ho scoperto sabato scorso alla cappelleria Mutinelli, durante una delle nostra passeggiate del sabato mattina. Da qualche tempo passeggiare di sabato mattina con Paolo per Milano è diventato un allenamento intellettuale. Insieme a lui c’è un gruppo di persone che si riuniscono e condividono conoscenza… letteratura che sedimenta nell’asfalto, negli anfratti delle rotaie del tram, sui muri dei palazzi, nelle pieghe della memoria di Milano. Si chiamano “Passeggiate d’autore” e ogni settimana incontri uno scrittore diverso, un libro diverso, un quartiere diverso e con loro un mondo nascosto, silente. E allora succede come sabato appena passato in cui Paolo (Melissi) ti guida per Porta Venezia e, senza dover chiedere, lui ti racconta cose.. .cose che vorresti proprio sapere… con lui le “donne di carta”, donne che non recitano ma ‘dicono a memoria’ estratti dai libri a cui le passeggiate sono ispirate. Costeggiando i confini immaginari di quello che un tempo era il Lazzaretto finisci, così, per incontrare la chiesa Di San Nicola. E’ la vigilia di Pasqua per la Chiesa Ortodossa e questo prevede un rito chiamato “miracolo della luce”. La tradizione vuole che, nel buio prima della mezzanotte, il vescovo accenda trentatré candele da portare in processione per le vie della città e che, per i primi trentatré minuti, il fuoco di quelle candele non bruci ciò con cui entra in contatto. Trentatré minuti di grazia, di trentatré candele di luce senza calore, di fiamma senza pericolo. Trentatré minuti in cui si potrebbe ancora correre il rischio di chiedere…per trentatré minuti almeno. Ho sempre saputo di aver perso dei passaggi chiave nella costruzione della mia coscienza emozionale. Mi domandavo cosa ne sarebbe stato di me se avessi saputo fin da subito come si fa … come si fa a riconoscere un’emozione, attribuendole il giusto nome, individuandone i tratti distintivi, senza errori, senza confonderla con altro…e poi come si fa a prenderla in mano quell’emozione e a tenerla senza farla cadere o, peggio, mandarla via. Infine, come si fa ad affrontarla…viverla insomma…o, se non altro, camminarci accanto restando vivi.

Ero cresciuta poggiando i piedi su un basamento solido che diceva così:

“Alcuni vanno alla ricerca di luoghi in cui ritirarsi, in campagna, al mare o sui monti, e anche tu hai l’abitudine di desiderare ardentemente tutto questo. Però è quanto mai sciocco, dato che puoi, in qualunque momento tu voglia, ritirarti in te stesso. Perché in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; soprattutto se si hanno dentro di sé i princìpi tali che, al solo contemplarli, si acquista una perfetta serenità. E per serenità non intendo altro che ordine interiore.” Marco Aurelio me lo aveva insegnato quando avevo tredici anni e io avevo cercato di tenerlo sempre a mente. Solo che non avevo considerato che sapere dove cercare qualcosa non volesse dire trovarla. E allora da un po’ avevo cominciato ad associare fraintendimento a comunicazione e a pensare cosa succede quando si comunica con diversi codici e ci si fraintende…a lungo…di continuo.
Succede che ci si perde. Succedono i distacchi, le separazioni…succedono gli addii.
Succedono valigie fuori dalla porta, lacrime, parole piene di spigoli…succedono reazioni, cariche di brutte intenzioni, succedono illusioni, delusioni.
Succede che non ci si capisce. E si comincia ad avere paura.

