VerbErrando: Le eredità transgenerazionali

Veruska Armonioso
ROMA 
– Venerdì a pranzo ero con un’amica d’infanzia, una di quelle che conoscono tutto il necessario di te: come sei venuta al mondo, da dove vieni, chi volevi essere da grande; una di quelle persone che possiedono le tue origini. Insomma, siamo andate a pranzo insieme dopo un po’ che non ci vedevamo e, come al solito, è bastato poco per riprenderci. Qualche nome per posizionare il treno sulle rotaie giuste e poi via, a parlare. Lei, mamma di due bambine, dalla morte del padre è stretta nella morsa infernale del passaggio di testimone: l’acquisizione in eredità paterna del ruolo di capofamiglia e la restituzione alla madre (rimasta, senza suo marito accanto, senza strumenti e incoraggiamento per essere genitrice) di quello di figlia. Uno scambio ambiguo e controverso che mi ha fatto subito venire alla mente Anne Ancelin Schützenberger e il suo libro “La sindrome degli antenati”.

Avevo letto questo libro dopo qualche mese dalla morte di mia madre. In quel periodo mi sentivo come dispersa nel mezzo dell’oceano, senza futuro e senza passato; ero fermamente convinta di aver perso bussola e i riferimenti necessari per andare avanti e che, quindi, non avrei toccato terra mai più: destinata alle sabbie mobili senza affondare mai del tutto. Poi, aprii la prima pagina di questo libro e iniziò la mia catarsi:
“La vita di ciascuno di noi è un romanzo. Voi, me, noi tutti viviamo prigionieri di un’invisibile ragnatela di cui siamo anche uno degli artefici. Se imparassimo dal nostro terzo orecchio e del nostro terzo occhio ad afferrare, a comprendere meglio, ad ascoltare e a vedere queste ripetizioni e coincidenze, l’esistenza di ciascuno di noi diventerebbe più chiara, più sensibile a ciò che siamo e a ciò che dovremmo essere.”

Le ripetizioni a cui si riferiva erano ripetizioni famigliari, lacci tra noi e quello che c’è stato prima, che spesso ignoriamo a livello conscio e che, invece, creano dal profondo le fondamenta della nostra esistenza. Quante volte ci hanno detto che il modo di amare di una madre ha decretato quello di amare di un figlio? E ancora più scientificamente: quanti di voi hanno preso il colore dei capelli dal bisnonno?
Filosofeggiando e poetizzando sui principi di genetica di Mendel, possiamo facilmente pensare che, se una bisnonna può trasmetterci il gene dei capelli rossi, può altresì trasmetterci quello della docilità. E’ lì, proprio in quella fessura, che accade la ripetizione famigliare, il reiterarsi, cioè, non solo di modelli comportamentali tra una generazione e l’altra, ma addirittura di accadimenti, anniversari, incidenti, sorprendentemente sinistri, come nel caso di una donna che si ammala di cancro esattamente alla stessa età in cui si è ammalata sua madre, oppure di un uomo che ha un incidente automobilistico il giorno di Natale, esattamente come successe a suo nonno, che non conobbe mai e che perse in quell’occasione la vita.
“Siamo, in un certo senso, meno liberi di quanto crediamo”, ostaggi di legami con i nostri antenati che si possono “vedere, sentire o intuire, almeno in parte, ma di cui, generalmente, non si parla: vengono vissuti nell’indicibile, nell’impensabile, nel non – detto o in segreto”.
Esiste una letteratura di casi studiati vastissima, ma ciò che più mi interessava trasferire alla mia amica era legato allo scambio malato dei ruoli tra genitore e figlio, la genitorializzazione, che accade, quasi sempre, quando c’è un caso di debito di lealtà invisibile.
La famiglia, in quanto unità sociale, si fonda sulla lealtà dei membri che la compongono. “Da qui il concetto di giustizia e di giustizia famigliare. Quando non viene fatta giustizia, la situazione si traduce in ingiustizia, in malafede, nello sfruttamento dei membri della famiglia gli uni nei confronti degli altri, talvolta attraverso la fuga, la rivalsa o la vendetta, altre volte attraverso la malattia o l’incidente ripetitivo.” Diversamente accade quando c’è l’affetto, la considerazione reciproca e i conti famigliari vengono aggiornati. Si può parlare di un bilancio dei conti famigliari e del grande libro dei conti famiglia, dove si vede se si è debitori o creditori, se di hanno debiti, impegni o meriti. “In mancanza di questo bilancio, di generazione in generazione, ci possono essere una serie di problemi”.

Anne Ancelin Schützenberger ci dice che il più grande debito della lealtà famigliare è quello che ogni bambino contrae nei confronti dei genitore, per amore, affetto, cure, fatica e attenzioni che riceve dalla nascita, fin quando non diventa adulto.
Per virtù o causa di questo ‘debito’, a un certo punto della vita del figlio avviene il rovesciamento dei valori, ossia della situazione in cui i figli diventano i genitori dei propri genitori; questo può accadere indipendentemente dall’età del figlio: “vi è un certo numero di famiglie, soprattutto quelle modeste o rurali, dove la figlia maggiore ricopre il ruolo di madre e dove la madre, stremata dalla fatica per i parti troppo numerosi, realmente malata o ritenendosi malata, si fa sorreggere, aiutare e sostenere da sua figlia, la quale non si sposerà mai.”
E così, una figlia che a vent’anni, dopo la morte del padre, si ritrova a fronteggiare il peso emotivo di una famiglia sostituendosi alla madre, diventerà madre della sua stessa genitrice fino alla fine dei suoi giorni, a meno ché non decida di interrompere questa distorsione malsana delle relazioni, imparando a conoscere il proprio ‘libro dei meriti e dei debiti’, “…attraverso un’analisi dell’informazione retrospettiva, vale a dire della memoria dei vivi sui morti: ciò che le persone viventi sanno delle loro famiglie e ciò che le agisce, anche se esse non sanno coscientemente ciò che sanno, tra il detto e il non detto, tra il conscio e l’inconscio – ciò che è stato trasmesso dal punto di vista della famiglia.”

Sarà a quel punto che si salderà davvero il proprio debito, ossia attraverso il passaggio transgenerazionale, rendendo quel che abbiamo ricevuto dai nostri genitori ai nostri figli.
Questo non ci impedirà, quando i nostri genitori saranno vecchi, di avere nei loro confronti delle attenzioni e dei debiti, tra cui quello di aiutarli a vivere i loro ultimi anni e di accompagnarli nel passaggio dalla vita alla morte”, ma ci permetterà di mantenere il possesso della nostra identità e della possibilità di scegliere per noi stessi, senza subire sensi di colpa o frustrazioni da negazione dell’io ed essere pilotati dei bisogni e dalle esistenze dei nostri antenati.
Un punto di partenza, senza dubbio, questo libro, ecco cosa è stato per me. Non una cura, non una soluzione, ma uno spostamento. In me ha spostato una convinzione, quella che non sarebbe cambiato niente, che “tanto le cose stanno così, è il mio destino, e non c’è niente che si possa fare”. E invece no. Si rompono le catene, senza rinnegare, senza rifiutare, senza ignorare, semplicemente lavorando sulle altre possibilità che non vediamo ma di cui possiamo disporre. Alcuni strumenti ci vengono dati in dotazione dalla natura o da Dio, per chi è credente. Altri dobbiamo andarli a cercare. E’ quella la difficoltà, andare a cercare qualcosa che non sai ti possa servire; quindi scoprire che ti serve quello strumento diventa fondamentale. Ecco perché questo articolo. Perché, magari, anche voi siete come me e la mia amica, ancorati saldamente a un blocchetto di cemento a presa rapida, pensando che non ci sia uscita e che la vita sia segnata dal subire quel destino.
E invece no, non è così che stanno le cose. E non dico che oggi sono dove sono grazie a “La sindrome degli antenati”, ma che leggerlo mi ha aiutata a capire che mi servivano quegli strumenti, che io, cresciuta con un senso del dovere schiacciante, nel costante bilanciamento tra la ricerca della perfezione e la delusione delle aspettative altrui, io e solo io dovevo intervenire, subito. Che non mi potevo sostituire a nessuno, che la mia identità doveva essere inviolabile, che ero venuta al mondo per essere libera e che avrei dovuto scegliere da me il mio destino. Intervenendo, subito, su di esso.
Che il nostro albero genealogico racconti le nostre origini; che noi raccontiamo il nostro futuro.

 

 

 

 

VerbErrando: “Tenera è la notte”

Veruska Armonioso
ROMA
– Studia giurisprudenza, ha ventiquattro anni e si annoia.
E’ nata nel 1988. Bim bum bam, forse, ha fatto in tempo a vederlo, magari se lo ricorda, solo che Paolo Bonolis se n’era già andato e non lo conduceva più, però c’era ancora Uan.
Quando tornava da scuola la nonna guardava beautiful in tv, quindi è cresciuta, forse suo malgrado, incontrando per pranzo sempre intrighi, giochi di seduzione e il mito che la bellezza e la sensualità sono la strada giusta per arrivare a destinazione. Mamma e papà volevano tanto che studiasse e portasse a casa voti importanti, ma lei preferiva chiudersi in bagno a truccarsi per farsi vedere bella dai ragazzi.
Poi è arrivato “Uomini e Donne”, “Il Grande Fratello” e ha capito che apparire era fondamentale.
Le veline, le letterine, tutte le calendarine e poi c’era lei, ragazza carina ma qualunque,
che si sentiva indietro, si sentiva in svantaggio. Si diploma e si iscrive all’università, cambia città (la provincia le va stretta) e comincia una vita nuova, dove poter esibire i suoi gioielli: due tette tirate su da un bra dell’ultima generazione, un sorriso ultragloss e pose da top model per impressionare l’obiettivo di un fotografo da book. Sono foto importanti, sono foto che vanno su facebook, perché lei, la bella lei, tutta truccata, pettinata a puntino e vestita solo delle proprie mani, ha un bisogno disperato di non sentirsi solo una futura praticante avvocato, non può restare indietro, non può essere meno di Belen. E allora gioca a fare la modella, va in locali alla moda a farsi scattare foto ricordo da pubblicare sulla sua bacheca. Sono importanti i “mi piace”, i commenti appassionati degli uomini che fantasticano sulle sue forme in chiaro scuro, sui suoi sguardi ammiccanti, sui suoi sorrisi divertiti durante notti della dolce vita della nuova Italia.
Lui è lì, nello studio. Nella camera accanto c’è Marta che si sta spogliando, è appena tornata a casa dal lavoro, oggi c’era sciopero, pioveva e lei è rincasata bagnata come un pulcino. Stanno insieme da un anno e mezzo e discutono spesso perché lui è troppo chiuso e parla poco e lei si sente sola. Comunque lui è lì, sta consultando il suo facebook e la vede, nella colonnina di destra tra le amicizie consigliate.
Non dubita un secondo e le richiede l’amicizia. Lei accetta e cominciano a chattare. Lui come foto dell’avatar ha un’immagine in penombra, mentre fuma una sigaretta. Ha il fascino della star del cinema americano e poi è bellissimo. Marta bussa, apre piano piano la porta. Lui abbassa velocemente la finestra di internet, si gira e, con un sorriso pieno di denti, le chiede:
“Tutto bene?”
“Sì, vado a fare la doccia, poi ti va se ci mettiamo un po’ sul divano abbracciati a guardare la tv?”
“Ok! Tra un quarto d’ora sul divano!”
Lei chiude la porta e lui apre di nuovo la finestra.
“Ho ancora un quarto d’ora, poi i miei amici mi passano a prendere per uscire.”
“Mh, peccato… ma tanto anch’io stavo per uscire, andiamo tutti al Rainbow a fare un aperi-cena.”
“Quando posso parlarti di nuovo?”
“Quando vuoi… domani?”
“Apro poco internet durante il fine settimana, ma lo farò solo per te.”
“A domani allora!”
“Dopo pranzo? Verso le due?”
“Perfetto! Dopo le due!”
Non andrò avanti, il racconto continuatelo voi.
A volte mi dico che è una fortuna non stare insieme a nessuno. Avevo sedici anni quando lessi per la prima volta “Tenera è la notte”. Dick l’aveva voluta così tanto Nicole, l’aveva prima curata, e poi le aveva promesso amore eterno e l’aveva sposata. Gli bastò poco, quando arrivò Rosemary, giovane, bella, attrice, sofisticata, per spazzare tutto via, tutto.
Provare ancora quella trepidazione :
”- Sono Dick: dovevo chiamarti.
Una pausa di lei; poi coraggiosamente e intonata allo stato d’animo di lui:- sono lieta che tu l’abbia fatto.
[…]
– Rosemary.
– Sì, Dick.
– Senti, sono in una situazione straordinaria, con te. Quando una bambina riesce a turbare un signore di mezza età… le cose vanno male.”
La cosa che mi turbava maggiormente non era il tradimento, ma il tormento che provava Dick.
“Ora la baciò più volte sulla bocca, il suo viso si ingrandiva mentre scendeva su di lui;
Dick non aveva mai visto qualcosa di così abbagliante come quella pelle, e poiché a volte la bellezza restituisce le immagini dei proprio migliori pensieri, pensò alla sua
responsabilità verso Nicole e al fatto che questa si trovava due porte più in giù, nel corridoio.”
Provava tormento, un tormento rivolto verso la moglie, ma non era un tormento per senso di colpa; era un tormento di rimpianto. Se non ci fosse stata lei, lui avrebbe scelto Rosemary.
Se non ci fosse stato quel “peso”, la donna che tanto aveva voluto e che, con il tempo, era diventato peso, ecco, se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato con Rosemary.
Se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato felice. I sotterfugi, le recite per dissimulare e poi il senso di costrizione, di infelicità, di privazione.
Dall’altra parte lei, Marta, Nicole o me. Dall’altra parte una persona, che esiste solo
come intralcio. Quando vivi per una volta un’esperienza del genere resti marchiato a vita.
La mia amica Dani dice che le ferite del passato non devono diventare limitazioni e ha ragione, ma forse ha avuto ferite poco profonde o uno stuolo di santi e madonne in cielo pronti a riempirle il cuore e la mente di indulgenza e fiducia.
Di fatto Nicole è stata tradita.
Di fatto Marta sta per essere tradita o è stata già stata tradita, del resto non serve di certo un amplesso per essere infedele a un amore.
Di fatto Marta non ce la farà mai a competere con queste fantastiche, bellissime ragazze copertina.
Marta verrà schiacciata da questa competizione, sia che decida di chiamarsi fuori e non cadere in questo gioco perverso dell’essere sempre all’altezza, sia che decida di starci dentro. Perché questo gioco lo si può fare fin quando hai vent’anni. A trenta non si può più. Comunque sia, sia che tu ti chiami fuori, sia che tu resti nel gioco, prima o poi arriverà il momento in cui l’uomo che ti è accanto si girerà dall’altra parte a guardare, a sognare un po’, con la bava alla bocca o con contegno, ma comunque lo farà.
Forse non te ne accorgerai, ma lo saprai che accade. Forse, invece, te ne accorgerai, allora le tue insicurezze usciranno tutte fuori e tu cadrai nel baratro. Tutti i mostri, i fantasmi saranno lì, affacciati alla finestra della bocca del tuo stomaco a chiamare in causa le tue paure. Perché a distrarsi ci vuole un attimo, a perdersi un secondo, ma a ritrovarsi, poi, non basterà una vita.
E’ più grande la paura di essere traditi o il tradimento stesso? La possibilità che c’è dietro l’angolo rende chiunque un nemico, tutto un pericolo. E poi tu, che con i tuoi bassi, i cali di attenzione, di prestazione, di forma, rischi di mandare all’aria la tua relazione senza nemmeno che ci sia realmente qualcuno, solo per paura.

Amarsi dopo un figlio, amarsi dopo essere diventati coppia, amarsi quando entra la routine, quando subentra una malattia, quando entra in gioco la vita.
Amarsi.
E’ possibile amare qualcuno nella versione vita-di-tutti-i-giorni senza lasciarsi distrarre da qualcun altro?
E’ possibile farsi vedere sé stessi, senza rischiare di essere traditi con qualcuno di nuovo o migliore? Si può sperare di avere qualcuno accanto che non cada nella rete di una bella ventiquattrenne avvocatessa sexy fotomodella di facebook e essere liberi di farsi vedere per quello che si è, senza patinature e senza calze a rete o tacchi a spillo?
La mia amica Dani dice di sì. Lei è fortunata, suo marito la ama per quello che è, ma non fa testo, hanno dei valori così al di sopra dell’apparenza e della forma da risultare alieni.
Parlando con lei, però, penso di aver capito dove risieda il problema. Se conquisti un territorio con le armi, dovrai sempre usare le armi per esercitare il tuo potere al suo interno. Una metafora ardita per dire che se conquisti un uomo per un qualcosa che possiedi, non potrai mai liberarti da quel cliché, nemmeno dopo vent’anni. Quella caratteristica diventerà, nella tua mente, il metro di paragone con tutte le altre e di quello non smetterai di preoccuparti sia che si parli di bellezza, che di simpatia, che di intelligenza.
Diverso se conquisti una persona per la tua unicità. Se quello che fa innamorare di te la tua persona sarà la tua unicità, la tua essenza, allora non ci sarà paragone con nessuno. Non ci sarà bellezza tanto provocante, o mente abbastanza brillante o sorriso sufficientemente smagliante. Potrà essere tutto di più rispetto a te, ma non sarà mai te.
Ecco quello che ho capito questa settimana. Conoscendo Marta e la sua storia, parlando con Dani e la sua famiglia, rileggendo Francis Scott Fitzgerald e tenendo in braccio la mia pronipote Lavinia.
Guardando tutti loro ho capito cosa è importante in una relazione.
Amare l’unicità dell’altro ci rende fedeli, far innamorare il nostro compagno della nostra unicità ci rende sicuri e invincibili.
Non sarà facile districarsi all’interno di quella jungla. A volte sarà difficile, a volte ci vorrà tempo, tanto tempo, a volte incontreremo riluttanze, rifiuti, impazienze. Quelle saranno le selezioni naturali, gli autoeliminati che ci lasceranno prima ancora di prenderci.
Ma arriverà quell’unica persona che è destinata a starci accanto, e sarà allora che non avremo più paura di essere da meno della seducente studentessa universitaria del web. Ed è proprio a lei che vorrei dire di togliere quelle foto da lì e di riprendersi la propria vita ricominciando con il ridurre ai minimi termini per poi massimizzare e sicuramente arriverà molto più di un uomo che mentre chatta con lei ha, nella camera accanto, la sua compagna seduta sul divano ad aspettarlo per un abbraccio.