Nei rapporti tra umani rintraccio tutta la solitudine dei contenitori vuoti, siamo sempre più simili a scatole, bellissime, curate nelle rifiniture, ma senza contenuto….così le relazioni diventano condivisioni di spazi vuoti riempiti a forza da inutili gingilli che distraggano dalle mancanze. Cosa ci manca per essere uomini e non solo esseri umani? Per capirci? Forse usiamo codici diversi? No, temo si tratti di altro. Penso che non abbiamo codici, e quando andiamo a decodificare una reazione ad esempio, la interpretiamo male perché è frutto di un’azione svolta senza criterio, senza codice. Continuo ossessivamente a domandarmi da un po’ che cosa ne sarebbe stato di noi se, alle scuole materne o alle elementari, avessimo ricevuto lezioni di sentimenti.
Così ieri sera, con quelle trentatré candele in mano, ho deciso di ricominciare a chiedere. A Giovanni ad esempio, che tra poco diventerà sacerdote, di fare la Pasqua con loro; di condividere con me le loro uova e i loro tozzi di pane secco. E poi ho deciso di chiedere altro, a un’altra persona. E sono andata a bussare alle porte di Dario Borso. Che è, sì, uomo dall’intelletto sopraffino e dalla sconfinata cultura, traduttore di bravura inestimabile e docente universitario di prim’ordine, ma prima di tutto un conoscitore delle filosofie dei più grandi pensatori, un uomo capace di rintracciare e sintetizzare l’essenza delle cose. Allora gli ho chiesto… di scegliere un sentimento, uno qualunque, e di insegnarmi a capirlo come se fossi sua sorella…

Non avrei dubbi: la curiosità. Che deriva da cura. Curiosità è prendersi cura chiedendo: cur? in realtà viene da cuor, perciò non è un sentimento freddo, e come l’amor parte da un vuoto/mancanza/bisogno. Sete di sapere/fame di… insomma, la curiosità comincia con una confessione: d’ignoranza.

Mh…poi però deve essere successo qualcosa, perché provare curiosità è diventato un sentimento di cui avere pudore… Sempre meno si ha in stima il curioso, sempre più si associa la curiosità all’invadenza. Allora, cos’è cambiato… quando è successo?

Da sempre la curiosità è associata al pudore e al divieto: Ulisse finì all’inferno, no?Adamo fu curioso, ogni curiosità prevede un velo da sfondare, o almeno da scostare. La chiesa cattolica, quindi stato e famiglia, sono concrezioni patologiche di blocco della curiosità. Come diceva Paolo di Tarso “la legge crea il peccato”, perciò la curiosità è vista come invadenza di un territorio altrui. In realtà la curiosità di per sé è una forma altissima di rispetto… rispetto da respicio = guardo due volte, ossia guardo con cura: curiosità. Piuttosto, ultimamente si è diffusa una curiosità strana, senza cura: si curiosa senza neanche guardare, si fruga cioè, si cerca/crea l’osceno, il fuori scena oltre, o meglio sotto il divieto. Se curiosare è nevrotico, frugare è psicotico.

Quindi inibire la curiosità è un effetto della diseducazione al sentimento… e come mi educo alla curiosità?

Alla curiosità ti educhi soddisfacendola. Se è vero che la legge crea il peccato, essa crea parimenti il piacere, è come l’assicella del salto in alto. L’ignoto è oltre i valori, se ne fosse assogettato, sarebbe noto. Ciò crea paura, solitudine, ma contemporaneamente spinge all’unione, all’alleanza. La ricerca colllettiva/curiosa dell’ignoto è la fonte della società perfetta, che è anche la più imperfetta, perché priva di tutto, vuota.

E cosa mi dici della delusione allora? Uno dei pericoli in cui si rischia di cadere per soddisfare la curiosità è proprio quello…la delusione per la conoscenza dell’ignoto…

La delusione è il rovescio dell’illusione, e il ludus si gioca tra soggetti, non tra soggetto e oggetto: l’ignoto né illude né delude. La curiosità tra soggetti è reciproca, raddoppiata rispetto a quella per l’ignoto. E’ il campo del patto e della promessa, in una parola del futuro.

Il campo del patto e della promessa…

Prendiamola da un altro lato: osservare, ob-servare, serbare davanti. Curiosità, rispetto, osserv… anza. per serbare davanti, devi essere sicuro dietro (il timoniere di Ulisse). Il patto è di rispettare/osservare una promessa. Pro-messa è l’apertura al mondo… una famiglia, una società, un mondo va a ramengo se alla base manca ciò.

Delusione, ludus, cor, Ulisse, ignoto, solitudine… mica un passo da niente. Del resto, però, se si chiede aiuto a qualcuno, poi bisogna affidarsi a lui. E allora sia!
Così avrà inizio il mio viaggio… e l’inizio partirà da qui.
Un viaggio alla scoperta del mondo, con un occhio verso Ulisse e l’altro verso il suo timoniere.
Trentatré candele ancora da accendere sul comodino e una promessa a me stessa: non avere più ’70aura dell’ignoto.
Una curiosità da alimentare, soddifacendola, senza paura e poi… giocare, giocare, e ancora giocare…
…forse, così, finalmente, imparerò anch’io a immaginare.

“La libertà interiore” – Marco Aurelio (ed.Mondadori)
Passeggiate d’autore – Associazione Pluriversi (pluriversi@gmail.com)
Chiesa Russa Ortodossa di San Nicola – Via San Gregorio, Milano (15 Aprile 2012 Pasqua Ortodossa)

 

 

VerbErrando, cronaca delle parole. Milano è…


MILANO
– Milano è la città che meglio di qualunque altra ti restituisce te stesso. Vive auto-fagocitandosi e per sopravvivere devi imparare a prenderti cura di te altrimenti ti perderai. E’ come l’amico tormentato che ognuno di noi ha avuto almeno una volta nella vita, da interpretare, attendere, conquistare, giorno dopo giorno. Le vite a Milano non si intrecciano, camminano in parallelo, condividendo spazi in silenzio, con mestizia che a tratti diventa tristezza.
A Milano ridono i ragazzi, quelli che incontri per strada, all’uscita delle scuole o quelli che trovi sul metrò, con i loro i-phone alla mano mentre si raccontano storie di poco conto, ma che so perfettamente (anch’io un tempo ebbi quell’età) essere per loro tutto… tutto il loro mondo.
Quando è primavera Milano è la città migliore, lo dicono i milanesi, quindi ci credo. Non fatico io stessa a rintracciarvi il fascino spregiudicato della metropoli frenetica che si prende del tempo per guardarsi attorno, per sorseggiare una cedrata. Dal metrò scendo a Moscova, voglio arrivare in centro passeggiando per qualche isolato. Appena esco, ad accogliermi, c’è la libreria Utopia. Due piani che si estendono verso il basso, il fondo, il retro… due piani di libri accatastati con dovizia… la tipica libreria che ti rimanda al passato, a quei negozi dove lo spazio era sempre poco rispetto ai libri che si ospitavano. Ci sono gli odori delle carte, gli odori che trovi nelle tipografie o nelle biblioteche. Non riesco mai a uscire da una libreria senza portare via dei pezzi di poesia… Utopia è perfetta per lasciarmi Esenin e la sua Russia:

 

“Non insultatemi. Ecco la mia tragedia!/ Io non sono un mercante di parole/ E non ho colpa se la mia testa è sconvolta,/un tempo sembrava d’oro./ Dite che non amo il mio villaggio né la mia terra:/Ma allora, come avrei potuto vegliare su di loro?/Sto per lasciare tutto ciò che possiedo. Con la barba selvaggia,/Me ne andrò vagabondo: così vuole la Russia./Dimenticherò i miei poemi, i miei libri:/ M’attaccherò al collo una cornamusa/ Se è vero che proprio ai nomadi il vento suggerisce/ Nella vasta pianura le canzoni più belle/…”