VerbErrando: Soli mai più

Veruska Armonioso
ROMA
– Ho errato per un po’. Del resto, era proprio questo il mio scopo in questo giornale, errare e, intanto, produrre parole. Solo che nel mio errare, nelle ultime settimane, non ho prodotto più niente.
Mi sono accorta che mi mancava lo scrivere solo cinque minuti fa. Stavo rispondendo a una lettera elettronica di una mia amica e le parlavo di ovvietà stampo anziana di paese, ossia di quanto fosse bello essere sani, vivi, felici e di quanto fossi disposta a rischiare tutto pur di avere la felicità. Si parlava di immobilità, emotive, geografiche. Di persone non disposte a muoversi per prendersi un lavoro, una casa, una vita, un amore. E si parlava anche di persone che, invece, fanno passi, vanno avanti e, intanto, costruiscono loro stesse.
Costruire è un tema che tratto spesso qui, il fatto è che ho passato tutta la mia vita a costruire… per me, per me con altri, per poi scoprirmi sola.
Un’altra amica, una giornata diversa: ieri.
Entrambe occupate a maneggiare una tazza di tè e lei mi dice: “E’ un problema non avere paura, in questo modo non si può condividere niente di duraturo con chi ne ha, è troppo difficile metterla in pratica la condivisione, pur volendola fortemente”.
“La paura che paralizza è la vera carogna. Dove c’è paura non ci può essere tutto il resto, non ci può essere struttura” le rispondo salomonica.
“Allora è un problema avere struttura, in questo modo non si può condividere niente con chi non ne ha.”
Ci sono persone pietrificate dalla paura; ricolme di convinzioni limitanti, di voci diaboliche e autodistruttive, non vedono niente con chiarezza. A volte non vedono niente di niente. Un aerosol di incertezze e caos che gli entra dalla bocca e dalle orecchie, per poi toccare gli organi interni e arrivare al cervello. Lì, dove risiede la ragione e l’emozione, tutto si avvolge di una nebulosa.
Poi arriva un tardo pomeriggio di primavera, la vita si riattiva, gli ormoni sono in pentola quasi pronti per l’ebollizione e basta un attimo, un incontro fortunato, e tutto sembra più chiaro.
La forza del primo sguardo, del primo sorriso, della prima stretta di mano. La forza della curiosità verso l’ignoto e la voglia di conoscere, svelare, avere ben presente che ti fa tornare giovane…

“Ero giovane, e la sincerità mi era abbastanza facile. […]
<Non è bene avere troppa fretta> disse il maestro.
<Penso di essermi già calmato> […]
<Tu sei pieno di entusiasmo. Quando l’entusiasmo si spegne, si rimane disgustati. La tua presente opinione su di me mi amareggia, ma ancora di più mi angustia il cambiamento che avverrà in te con la disillusione>.
<Mi reputa così volubile? Le do così poco affidamento?>
[…]
<Non è che non mi fidi di te in particolare. Non mi fido degli uomini in generale.>
[…]
< Allora non ha fiducia nemmeno in sua moglie?>
< Non ho fiducia nemmeno in me stesso. E dal momento che non posso credere in me, non posso crede nemmeno negli altri. E non posso far altro che maledire me stesso>.
<Se la prende così seriamente, non potrà fidarsi mai di nessuno.>
<Non si tratta soltanto di un mio pensiero. Io ho dato la mia fiducia e, dopo averlo fatto, mi sono spaventato. Mi sono tremendamente spaventato[…] Comunque non devi darmi troppo retta, perché potresti venire tradito, e in questo caso ti vendicheresti crudelmente dell’inganno>.
<Maestro, che cosa intende dire?>
<Se oggi si sta in ginocchio davanti a una persona, domani le si potranno mettere i piedi in testa. Rifiuto l’ammirazione di oggi per evitare le ingiurie del futuro. Preferisco sopportare la solitudine adesso, piuttosto che trovarmi ancora più solo negli anni a venire. Vedi, la solitudine è il prezzo che noi dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione individuale>.”

Non ho paura di dire che la solitudine è ineludibile. Ho avuto paura per lungo tempo di restare da sola. Avevo paura di non poter avere calore per me, un abbraccio, una voce che mi chiamasse “amore”. Chiedevo tutto questo come l’ultima sigaretta per un condannato a morte. Temevo la morte. Abbracciavo la morte nella mia vita, seppur non accettandola. La accoglievo tutti i giorni.
Sono stati gli anni più bui della mia esistenza, la mia vita senza me. Ero presente per chiunque altro eccetto me, giusto per giustificare la mia esistenza.

“Benché avessi stabilito di vivere come se fossi morto, a volte il mio cuore rispondeva al movimento del mondo esterno, e sembrava quasi danzare con energia repressa. Ma non appena io tentavo di farmi strada attraverso la nube che mi circondava, una forza dotata di uno spaventoso potere mi si avventava addosso, non so da dove, e mi serrava il cuore; io arrivavo al punto da non potermi più muovere. Una voce mi diceva <Hai ragiona e non fare nulla. Resta dove sei>. E ogni desiderio di azione mi abbandonava di colpo. Dopo un attimo, il desiderio ritornava. E io tentavo ancora una volta di farmi strada, poi di nuovo venivo frenato. E urlavo, con furia e dolore < Perché mi fermi?> Con una risata crudele, la voce mi rispondeva <Lo sai molto bene>. Allora capitolavo in una resa senza speranza.
Ti prego di credere che, benché tu possa avere avuto l’impressione che io abbia condotto una vita monotona e senza complicazioni, in me si è sempre svolta una penosa lotta senza soste. […] Quando infine mi fu evidente che non potevo rimanere più a lungo in quella prigione, e che non ne potevo evadere, fui spinto a concludere che il gesto più facile, per me, fosse il suicidio. Potresti chiederti come mai arrivassi a quella conclusione. Ecco… il fatto è che quella terribile forza strana che mi afferrava al cuore ogni volta che pensavo alla mia fuga dentro la vita, mi lasciava almeno l’illusione che io fossi libero di trovare una via d’uscita dentro la morte. Se proprio volevo muovermi, potevo farlo soltanto verso la mia fine. In due o tre occasioni tentai di seguire questo unico corso che il destino mi lasciava aperto. Ma ogni volta venni trattenuto dal sentimento che mi univa a mia moglie. Inutile dirti che non avevo il coraggio di trascinarla con me. Né potevo confessarle ogni cosa. Come potevo derubarla della vita che le era stata assegnata, e forzarla a condividere il mio personale destino? Perciò esitai. In seguito, osservando mia moglie, mi dicevo che avevo fatto bene a esitare. E riprendevo a vivere, privo di speranze, avvertendo gli occhi di mia moglie puntati su di me.”

Ho combattuto contro draghi a mani nude, e attraversato il fuoco, e camminato a piedi nudi sopra il ghiaccio in questi ultimi mesi, per arrivare qui, oggi, ventinove ottobre duemiladodici, a dire che non ho paura più.
Non ho paura più di quelle voci. Le manderò a fanculo ogni volta che mi diranno “lascia la presa, vieni via con me” e mi girerò dall’altra parte, alla mia destra, verso chi mi ama, verso chi mi dice “stai con me”, verso chi mi dice “voglio che sorridi”, verso chi mi apre le braccia, verso chi mi sorride.
Penso che i nostri tempi moderni, questi giorni di grandi e pesanti gravi, necessitino di una rete affettiva fitta ed elastica. Da soli siamo persi. Restare da soli, dare retta a quella voce che ci dice che “la solitudine è un prezzo da pagare” vuol dire serrare la strada alla felicità.
Io accetto, oggi, di essere la prima alleata di me stessa. Ma sola, da sola, mai più.

Brani estratti da “Il cuore delle cose” di Natsume Sōseki – ed. Neri Pozza

 

 

VerbErrando: Il bisogno di amare

Veruska Armonioso
ROMA
– La biologia non mente, è questo quello che si dice. Che il sangue inneschi un legame, unico e indissolubile, tra le persone. Che si può rinnegare con la testa, ma il nostro istinto ci porterà sempre a provare emozioni verso qualcuno che ci appartiene per corredo genetico. Un fratello, ad esempio, che ci fa soffrire, che ci tradisce, che usurpa la sacralità della carica famigliare, resta sempre una persona verso cui provare sentimenti è inevitabile, che siano essi amore, rabbia o perdono. Lo stesso per un genitore che ci fa del male, che ci abbandona o che se ne va. Per lui, in verità, in profondità e nel segreto della nostra intimità, continueremo a nutrire emozioni. Si prova, dunque, comunque amore. Si prova comunque amore se c’è di mezzo una eredità trans generazionale a dettare le regole e il sangue in comune a confondere le scelte. Prendiamo una madre, ad esempio. Una madre come quella di Virginia Woolf che per struggente senso di mancanza decise di far rivivere nelle pagine del suo capolavoro Gita al Faro. Una madre che incita i propri figli a sognare, a sperare nonostante tutto, ad attendere il domani con costruttiva impazienza:

“ <Sì, certo, se domani sarà bello>, disse la signora Ramsay <Ma ti dovrai alzare al canto del gallo>, soggiunse. Le sue parole suscitarono una gioia immensa nel figlioletto, come fosse ormai sicuro che la spedizione avrebbe avuto luogo, e l’avvenimento meraviglioso che gli sembrava d’aver atteso con ansia da anni e anni fosse ormai, dopo una notte di buio e una giornata di navigazione, a portata di mano[…]<Comunque>, disse il padre, arrestandosi davanti alla finestra del salotto, <non sarà bello.> Se James avesse avuto a portata di mano un’accetta, un attizzatoio, o un’arma qualsiasi con cui squarciare il petto al padre e ucciderlo, là su due piedi, l’avrebbe immediatamente afferrata. […]<Ma può darsi che faccia bel tempo; secondo me farà bel tempo.>”

Prendiamo allora questa madre, e facciamo conto che suo figlio, un operaio socialista appena ventenne, che usa la sua casa come quartier generale per riunioni politiche venga imprigionato, che cosa fa? Ce lo racconta uno straordinario Maksim Gor’ki in “La madre” (Мать), romanzo in cui la madre si eleva a madre in senso assoluto, sia sposando la passione del figlio e facendola propria (sarà lei a continuare la campagna di propaganda fino a quando non verrà uccisa) sia diventando la madre di tutti i compagni del figlio. La madre, dunque. Non sua madre o una madre, ma “la madre”, in quanto madre di tutti poiché madre di uno. La madre come assunzione di ruolo in senso assoluto piuttosto che compito o responsabilità verso un unico individuo. Può una donna, una volta divenuta madre, essere madre anche di un figlio non suo? L’estremizzazione ce la regala KimKi Duk nel suo ultimo film Pietà, Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia di quest’anno. Una donna che ha visto suo figlio perdere la vita per mano della crudeltà gratuita di un suo coetaneo e che, nell’attuazione della sua vendetta verso il carnefice che, per esigenze strategiche aveva cominciato a trattare come un figlio, è capace di provare pietà per lui, al punto tale di rischiare di mandare tutto all’aria, proprio nella fase finale, per pietà.