Esco con il mio amico nella borsa e riparto alla ricerca del centro. Non conosco bene la strada, ma ho le sue parole con me e scelgo a sensazione la direzione che più mi richiama per appartenenza. E’ così che  mi perdo per Corso Garibaldi. Quando mi perdo succedono sempre cose meravigliose. Sarà che quando ci si perde l’attenzione si affina per ritrovare la strada giusta e allora tutto è visibile, niente sfugge, nemmeno il più piccolo particolare.
Per la strada c’è aria di paese… due anziani signori seduti su una panchina che si scambiano suggerimenti su come navigare in internet dall’i-phone (è ormai chiaro che sono rimasta l’unica a non possederne uno), nonni con nipoti in bicicletta, signore al bar che bevono il caffè e parlano dei figli e delle loro vite impegnate. C’è un fioraio che vende mazzetti di lavanda avvolti in coni di carta… solo che accanto ha segnato un prezzo che restituisce immantinente a quel luogo la sua vera identità: una strada centrale di Milano.
Con la delusione di chi scopre un inganno, proseguo fin quando i miei occhi non inciampano in un’insegna che oscilla avanti e indietro… dal vento…
“Libreria del mondo offeso”
… suona come una canzone bella.
Una freccia sotto il nome mi invita a seguire la strada. So di allontanarmi sempre più dalla meta e di rischiare di perdermi oltre misura, ma non è forse la curiosità di scoprire l’ignoto che ci trascina verso le catarsi? Seguo la prima freccia, la seconda e la terza… le cose migliori sono nascoste alla vista… richiamano alla ricerca, alimentano il desiderio, richiedono determinazione e il tempo… le scoperte richiedono tempo…

 

“Se per Itaca ti metti in viaggio / augurati che il cammino sia lungo / pieno di avventure, colmo di esperienze. / Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi / O l’irato Posidone: / non avrai questo genere di incontri sulla tua strada / se il tuo pensiero resta altro e squisita / è l’emozione che t’invade il cuore e il corpo. / Non incontrerai i Lestrigoni e i Ciclopi / né il grifagno Posidone / se non li porti dentro di te, / se la tua anima non te li mette davanti.”
Entro nella corte, poi nel palazzo di sinistra… seguo diligentemente tutte le indicazioni e, al piano terra, ecco la porta… Varcare quella soglia si rivelò il passo migliore che avrei fatto quel giorno. Se il primo libro che vedi è un gigantesco tomo di finissima fattura di Carmelo Bene vuol dire che sei in un posto speciale… non intravedere nessun libro di Faletti ti rassicura sulla sensazione iniziale, scoprire che la proprietaria è Laura ti conferma di trovarti nel luogo giusto.
Laura è una donna bionda, minuta, con capelli arruffati tenuti insieme da un fermaglio o un elastico, comunque legati dietro la nuca. Ha gli occhiali e il sorriso imbarazzato della debuttante quando ti confida a voce bassa che la libreria è aperta da soli tre anni e mezzo… strano perché sembra esserci da sempre.Laura parla a voce bassa e quando lo fa sorride sempre. Si commuove quando le dici che dentro quella stanza si consuma un mondo fantastico perché lei, come tutti i librai indipendenti, lotta continuamente per rimanere in piedi. Alla domanda “Organizzate presentazioni letterarie?” risponde che organizza tutto ciò che abbia un peso e, quando dice ‘peso’, Laura scandisce tutte e quattro le lettere fino a farla diventare una parola mooolto luuunga, molto pesante, appunto. Mi mostra “Tristano muore” di Tabucchi e poi il logo sul loro volantino “Vedi?” indicando le due immagini “… lo abbiamo preso da lui”, poi bacia il libro con devozione e lo riposa sul tavolo.
Parliamo dei luoghi non luoghi, di quanto le socialità ormai si svolgano solo sugli schermi di un pc o su quelli di un cellulare, mentre luoghi veri come il suo sono pieni di sedie e sgabelli vuoti. “Riempiamola di persone questa libreria!” le dico con fermezza, lei, come la protagonista di un libro di Jane Austen, con compostezza si commuove e risponde “lo amerei tanto”. Le chiedo come mai ha aperto una libreria e mi risponde che nella vita ha sempre e solo desiderato prendersi cura delle persone e poi aggiunge “avrei voluto aprirla a Roma…” riconoscendo dal suono delle mie vocali un’origine capitolina “… ma poi ho pensato che Milano ne avesse più bisogno”.
Vado via con la promessa di tornare, Laura si è impegnata a trovare per me un libro di Kavafis, una raccolta di poesie che cerco da anni… esaudire un desiderio mi pare un modo perfetto per prendersi cura di una persona.

 

La passeggiata porta verso il Duomo e poi verso via Torino. In tutt’altra libreria e in tutt’altro ambiente, in una Fnac qualunque, c’è Roberto Andò che presenta il suo romanzo “Il trono vuoto”. Una schiera di moschettieri di eccezione lo accompagnano: il giornalista Aldo Cazzullo che, dopo il suo intervento lascia la sala causa febbre, Moni Ovadia e, il D’Artagnan del caso, Umberto Eco… mi domando che libro mai potrà essere per smuovere Lui in persona, poi Andò dice “…quando ho telefonato al mio amico Umberto per invitarlo a presentare il libro…” e smetto domandarmi cose… essere amici di Eco comporta indubbiamente dei privilegi.
Parlerei volentieri della trama del libro, ma troverete facilmente valide recensioni su tutti i più importanti siti di settore, con interventi di relatori prestigiosi come Walter Veltroni e Matteo Renzi. La presentazione, in sé sarebbe stata interessante se non si fosse respirato quell’odore di naftalina che caste intellettuali del genere diffondono, con le prime due file di sedie rigorosamente riservate ai “vip”, a donne con collane di perle al collo e a uomini in giacca e cravatta con sorrisi paretici sul volto. E allora avverto cose (lo so, retoriche) …lo stacco tra questa libreria piena di gente e la libreria del mondo offeso, piena di  vuoto… Eco ad appannaggio di alcuni, dei soliti e non lì, a raccogliere persone, a parlare di altro, di altri… di gente nuova, del futuro… mi domando cosa ci faccia io qui. Poi mi ricordo che c’è Umberto davanti a me e che lui è il mio santone, del quale sarei disposta a stampare immaginette sacre da distribuire in strada. Così resto fino alla fine, godo della sua ironia colta e raffinata e poi, appagata e satolla di sofisticazioni, me ne torno verso la mia casa di Milano.

 

Seduta in metrò, penso… alla strada percorsa oggi, al mio viaggio, al lungo cammino… penso al vento, alle canzoni belle, a Esenin e Kavafis… penso a quanto sia lontana la Grecia… a quanto lo sia la Russia… a quanto queste due terre mi appartengano… a quanto io non appartenga a niente. Perché da anni ho deciso di essere una nomade e di cantarmi canzoni belle che mi indichino la via.Perché da anni ho deciso di prendere un vaso, riempirlo di terra e delle mie radici e di portarlo sempre con me. Perché da anni ho capito che la casa non è un luogo ma  qualunque posto parli di me.
Libreria Utopia – piazza Moscova – Milano
Sergej AAleksandrovic Esenin – “Russia e altre poesie” (ed. Baldini Castoldi Dalai)
Kostandìnos Kavafis – Itaca da “Tra queste stanze buie-poesie morali” (ed. Passigli)
Libreria del mondo offeso – Corso Garibaldi, 50 (cortile interno) – Milano
Roberto Andò – “Il trono vuoto” (ed. Bompiani)

 

Veruska Armonioso per ChrL.

VerbErrando, cronaca delle parole: la Poesia

ROMA – “Non ho mai saputo

lasciarmi portare

da ciò che avrebbe potuto essere bello

e ho resistito senza sapere

senza capire perché

con tutte le mie forze

contro…la gioia.

Ho dovuto soffrire senza ragione

per me

per lamentarmi

per avere qualcosa su cui piangere.
Adesso, ho così ben scavato

con le mia lacrime la fossa

che posso davvero seppellirmici.
Eppure credo di aver amato da lontano

tante cose diverse

ma sempre mancava qualcosa

Un sapore di sogno

un po’ d’incanto

perché bisognava soffocare

i ricordi teneri.”
Marie-Jo Simenon era la figlia di George. George scriveva. Lui inventava personaggi a cui affidava compiti importanti, tipo cercare gli assassini, rincorrere i delinquenti, far innamorare donne misteriose, conquistare città inarrivabili all’altro capo dell’oceano. Seppe inventare tutti i tipi di uomo, ma non quello giusto per Marie. Così lei morì.
Il 19 maggio 1978 si sparò un solo colpo con una calibro 22 e tutto finì. Gli echi delle corde della sua chitarra, le lettere al padre, le poesie, le parole alla rinfusa scritte su carte di fortuna… niente più niente… il suo niente… così vuoto di esseri… così pieno di sé… di se… lei era una mongolfiera che proprio non riusciva a volare. Eppure voleva. Lei viveva lo struggimento di sapere che la vita non ha fine e che vivere è arduo ovunque. Natsume Sōseki lo diceva.
“È difficile vivere nel mondo degli uomini.