 

Si prova amore anche al di là della biologia. Si può provare quell’amore puro e irrinunciabile che sposta equilibri, opinioni, abitudini, scelte, orientamenti. Si può provare un amore così trascendentale seppure privo di un patrimonio genetico da spartire. Ci si innamora, ad esempio, e ci si sposa. Ci si sceglie e si decide di impostare tutta la propria vita intorno allo stare insieme a un “estraneo” che diventa, per affinità elettiva o per scelta, la nostra famiglia. Di catena trattasi. Una catena composta da anelli, alcuni fatti della stessa materia, altri fatti di materia diversa. Ma senza quegli anelli, quelli di materia diversa, non ci sarebbero quelli uguali, quelli della stessa materia. La diversità, l’estraneità come occasione per creare nuovi legami, legami più solidi, che diano varietà e rafforzino l’altra metà di noi, quella opposta all’istinto animale che ci fa amare per similitudine. Quella della ragione, del lavoro, dell’amore non come punto di partenza, ma come punto di arrivo e incentivo per vivere e costruire.  Così, se si può amare un’altra persona e sceglierla come compagno della vita, se questo è vero e possibile, è vero e possibile anche amare un’altra persona e sceglierla come figlio. Le adozioni ne sono l’esempio lampante e, del resto, il segno più grande di vera emancipazione emotiva; sempre più spesso la famiglia è quella che ci costruiamo, che scegliamo con cura e attenzione, per noi. Succede quando la natura ci nega la possibilità di essere animali. Cinico? Ma è così. Quando la natura non ci fa riprodurre, ecco che costruiamo un legame genitore-figlio con una persona estranea a noi. Quando la natura ci toglie un genitore, ecco che costruiamo legami genitore-figlio con persone estranee. E così, se a quindici anni la tua famiglia è composta da sorella, fratello, madre e padre, vent’anni dopo non è escluso che tua madre non ci sia più, tuo padre nemmeno, tuo fratello si sia perso e tua sorella sia lontana. E’ allora che la famiglia di salvataggio arriva. E’ allora che si impara ad amare al di là della biologia. E’ indiscussa, quindi, la possibilità di un amore accorato verso un estraneo e l’assegnazione di ruoli famigliari importanti. La domanda, strisciante e maliziosa, però, resta: come sarà questo amore? Sarà davvero uguale a quello verso un con-sanguigno? Oppure possiederà delle condizioni? Per amare una persona “come se fosse della propria famiglia” basta scegliere di farlo?Per amare un bambino “come se fosse figlio proprio” basta scegliere di farlo? La luce sugli oceani di Stedman, romanzo rivelazione del 2012 edito da Garzanti, ci dà l’occasione per capirlo, raccontandocelo con una grazia e una delicatezza quasi ottocentesca. A metà tra un racconto di Fitzgerald e della Woolf, la Stedman tocca tutti gli aspetti della psiche umana sottoposta alla perdita e lo fa con una delicatezza e, al tempo stesso, un realismo cinematografico. Ci dà indietro temi come il furto, la rivendicazione, la follia per la perdita, il dolore per il tradimento, la compassione, la giustizia. In un romanzo dove non ci sono vincitori né vinti, ma solo vittime e dove la natura è madre e matrigna al tempo stesso. Perché la vita vera è così, da una parte ti dà, con tutta l’energia e la generosità di cui è capace, e dall’altra ti toglie, con la crudeltà che si riserva solo a un nemico.

Qual è, allora il punto? Si può amare qualcuno “come se fosse”?
Il bisogno è la risposa.
Per quanto mi riguarda è così. Ché amare è sempre amare e l’unico sentimento vero è quello rintracciabile “nelle pieghe della mente” come scrive Barbara Ottaviani in Acquasanta. Il bisogno muove le nostre scelte e quello che si sceglie e si pratica con dedizione è ciò che durerà per sempre.
Individuare i propri bisogni è la base.
Scegliere di amare, chi amare e come farlo, è l’obiettivo.
Sentirsi liberi di farlo è il privilegio.
Trovare qualcuno disposto a lasciarsi amare è il dono.


 

VerbErrando: La memoria

ROMA – Ogni mese un’area della poesia, per conoscere i pensieri, i le parole e i poeti che hanno fatto il Novecento in Europa. Ogni mese un tema e un bouquet di voci,  declinazioni e interpretazioni che hanno parlato di quei temi. Questo mese, come da “metrica dei giorni” la memoria.


La memoria


L’inconscio e il suo dinamismo, Bergson e l’ irrazionalismo da una parte e Freud con la psicanalisi dall’altra, in mezzo la memoria e la volontà, l’esperienza e la coscienza. Questo era lo scenario che si presentava nel Novecento, quando l’uomo, sebbene in possesso di un’identità stabile,  trovava la sua definizione nella memoria. E così l’ inquietudine, lo smarrimento, e poi il dibattimento tra la negazione e l’evocazione della Memoria stessa. La poesia, nel Novecento, si fa baluardo di questa inquietudine esercitandosi sul terreno della memoria individuale, collettiva e storica, attraverso una lirica melanconica, lamentosa, che rimpiange un “tempo perduto” cercando di rintracciare nelle parole, immagini e mondi scomparsi.
“Quando il viaggio investe la ridefinizione del proprio vissuto, il mezzo ideale che ne consento lo svolgimento è la Memoria.” (Pegorari “Metrica dei Giorni”)
La memoria come nostalgia,  di una terra lontana e amata, un tempo posseduta e non più goduta,  come “Vento di Tindari” di Salvatore Quasimodo:
“Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.


Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima […]”


La relazione con la persona oggetto del ricordo si interrompe e la memoria costituisce il tramite per la conservazione del vincolo. Un vincolo che si vorrebbe sradicare,  così come la presenza della persona  dalla propria vita, e quindi  lottare contro la propria memoria che ci rimanda, ineludibilmente, sempre le sue immagini:
“Perché tu non mi veda –
In vita – di spinosa invisibile
Siepe mi circondo.

Di rovi mi cingo,
in brina – scendo.
Perché tu non mi senta –
Di notte – nella senile scienza
Del riserbo mi cimento.


In mormorio – mi stringo,
di sussurri mi bendo.
Perché tu troppo non fiorisca
In me – tra libri: tra boscaglie –
Vivo – ti affondo.


Di fantasie ti cingo
Fantasma – ti sricordo.”
(Marina I. Cvetaeva “Perché tu non mi veda”  tratta da “Dopo la Russia” (1928)


Oppure un vincolo che si vorrebbe mantenere, possedere di nuovo. E’ la speranza di un suo ritorno, in questo caso, ad affacciarsi, qui, con il tema dell’attesa, nutrita proprio dalla memoria, che si presenta grassa di tracce e di promesse speciali.
“<Ti perderò come si perde un giorno
Chiaro di festa: – io lo dicevo all’ombra
Ch’eri nel vano della stanza – attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo>.
Tu guardavi il giorno
Svanito nel crepuscolo, parlavo
Della pace infinita che sui fiumi
Stende la sera della campagna.”
(Alfonso Gatto “Parole” tratta da “Poesie”)


La memoria e il suo esercizio, per delineare le linee della propria coscienza e cercare un posto buono in cui stare. Ma per gli alcuni, come Caproni, Montale, è inutile nel suo fine di assegnare sapienza all’uomo, visto che il ricordo, comunque, non assolve al bisogno principale, quello del possesso. I luoghi e le cose che il soggetto ha vissuto e veduto, nonostante la memoria, restano non possedute, quindi inesistenti:
“Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato.”
(Giorgio Caproni “Esperienza” tratta da “Il muro della terra” (1964-1975)


Infine, la memoria per ricordare, commemorare (cum memorare, ricordare insieme) il passaggio di qualcosa o di qualcuno che fece parte della nostra esperienza: Anna A. Achmatova, poetessa, madre e moglie, testimone e vittima del totalitarismo stalinista, non dimentica di aver avuto compagni di sofferenza, sebbene siano svaniti dalla memoria i loro nomi. Qui la memoria non si fa strumento di un dolore personale, ma del dolore storico e della lotta per la libertà:
“[…] Avrei voluto chiamare tutte per nome,
ma hanno portato via l’elenco, e non so come fare.

Per loro ho intessuto un’ampia coltre
Di povere parole, che ho inteso da loro.

Di loro mi rammento sempre e in ogni dove,
di loro neppure in una nuova disgrazia mi scorderò,


e se mi chiuderanno la bocca tormentata
con cui grida un popolo di cento milioni,


che esse mi commemorino allo stesso modo
alla vigilia del mio giorno di suffragio.


E se un giorno in questo paese
Pensassero di erigermi un monumento,

Acconsento ad esser celebrata,
ma solo a condizione di non porlo

Né accanto al mare dov’io nacqui:
col mare l’ultimo legame è reciso,

Né nel giardino dello zar presso il desiato ceppo,
dove l’ombra sconsolata mi cerca,

ma qui, dove stetti per trecento ore
e dove non mi aprirono il chiavistello.