Quando il malessere di abitarvi s’aggrava,

si desidera traslocare in un luogo in cui la vita sia più facile.

Quando s’intuisce che abitare è arduo,

ovunque ci si trasferisca,

inizia la poesia…”.

Nel 1906 scriveva “Guanciale d’erba” e dipingeva ad acquerelli l’essere poeta… un destino che non ha niente a che fare con la vocazione o l’ambizione… il poeta è un essere per il quale “Completare è diminuire”. “ Non guardo nulla. Ma proprio perché sul palcoscenico della mia coscienza non si muove nulla che sia rivestito di un colore sgargiante, riesco a identificarmi in qualsiasi cosa. Eppure mi sto muovendo. Né dentro né fuori da esso. Tuttavia mi muovo […] Se proprio mi si costringesse a spiegarmi, affermerei che il mio animo vibra con la primavera.” Il poeta… un uomo, “… un uomo che, avendo limato da questo mondo quadrangolare un angolo chiamato buon senso comune, vive in un triangolo”. Questo fu anche Nazim Hikmet, nato a Salonicco quando era ancora Turchia, russo di adozione… passò tutta la sua vita lontano. Lontano dalla sua donna, lontano da suo figlio, lontano dalla sua terra… lontano dal carcere, lontano dalla morte. Lontano… solo… visse in amore. Scrisse d’amore. Per la libertà di cui si fece bandiera, per le donne, per la vita, per la meraviglia, per il potere del divenire, del cambiamento, del rinnovamento “Il miracolo del rinnovamento / mio cuore / è il non ripetersi del ripetersi”. Vivere, osare, assumersi il rischio di essere audaci, perché la vita non è uno scherzo…
“…Prendila sul serio

come fa lo scoiattolo, ad esempio,

senza aspettarti nulla

dal di fuori o nell’al di là.

Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio

ma sul serio al punto tale

che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate

o dentro un laboratorio

col camice bianco e gli occhiali

tu muoia affinché vivano gli uomini

gli uomini di cui non conosci la faccia

e morrai sapendo

che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio

ma sul serio al punto tale

che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli

ma perché non crederai alla morte

pur temendola,

e la vita sulla bilancia

peserà di più.”

 

Gente così muore una volta sola, e quando lo fa non è nemmeno per sempre. Invece noi? Noi che non siamo audaci se non in apparenza, noi che non abbiamo ricevuto lezioni di educazione sentimentale, che non conosciamo le geografie delle nostre emozionalità, che non combattiamo se non per il nostro pasto, noi, chi siamo noi?
Che la poesia sia con noi e con il nostro spirito. Che questa primavera ci aiuti a transitare… verso il risveglio o il lento abbandono… comunque verso un qualche dove. Che questo transitare sia in poesia, in divenire… di desideri inespressi, di giochi mai iniziati, di incontri al buio, di avviamenti, di raccordi… …che questa primavera sia vita, amici! Che questa primavera sia vita!

 

21.03.2012
Giornata mondiale della poesia.
Morte di Tonino Guerra.
Primo giorno di Primavera.

 

George SimenonMemorie Intime (ed. Adelphi)
Natsume Sōseki Guanciale d’erba (ed. Neri Pozza)
Nazim HikmetPoesie d’amore (ed. Mondadori)

 

Veruska Armonioso per ChrL.

L’Editoriale: VerbErrando, cronaca delle parole

ChronicaLibri editorialeROMA – Parte oggi VerbErrando, cronaca delle parole, uno nuovo spazio dedicato agli eventi, rassegne, incontri e appuntamenti letterari. A raccontarci cosa succede sulla scena editoriale romana e italiana c’è la scrittrice Veruska Armonioso; attraverso la sua penna conosceremo i libri e gli scrittori che popolano il variopinto mondo culturale di questo periodo. Con una scrittura descrittiva, coinvolgente e spensierata, Veruska ci porterà in viaggio alla ricerca delle parole.

 

A spasso per Monti, mi presento
Che arriva la primavera non te ne accorgi dal calendario, ma dalle porte aperte.
Quando, dopo aver aperto la porta, non fai caso a richiuderla perché tanto non c’è freddo da bloccare all’entrata, ecco… quello è il momento.
Così, piano piano, le strade si popolano di passeggiatori che, senza una meta precisa, si aggirano per vicoli, piazze, alla ricerca di nuove scoperte. Il Rione Monti è un Barrio, speciale in questo. Solo lì recuperi una parte di te che non hai altrove, la parte della città che non sarà mai di nessun viaggiatore occasionale. Monti è di chi a Roma ci viene per restare, di chi se ne è perdutamente innamorato e proprio non riesce a starne senza. La casa di appuntamenti all’aperto più romantica che ci sia, dove l’arte si mette in mostra in tutte le sue declinazioni per farsi scegliere e portare a casa. Dove c’è posto per ogni pensiero, dal più pudico al più spregiudicato, dove le clandestinità si condividono tra sconosciuti per appartenenze, con una birra ghiacciata in mano e un libro nella tasca. In una serata come questa, passeggiando per via Leonina, trovi Orlando e Ofelia. Non so se Ludovico Ariosto e William Shakespeare avrebbero mai fatto incontrare questi due epici paladini dell’amore folle, ma Roma lo ha fatto accadere attraverso una porta aperta, al civico 85. Non entrare è impossibile, sei attratto da una forza magnetica che ti trascina dentro e di colpo ti trovi in un luogo curioso, un luogo di libri; arte figurativa per lo più, e poi, man mano che procedi attraverso le sale, scopri che non è un luogo ma una casa, una casa dell’arte. C’è una veranda vestita a serra dove si beve e ci si intrattiene al chiar di luna, una botola che, attraverso una scala a chiocciola, ti fa scivolare in un sottoscala umido e freddo, completamente bianco, dove alloggia una mostra di pittura. Risalgo e trovo, seduto su una poltrona (non si sa se vintage o antica ma, di fatto, non nuova) Claudio Morici che legge le filastrocche di Maurizio Ceccato impegnato, intanto, con una bomboletta spray oro, a rivestire la porta d’entrata con un’illustrazione tratta dal suo libro “Non capisco un’acca” (ed. Hacca 2012).
Assaporo ogni passaggio di questa delizia dei sensi, dove le parole giocano a servire le immagini di Ceccato in un rebelot di identità stornate, rielaborate e poi riassegnate che fanno di questo libro un prezioso oggetto da sfogliare con parsimonia, centellinandone ogni centimetro quadrato.

 

L’affabulazione del suo gioco ti proietta in una dimensione di onirica visionarietà, fluttui in un’aria rarefatta, sospeso tra i suoi vedononvedo, attraversato dai suoi vagoni… percepisci con ogni cellula del tuo corpo le possibilità, infinite e indefinibili, che la mente può riservarti. Una casa dell’immaginazione spregiudicata, raccontata con poesia semiotica in tutte le sue forme.
Uscire da quel luogo ha il sapore amaro dell’addio… meno male che c’è Monti fuori ad aspettarmi…il mio luogo…quel che mi manca quando sono altrove… il luogo che parla di me, fatto della mia gente, di gente come me… esploratori pagani alla ricerca di scoperte nuove… e di nuove immaginazioni.
Orlando e Ofelia, via Leonina 85, Rione Monti, Roma.
“Non capisco un’acca” di Maurizio Ceccato, ed. Hacca 2012

 

Veruska Armonioso per ChrL