Per anche nella beata morte temo
Di dimenticare lo strepito delle nere “marusi”

Di dimenticare come sbatteva l’odiosa porta
E una vecchia ululava da bestia ferita. […]”

 

Chiudo questa piccola raccolta sulla memoria usando le parole di Auden tratte da Blues in memoria (Funeral Blues), musicata da Benjamin Britten per “The Ascent of F6”, uno dei tre lavori teatrali che Auden scrisse in collaborazione con Christopher Isherwood. Parole tristi e senza speranza, un’altra, alta, forma di commemorazione dove la poesia tocca le vette più elevate dello struggimento e, con lui, della bellezza semantica e semiotica. In doppia versione, per donare al lettore il prezioso originale di uno dei poeti più imperdibili dello scorso secolo.


BLUES IN MEMORIA


Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.


Incrocino gli aeroplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.


Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.


Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare.


FUNERAL BLUES

Stop all the clocks, cut off the telephone,
Prevent the dog from barking with a juicy bone,
Silence the pianos and with muffled drum
Bring out the coffin, let the mourners come


Let aeroplanes circle moaning overhead
Scribbling on the sky the message He Is Dead,
Put crêpe bows round the white necks of the public doves,
Let the traffic policemen wear black cotton gloves.


He was my North, my South, my East and West,
My working week and my Sunday rest,
My noon, my midnight, my talk, my song;
I thought that love would last for ever: I was wrong.


The stars are not wanted now: put out every one;
Pack up the moon and dismantle the sun;
Pour away the ocean and sweep up the wood.
For nothing now can ever come to any good.


VerbErrando: Ritorni

Veruska Armonioso
ROMA
– Parola d’onore. Onore di uomo che da poco ha scoperto quanto la barba, non curante, cresca, ogni giorno. Che nonostante tu sia lì, pronto a reciderla, lei non ti vede e continua a fiorire, più forte, più testarda di sempre. Ti copre le rughe di questi nuovi trent’anni, ti avvolge i segni di ferite assopite e nasconde al tuo sguardo le fossedei colpi ancora da assestare. Parola d’onore, onore a te, parola ascoltata da queste mie orecchie, pronunciata dalle tue labbra semichiuse in un semiaperto alito di essenza alla lavanda e cocco che dondola sul polpastrello del mio anulare come fede, incrollabile, quando mi perdo nella scia della sua suggestione. Poi, di colpo, il vento, cade giù e all’anulare rimane solo fede solida e consapevole di passato prossimo vivo in presente lievemente nitido. Questa fede, più certa che fidata, fatta di concreta tridimensionalità e per questo sicura, mi dice di non muovermi di un solo gemito e rimanere lì, in oscillazione sull’accordo sbiadito di un ritornello che non suona mai ma echeggia senza sosta..
Quanto dura l’emozione? La descrizione dell’attimo che finisce proprio mentre inizi a pensarlo, è inespressa perché inutile o perché troppo vasta per essere anche solo parlata? E l’attimo, minuto ma non minuto, è inafferrabile perché imperituro o perché veloce? e poi la vita. Quanti attimi fanno una vita? E comunque, sempre e solo lei, la principessa di tutti i rebus, la domanda che vale un nome: “a cosa credere? Cosa sentire dentro di me?” Chiedermi incessantemente se nord o sud sia la direzione giusta, mi aiuterà a capire dove andare? Chiedermi se rincorrere il caldo o il freddo, se il caldo durerà per sempre o se il freddo smetterà mai, mi aiuterà a decidere? Forse che la risposta giusta non esista? Forse che l’unica risposta giusta sia di cambiare la domanda? E allora, ora, mi chiedo: “fin dove sarei disposto a raggiungermi qualora mi smarrissi?”.
Potrei perdermi dietro l’angolo e ritrovarmi in un secondo, vivendo, nel mentre, la vita che conosco e che ho scelto di attraversare oppure… oppure altrove, non so dove, in un qualche dove, ma lontano da qui. Vivere per ciò che non conosco, ma che so esistere. Sicuro di niente se non di dove voglia arrivare che coincide ineludibilmente con dove dovrei andare a riprendermi nel caso in cui mi perdessi. Se mi perdessi, mi troverei? Ma prima ancora, mi andrei a cercare? Avrei voglia di correre in mio soccorso dall’altro capo dei mondi? Avrei voglia di gridare il mio nome tanto forte da riuscire a sentirmi? Sarei disposto a fare uscire le branchie e nuotare i mari o palmarmi le braccia per volare i cieli solo per ritrovare me? In una corsa dove se vinci, vinci tutto e se perdi, perdi ogni cosa tu… sì, proprio tu, tu, dove sarai? Quando arriverà il tuo momento, quello in cui, stremato dagli eventi, affaticato dal male di vivere, appesantito dai giorni e pieno di chilometri nei piedi, tirarti indietro ti sarà impossibile; quando arriverà quel giorno in cui la vita ti chiamerà all’appello e ti dirà: “L’occasione è qua, eccola!”, tu, che farai? Fin dove sarai disposto a spingerti? Fin dove sarai disposto ad andarti a cercare? Sarai pronto a spogliare il tuo mondo? Sarai preparato a lottare di nuovo? Avrai fiato per gridare il tuo nome? Quanto forte sarai capace di gridare il tuo nome? Ma sopra a tutto, tu, in quel preciso istante, te lo ricorderai ancora il tuo nome?
Un nuovo anno sta per cominciare, l’occasione è lì, ci aspetta. Una nuova vita o una nuova scelta della stessa, ma con un proposito: ricordarci sempre di domandarci se dove siamo sia o meno il luogo giusto. E se non lo è, laddove sia possibile, alzarsi e andare via. Senza retorica o spiccia didattica, inizio questo nuovo anno con dei passi, dieci passi verso un nuovo inizio, dieci passi per tarare la mia bussola e sapere dove poter andare quando mi dovrò alzare.
Un passo per far cadere le foglie secche, che servono solo a dare colore e non vestono nemmeno più. Un passo per imparare a vedere i rami nudi, capire che non fa freddo e che spoglio non è vuoto.
Un passo per sopportare il gelo e la neve, che è leggera sì, ma pesa più del piombo e raffredda peggio di una parola bastarda.
Un passo per ‘mandare giù’ il ritorno della primavera, le giornate mezze e mezze, il sole tiepido, i bambini che gridano nel parco. Un passo per attendere l’uscita delle nuove foglie, ancora quasi invisibili, ma già grandi per essere scrollate via. Un passo per far da balia alle nuove foglie che fanno capolino dai rami, ché sono piccine e, si sa, vanno seguite. Un passo per farsi pronti a godere nel vederle verdi, forti e fiere, autonome; un passo per farsi forti quando punteranno i piedi,sono giovani, si sa, danno problemi. Un passo per farsi umili, sono quasi grandi ora e vogliono che ascolti le loro ragioni, e accettare la mediazione, rinunciare non vuol dire perdere.
E poi l’ultimo passo, il più difficile: ora che i tempi sono maturi, smettere di difendersi e cominciare a godersi.
Alla prossima settimana con Verberrando!

VerbErrando: Costruzioni – Viaggio tra lego e surrealtà

Veruska Armonioso
ROMA
– Finalmente anch’io possiedo i Lego.
Sembrerà sciocco provare piacere nel possedere qualcosa di tanto infantile, solo che in trentaquattro anni non ne avevo mai posseduto nemmeno un pezzo e invece io lo desideravo tanto. Quando ero piccola, mia madre si era sempre rifiutata di comprarmi palloncini pieni di elio e Lego. Dei primi detestava il rapporto costo/vantaggio, sostenendo che cinque mila lire per un palloncino che si sarebbe sgonfiato in meno di dodici ore fosse uno spreco; dei secondi riteneva che, come gioco, fossero ben al di sotto delle loro pretese. Di fatto, tutti i miei compagni di classe e amichetti ne possedevano almeno una scatola. Tutti li avevano, tranne me. Io non riuscivo a capire come fosse possibile che mia mamma non capisse quanto fossero importanti i Lego per un bambino, quindi le chiedevo spiegazioni di continuo, ma lei sosteneva che ero vittima di una moda e che, se proprio avessi voluto costruire, lo avrei potuto fare con il legno o gli stecchini, i cerini o gli stecchi di ghiacciolo o di gelato cremino. Allora giocavo, di tanto in tanto, con qualche Lego della mia vicina di casa, sempre di nascosto da mia madre e sempre più anelante di pezzi miei. Di fatto, negli anni, sviluppai altri modi per imparare a costruire. Delle costruzioni imparai ad apprezzare la perfezione degli incastri, la consapevolezza che, se avessi seguito le istruzioni, tutti i tasselli, con un’estrema facilità, sarebbero andati al loro posto e che il disegno sarebbe stato completato. Solo che diventai quella che io definisco una figlia dell’Ikea, una costruttrice capace di alzare palazzi solo disponendo di un libretto delle istruzioni. Giocando ieri sera con i lego, ho scoperto che non sono capace di costruire niente affidandomi alla fantasia, niente che non esista, senza seguire delle indicazioni. Strano, se si pensa che, da scrittrice, creo di continuo, ma in realtà costruisco emozioni, pensieri, suggestioni, sentimenti, storie che conosco, assortendole a mio piacere e con funzionalità; ma in questo non c’è niente di inesistente, niente di puramente fantasioso. Ho capito, allora, che tutto era dipeso proprio da quei Lego. Da piccola non avevo avuto l’occasione di esercitarmi a creare, a costruire affidandomi solo alla mia immaginazione.

Ora che possiedo i Lego intendo giocarci per tutta l’estate. Sarà il mio esercizio di stile e, insieme a questo esercizio, leggerò. Leggerò storie di fantasia, di fantascienza, surreali, perché voglio recuperare quel gusto, voglio essere capace anche io di vedere ciò che non c’è e metterlo su, come un aereo senza ruote che atterri su un cuscinetto cibernetico invisibile. Questo lungo cappello per augurarvi buone vacanze con una selezione letteraria a voi dedicata al gusto di costruzione fantastica.
“La casa del sonno” di Jonathan Coe è una delle mie prime scelte, per invitarvi a perdere il libretto delle istruzioni. Un saggio di spettacolare ricostruzione realistica affiancata a una costruzione di pura immaginazione. “Il linguaggio è un traditore, un agente segreto doppiogiochista che scivola inavvertito tra un confine e l’altro nel cuore della notte. E’ una pesante nevicata su un paese straniero, che nasconde le forme e i contorni della realtà sotto un manto di nebuloso biancore. E’ un cane azzoppato, che non riesce mai a eseguire correttamente gli esercizi richiesti. E’ un biscotto allo zenzero che, lasciato a inzupparsi per troppo tempo nel tè dei nostri auspici, si sbriciola, si dissolve, diventa niente. E’ un continente perduto.”


“L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, una raccolta di racconti basati su storie di pazienti neurologici visti come figure archetipe, “viaggiatori diretti verso terre inimmaginabili, terre in cui altrimenti non avremmo idea, che non potremmo raffigurarci”. Questi personaggi e le loro storie possiedono una connotazione così tanto fiabesca da portare naturalmente il lettore a scegliere come epigrafe l’immagine di Osler di Mille e una notte, facendo perdere la consapevolezza che si tratta di casi clinici, facendoli percepire come vere e proprie storie, favole, una sorta di “scienza romantica” come la definiva Lurija.
“Che cosa c’è che non va?” gli chiesi infine.
“Che io sappia niente” rispose con un sorriso “ma secondo gli altri avrei qualcosa gli occhi”.
“Ma lei non accusa nessun problema alla vista?”.
“No, direttamente no, ma a volte faccio un po’ di confusione”
. Uscii un istante dalla stanza per parlare con la moglie, quando rientrai il dottor P. era tranquillamente seduto vicino alla finestra, e più che guardare fuori, ascoltava attento “Il traffico…” disse “… i rumori della strada, i treni in lontananza…Formano una specie di sinfonia, non le pare? Conosce Pacific
Di Honegger?” […] Gli avevo tolto la scarpa sinistra e sfregato la pianta del piede con una chiave, poi mi voltai ad avvitare l’oftalmoscopio, in attesa che lui si rimettesse la scarpa. Dopo un minuto mi accorsi con sorpresa che non l’aveva ancora fatto. “Posso aiutare?” chiesi.
“Aiutare chi? A fare cosa?”
“Aiutare lei a mettersi la scarpa”
“Oh…” disse “…avevo dimenticato la scarpa” e aggiunse sotto voce “La scarpa?” con aria sconcertata.
“La sua scarpa, non deve rinfilarsela?”
Lui guardava sempre in basso, non la scapra però, con una concentrazione intensa ma male indirizzata. Infine il suo sguardo si posò sul piede: “E’ questa la mia scarpa, vero?”
“I miei occhi…” spiegò, e si mise una mano sul piede “… è questa la mia scarpa, no?”
“No, quello è il suo piede. La sua scarpa è lì”.
“Ah! Credevo che quello fosse il mio piede…”


“Scacciata dal paradiso” di Gianna Manzini, una raccolta degli articoli più belli scritti da questa autrice e intellettuale del Novecento che ci regala uno spaccato culturale e sociale dell’Italia degli anni sessanta con un linguaggio e una leggerezza che rende questo libro un piccolo gioiello di ovatta. Perfetto per tutte le donne che hanno voglia di leggere le parole di una saggia e meravigliosa donna che dell’eleganza e del garbo fece la sua bandiera.
“Alaim dichiarava che l’educazione ss’impara con la danza. Chi non sa ballare crede che la difficoltà consista nel conoscere le regole della danza e nel sottomettere ad esse i movimenti. Ma il segreto consiste nell’arrivare a ballare senza rigidezza, senza impaccio, e per conseguenza senza paura. Così per le ormai sancite e spesso derise regole di buona educazione:: conoscerle significa appena  trovarsi alle soglie d’una superiore disinvoltura.A riscontro dell’affermazione di Alaim, mi piace ricordare quella di un grande pittore: Chardin. A un poeta seccante e mediocre, che vantava la propria meticolosità nella cura e nella scelta dei colori, disse a bruciapelo: “Perché lei, scusi, dipinge con i colori?”
E l’altro, sbalordito: “E lei, con che dipinge?”
“Col sentimento: dei colori, io, me ne servo”.


Infine, un libro per gli appassionati di immagini. “Monsieur Cent tetes” di Ghislaine Herbera.Un libro di maschere, un viaggio antropologico dentro la poesia e la magia della metafora, dove la fantasia delle immagini (tutte rigorosamente tratte da maschere tradizionali esistenti, provenienti da tutti i paesi del mondo) viene messa a servizio di Signor Senza Testa che cambia Testa/Maschera a seconda dello stato d’animo che lo anima.

 

Che queste vacanze siano un tempo di riposo, il tempo per  recuperare tutto quello che da bimbi avete perso o mancato, costruendo con fantasia e audacia i vostri giorni, e mantenendo sempre noi di ChronicaLibri tra le vostre pagine.
Buone vacanze!

VerbErrando: Così in terra – l’out of the blue del 2012

Veruska Armonioso
ROMA – “Sai cosa vorrei? Rubare il freddo dell’inverno, accussì, quando viene lo scirocco, avrei sempre un po’ di sbrizzìo di vento sulla pelle e sul cuore. Di una storia, invece, vorrei ricordare solo gli attimi prima. L’attimo prima di pescare il pesce, l’attimo prima di toccare le mìnne, l’attimo prima di assaggiare l’arancia. Poi, se un giorno imparo a scrivere, mi inventerei una storia tutta di “non”: quando non sono partito, non ti ho salutato, non sono andato altrove, non lavoravo sotto un padrone e quando non ci fu la festa di piazza, non ballai con una femmina troppo bona, non ci posai un bacio in bocca lungo e sapurìto e lei non mi disse subito: baciami ancora, amore mio.”

Ci sono sapori di tanto tempo fa, quando avevi ancora qualcuno da amare in modo viscerale e semplice, senza sofisticazioni, particolari attenzioni, forzature, estetica. Quel qualcuno da amare aveva il sapore di vecchio, di trascorso, di liso, ma liso per usura, non per strappo. Se non perdi non sai cosa vuol dire restare senza, e se perdi impari cosa vuol dire ricordare. Tra i ricordi di chi c’era prima e l’intuizione di chi arriverà, ci sei tu. Con i tuoi sogni, le aspettative, i progetti, i sentimenti. Tra i ricordi di chi c’era prima e chi arriverà c’e il tuo presente.
Ho appena terminato il mio presente con lui che è diventato, da qualche minuto, chi c’era prima. Ora ci sono io. “Così in terra” di Davide Enia è il mio lui,  il mio out of the blue letterario di quest’anno.

Quando mi chiedono come editor e agente letterario con che criterio scelga i romanzi su cui lavorare, io rispondo sempre allo stesso modo.
Un libro deve possedere il mistero degli dei, la percezione che contenga una rivelazione dentro di sé a rilascio lento.
Poi, deve possedere una grande umiltà linguistica, perché la sofisticazione non deve mai essere artifizio stilistico, lo scrittore è come un pugile, se ti misuri con qualcuno devi sfoderare tutte le tue armi, ma fuori dal ring “non devi mai approfittare della tua superiorità, sennò sei un uomo di merda”.
In fine, deve essere universale, vale a dire giusto per tutti, senza nicchie, caste, gruppi o elite di preferenza. Arrivare a quante più persone possibili parlando a tutti, questa è la missione: “le parole servono sempre, basta che siano esatte. Quando un messaggio non passa è perché il vocabolario dell’interlocutore non contempla quelle parole”.

“Così in terra” è una lettura a più livelli, a strati: più a fondo vai più significati trovi, proprio come accade nella vita vera, in cui gli eventi puoi leggerli in modi diversi, a piani diversi a seconda degli occhi con cui li guardi. Ché poi la letteratura e, prima ancora la poesia, sono proprio questo, simulazioni di vita, di altre vite possibili, sognate, desiderate, odiate, temute, ma vite, pur sempre vite.
“Nicola disse che lui sarebbe rimasto lì, avrebbe continuato a curare le piante della campagna, non avrebbe smesso di affondare le mani nella terra e, quando le cose non sarebbero andate come è giusto, amen, avrebbe ricordato i momenti felici. Lui, i libri non li aveva letti. Lui conosceva solo il senso del proprio lavoro, che stava tutto lì, nell’osservare il campo seminato sapendo che non oggi, non domani, ma tra un po’, se curale e coltivate, le piante sarebbero fiorite e avrebbero dato frutti. E allora, al tramonto, slacciarsi le scarpe, lavarsi le mani, riposarsi sulla sedia buona e versarsi il vino per berlo con lentezza. Si chinò a raccogliere una pianta grassa. Era così piccola che il vaso stava tutto nel palmo.
< Te la regalo. Questa, ti fiorisce tra ventidue anni. E’ forte, ti assomiglia, non ha bisogno di niente, manco dell’acqua, un sorso ogni tre settimana d’estate e, se la curi bene, ecco.>
Ventidue anni per un germoglio. Obbligava a osservare oltre l’orizzonte degli eventi. Rosario la accarezzò. La pianta non lo punse”… è così che una pianta grassa che germoglierà tra ventidue anni diventa una fede nuziale, un sabato pomeriggio a pulire casa con la tua persona un rito privato di condivisione di intimità e un libro da leggere un’occasione.
Allora, quando mi chiedono come editor e agente letterario con che criterio scelga i romanzi su cui lavorare, io rispondo sempre allo stesso modo: il libro che scelgo deve essere un’occasione.
“Così in terra” lo è, in ogni riga, di ogni pagina.

Tre uomini, tre vite di maschi siciliani che non potrebbero essere altro se non siciliani, perché orgogliosi  e spavaldi, autentici e disincantati, prodotto di eccellenza di quella terra che ha visto cose che nel resto dell’Italia nemmeno immaginiamo. Solo che “Così in terra” non te lo fa pesare, non te la fa pesare. Non ti fa pesare niente. Non i cinquant’anni di storia lungo i quali ti fa cavalcare, non la prigionia in Africa, non la fame, non le bombe della Mafia, non la morte. Ti fa godere, dell’atro che trovi, di tutto quello che è Palermo, da cinquant’anni fa al 1992. Il dolce delle arance, la dedizione del pugilato, il mistero incantato delle puttane, il rispetto per il più forte e poi la concretezza dell’amicizia, senza viatici, senza dolcificanti: se c’è da picchiare, si picchia, se c’è da ammazzare, si ammazza, se c’è da abbracciare si abbraccia.
L’amicizia è la bandiera di questo romanzo, nelle sua forma migliore, quella della solidarietà, dell’onestà intellettuale, della semplicità delle intenzioni, quella della condivisione:
<“Sai cosa, Poeta? Dovremmo parlare a colori. Risparmieremmo parole e uno dal colore capirebbe tutto. Basterebbe conoscere i colori dei sentimenti.>
<Non è una cattiva idea.>
<E’ colorata. Comunque, Poeta, stai tranquillo, ci sono io con te.>
<Sul ring però i pugni li piglio tutti io.>
<Non è vero.>
<Come no?>
<Tu prendi sul corpo i pugni di carne, noi quelli invisibili all’anima. […] i pugni invisibili colpiscono diritto al cuore e fanno male uguale.>”
Quel senso supremo di amore tra esseri umani, che è essenza di tutte le relazioni. Quel senso di comunione che rende un’unione vera e indissolubile:
“<Poeta, come si scrive una poesia?>
<Una parola dopo l’altra.>
<E di cosa c’è bisogno?>
<Una penna e un foglio bianco.>
<Ma le ascrivi più tardi una poesia pure per me? Se mia madre era ancora viva, stasera era felice se tu vincevi perché significava che pure io ero contento.>
<Hai sbagliato tutti i tempi, Gerruso.>
<Non importa, la felicità va oltre il tempo. Per questo, io, ora, sono un po’ felice perché tra un po’, forse, c’è la nostra vittoria.>
<Nostra?>
<Sì, il tuo soprannome l’ho inventato io. Te la posso chiedere un’ultima cosa e poi basta?>
<Amunì.>
<Vinci anche per me, stasera, ne ho bisogno.>

Vent’anni fa, alla fine di questo libro, muore Borsellino. Questa settimana appena trascorsa ci ha visti, ancora una volta, in silenzio. Non un silenzio contemplativo, non un silenzio partecipe. Un silenzio di dimenticanza. Falcone ce lo ricordiamo perché è a maggio, e a maggio si è ancora un po’ (ma giusto un po’) più svegli, ma a fine luglio, signori, a fine luglio tra poco arrivano le vacanze, e poi c’è la stanchezza e poi ci sono i bimbi a casa da gestire perché le scuole sono chiuse e poi ci sono le sagre di paese e il mare nel fine settimana. Va bene non interrompere la vita, ma vent’anni sono tanta roba, signori. Vent’anni di silenzio, poi, sono ancora più che tanta roba. Vent’anni di silenzio sono troppi.
“Le guerra prima risiedeva nei racconti dei sopravvissuti, in quelle memorie tramandate la domenica pomeriggio dopo pranzo. Gli sventramenti ancora visibili nel centro della città ricordavano che sì, una guerra c’era stata, aveva distrutto ma era finita. L’esplosione di una bomba, invece, riconsegnò la guerra al presente. Fu il punto di non ritorno, assolutamente non paragonabile agli spari delle pistole. Non si poteva più far finta di niente. La quotidianità fu stravolta, così come la città, che subì una militarizzazione massiccia. […] Cambiare strada per un’intuizione improvvisa, diffidare delle facce estranee, provare ansia quando sotto casa si trovava parcheggiata un’automobile mai veduta prima. Le sirene delle voltanti risuonavano dappertutto, a ogni ora del giorno, a ogni ora della notte. Nessuna aveva cuore di dirlo, ma si attendevano nuovi attentati di Mafia. Ci volle solo un mese e mezzo perché la profezia si compisse. Un’altra bomba scoppiò, eppure Palermo non si svuotava. L’unica certezza di quella guerra fu che uscirne illesi era di per sé un fatto meritevole di lode.”

E così, questo è il mio consiglio di lettura per i prossimi giorni. Uno dei libri che ha maggiormente contribuito alla costruzione della mia coscienza. Scritto da un uomo che sa che “non vince mai il pugile con il braccio più forte, ma quello più veloce, nel corpo e nel pensiero, perché possiede un vocabolario del movimento più ricco”.
Uso Davide Enia per ricordare Borsellino, non perché sia un libro sulla Mafia, ma perché sono felice che questa rivelazione sia avvenuta proprio in questi giorni di memoria, a darmi strumenti nuovi per capire una gente, quella siciliana, che non uguale a nessun’altra. Mi vengono alla mente altri amici scrittori, come Barbara Ottaviani, amici scrittori siciliani che portano dentro di loro questa saggezza ancestrale, questa centratura emotiva, questa eredità genetica che li rende fieri e unici, lucenti e profetici. Le loro parole sono preziose perché scelte, loro sanno cosa vuol dire scegliere e lo fanno ogni giorno della loro vita. E allora lascio a Davide Enia il finale di questo editoriale, il suo punto di vista sulle parole, attraverso… parole.
“Con il tempo avrei capito come, nella comunicazione tra esseri umani, il senso transiti soltanto al livello minimo attraverso le parole. Nel sesso, per esempio, i corpi raccontano più e meglio: le smorfie, l’eccitamento, il gusto, i gemiti, il sudore. Oppure quando termina un rapporto. Pochissime esperienze sono così narrative come il silenzio tra due persone che si sono appena lasciate. Eppure nella certificazione dell’abbandono, finalmente ci si ascolta a vicenda, in un silenzio pure perché assoluto. E si comprende che l’abisso rappresentato dall’altro non è masi stato esplorato.”

 

“Se c’è una cosa che la Mafia non ha, ed è quello che prima o poi la fotterà, è la capacità di capire la bellezza.”
Davide Enia, Così in terra. Dalai editore, 2012

“VerbErrando”: The sound of silence

                                           Veruska Armonioso
ROMA
“La mia capanna è nascosta
in una foresta profonda, di anno in
anno sempre più impenetrabile.
Non uno dei rumori del mondo
mi giunge se non, talvolta, il canto
lontano di un boscaiolo.
Quando splende il sole, mi rattoppo
il vestito.
Al chiaro di luna, leggo poesie.
Se mi è consentito un consiglio:
non perdete la vita a correre
dietro a tante inutili cose”
Ryokan

Avevo considerato per anni la mia vita come palco della mia essenza e le mie parole come manifestazione della mia vita, della mia intimità e della mia anima. Il mio percorso, le mie scelte, le mie paure, le mie forze, non provenivano che dal mio esperienziale e da un’eredità trans-generazionale che mi portavo dietro come una sorta di appendice invisibile, un joy stick che  comandava i miei movimenti e le mie azioni. La mia vita era il mio paradigma e la mia mente era la mia maestra. Io potevo comandare con la razionalità ogni passo ed elaborarlo, intimamente guidata dalla saggezza della ragione ed esprimerlo con parole, all’occorrenza ferme e ponderate o vivaci e appassionate. Niente poteva interferire tra me e questo processo di esternazione, io avevo il controllo pieno e completo delle mie emozioni e della mia mente e niente sarebbe andato diversamente da come io avrei progettato per me. Avevo vent’anni.
Poi terminarono relazioni, rapporti di lavoro, famiglie. Cambiai case, uffici, letti, e scoprii le paure e che quello che mi portavo dentro non proveniva solo da me, che non era influenzato solo da me. “Devo aver vissuto altre vite, altrimenti perché tanto spavento? Le esistenze anteriori sono l’unica giustificazione del terrore. Solo gli orientali hanno capito qualcosa dell’anima[…] Espiamo in una sola vita il divenire dell’infinito.” (Cioran, “Lacrime e Santi”).  Questo era quello che Cioran mi aveva suggerito e di cui mi ero lasciata convincere. Così avevo cominciato a pensare che doveva esserci qualcosa al di fuori di me o al di là di me, fosse anche una me antecedente o parallela, che influenzava tutte quelle paure che possedevo e che non avrebbero avuto ragione di essere se fosse dipeso solo dalla me “presente”. 
Negli ultimi anni, però, una nuova paura era entrata a farsi largo. Questa paura, che non rappresentava più terrore verso qualcosa o verso qualcuno, inquietudine di vivere o di morire e nemmeno ansia di perdere qualcosa o qualcuno, era una paura inedita e, quindi, più spaventosa. Io avevo paura di essere derubata e temevo di incontrare sul mio cammino o, peggio ancora, di accogliere nella mia vita, dei ladri.
Era strano per me possedere questa paura, perché il furto era qualcosa di cui non mi ero mai curata molto. Capitava sovente che mi lasciassi derubare di qualcosa e, pur accorgendomene, decidevo di non oppormi. Mi ero accorta che ciò di cui venivo derubata cresceva progressivamente di valore;  dapprima erano cose di poco conto tipo il tempo o favori, poi erano diventate cose sempre più preziose come il sorriso, le notti, fino ad arrivare al sonno, ai sogni e, infine, la speranza. I fantomatici “ladri” avevano sempre più approfittato di questa disponibilità-noncuranza e io li avevo lasciati fare, pensando di essere ricca abbastanza per provvedere, all’occorrenza, alle indigenze altrui e restare, comunque, a pancia piena. Fu, però, quando mi accorsi di non riuscire più a sperare in qualcosa che cominciai ad avere paura: l’indigente, adesso, ero io, a me non era rimasto niente, si erano portati via tutto. Così, costruii una fortezza dentro la quale mi barricai, senza un piano ben preciso, ma con il fermo intento di diventare irraggiungibile e, quindi, non farmi portare via più niente di ciò che mi era rimasto.
Ero ripartita con poco: qualche ambizione, un mezzo bicchiere di entusiasmo e un sacchetto da mezzo chilo di silenzio. Il silenzio era diventata la mia partenza. Con questi presupposti era molto  facile restare da soli, ma non ne soffrivo perché ero disposta a restare senza persone pur di non restare più senza le ultime ricchezze che possedevo. Le parole erano un valore ed erano quanto di più prezioso mi fosse rimasto, così decisi di trattenerle dentro di me e di non usarle se non quando fosse davvero indispensabile. Come diceva Sandor Marai, chi avesse voluto comunicare con me, lo avrebbe potuto fare in un altro modo, in un modo nuovo.  “Si può entrare in contatto con le persone anche senza parlare.[…] c’è un modo di entrare in contatto tra esseri umani più percettivo e affidabile della parola, fatto di sguardi, silenzi, gesti e messaggi ancora più sottili; è il modo in cui un essere umano nel suo intimo risponde al richiamo di un altro, quella silenziosa complicità che nel momento del pericolo dà alla muta domanda una risposta più inequivocabile di qualsiasi confessione o argomentazione, e il cui senso è semplicemente questo: io sono dalla tua parte, anch’io la penso così, condivido la tua preoccupazione, noi due siamo d’accordo…”  (Sandor Marai, “Liberazione”)
Poi, accadde l’imprevedibile, perché “Le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, di  entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali” . (Luigi Pirandelo, “Il fu Mattia Pascal”)
Qualcuno, zitto come me, cominciava ad affacciarsi e insieme a me restava zitto, cercando nuovi codici e nuovi modi per “entrare in intimità”. Così scoprivo che le mie paure erano anche le paure degli altri, che la paura di essere derubati è la più comune, ma è anche la meno facile da individuare. Che una volta che la scopri, cominci a vedere ladri ovunque. Ma scoprivo anche che se si ha paura di essere derubati, difficilmente si sarà in grado di rubare e, quindi, se si incontra qualcuno che ha paura di essere derubato, facilmente potrà essere un donatore e lo potrai lasciare  entrare. Scoprivo che la mia mente poteva essere la mia maestra, ma che senza le mie paure non avrei imparato niente e che la paura era l’alleata più importante che avessi e che l’avrei sempre dovuta tenere vicino a me.
E così ricominciai a parlare. Perché le parole sono importanti. E ricominciai a parlare a voce alta, perché i suoni devono essere echi. E non ebbi più paura di parlare a tutta la gente, perché le parole, le mie parole, erano mie, anche se qualcun altro se ne fosse appropriato.
Perché se capisci che l’unica cosa che ti serve davvero per vivere non può essere rubata, i ladri non esistono più.
Fu così che mi aprii di nuovo alla vita.
“Avendo vissuto in solitudine e nella più totale indigenza, avendo rifuggito gli onori e gli intrighi della vita mondana, Ryokan divenne il monaco zen più celebre del suo tempo. Le sue calligrafie sono conservate nei musei, le sue poesie fanno parte di tutte le antologie. Ed ecco come gli fu ispirata la sua poesia più famosa.
In una fresca notte d’autunno, Ryokan dormiva sul suo eremo di Goggò-an. Svegliato da una ventata gelida, si accorse che la sua coperta era scomparsa. Alla  luce madreperlacea della lune che rischiarava l’interno della capanna, scoprì che un ladro gli aveva portato via ogni cosa. […] Ryokan aveva capito che il ladro doveva trovarsi in un’indigenza ancora più grande della sua, visto che gli aveva trafugato anche la coperta rappezzata. Ma il Grande Idiota Misericordioso apprezzava sopra ogni cosa il poter contemplare l’astro notturno […] Allora, con un sorriso bonario, improvvisò questo haiku:
“Una cosa il ladro
Non ha potuto rubarmi:
la luna che splende alla mia finestra”  
(Pascal Fauliot, “Racconti dei saggi del Giappone”)

VerbErrando: C.C.C.P.

Veruska Armonioso
ROMA
– “L’Unione Sovietica non è stata solo un Paese, è stata molto di più. E’ stata il più grande progetto utopico della modernità Un Paese in grado di meravigliarti, di affascinarti con un fascino che lascia tracce e ferite profonde.”

C.C.C.P. Сою́з Сове́тских Социалисти́ческих Респу́блик o in italiano U.R.S.S., Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche: un mondo scomparso. Un mondo che non esiste più, per il quale “Non ci sono più treni, né aerei, né strade […]”. “Come direbbe la prima intelighezia rivoluzionaria degli anni successivia al 1918, in URSS non era l’arte a imitare la vita, era la vita che doveva farsi arte. Lì abbiamo interpretato tutti la più grandiosa partitura politica del XX secolo, scandita da slanci eroici, sforzi disumani, tragedie sconvolgenti, vittorie e sconfitte sanguinose.” Quello che cerca di fare Ernu è creare “un’archelogia soggettiva, personale, che intende suggerire tracce, stati d’animo, modi di pensare e di parlare tipici di una cultura, infine shizzare un quadro della mentalità culturale sovietica.” In “Nato in Urss” Ernu ci fa vivere l’avventura sovietica declinata per i diversi scompartimenti del vivere quotidiano, a partire dalla scuola, per passare alla musica, al bere, al sesso, fino ad arrivare alla pubblicità, alla propaganda, alla politica, alle “regole” del vivere comune. Dedica, poi, un capitolo a parte a “l’avventura sovietica degli oggetti”, a seguito di una conversazione con la critica e storica Ekaterina Degot:

“L’uomo nuovo doveva relazionarsi in maniera diversa sia con il mondo, che con gli oggetti della vita quotidiana. Era giunta l’ora di fondare un nuovo sistema per la produzione degli oggetti, ma anche per il loro impiego. Il modello che ispirava il nuovo modo di agire era già noto “Colui che produce è padrone, colui che consuma è schiavo.” Era tempo di produrre oggetti che non avessero uno scopo e un valore commerciale, ma che raprresentassero i valori della classe operaia, del lavoro e della fratellanza umana.” A dare il via a questo movimento furono Rodčenko e Majakovskij… e  con il nostro  vecchio amico Vladimir non posso non pensare alla letteratura di quegli anni, che Ernu non approfondisce nel suo fantasmagorico viaggio nelle memorie, ma che noi faremo qui, in breve.

Le cose stavano così: in URSS, negli anni trenta, gli scrittori servivano per esaltare i meriti e le vittorie del regime e per essere di sostegno alla propaganda politica ufficiale. Il commissario politico Andrej Aleksandrovič Ždanov si occupava di coordinare l’Unione degli scrittori, la vita letteraria e di orientare i temi da trattare. Questa corrente si chiamava realismo socialista e non dava molto scampo, o facevi così, come dicevano loro, oppure andavi in esilio. Nei casi più estremi potevi anche essere incolpato di cospirazione e cadere vittima delle “purghe staliniane”, morendo in un campo di prigionia come Mandel’štam, o giustiziato come Gumilëv.
“Ma per tutto ciò che ho avuto e ancora voglio avere
per tutti i miei dolori, e le gioie, e le follie,
come tocca a ogni uomo pagherò
con la morte finale e irrevocabile”
(Nikolaj Stepanovič Gumilëv, Il tram smarrito)

 

In quegli anni ci furono moltissimi scrittori che si “dedicarono” al realismo socialista. Più o meno ci provarono tutti, eccetto alcuni.  Gli “alcuni” sono quelli che  scrissero  la storia di questo mondo, che “si è fatta” non solo grazie alle restrizioni, ma anche (soprattutto) alle reazioni a quelle restrizioni. Una zip che, per salire su, ha bisogno di un doppio binario, a incastro, uno l’opposto dell’altro. Così, da una parte c’era il realismo socialista con uno strepitoso Gor’kij che passò tutta la sua vita a scrivere per la lotta contro la miseria, l’ignoranza e la tirannia e dall’altra loro, gli outsider, divisi in categorie, in rappresentanza delle quali, i membri a me più cari vi vengo a raccontare.
I Clandestini
Tutti i romanzieri che proseguirono in clandestinità la loro attività, senza uscire allo scoperto, senza pubblicare, per evitare censure o, nei casi peggiori, la morte. Tra loro il mio amore, Isaak Babel, che divenne scrittore proprio grazie all’incontro provvidenziale con Maksim Gor’kij, scrittore e drammaturgo russo considerato il padre della letteratura del realismo sovietico. Tra loro fu uno di quegli incontri che cambiano il corso della tua vita in modo ineludibile. Giornalista, traduttore, Babel vide l’inizio del compimento del suo ‘destino’ da clandestino quando pubblicò su LEF (“ЛЕФ”), la famosa rivista di  Majakovskij, alcune pagine tratte dal suo romanzo “L’armata a cavallo”  in cui descriveva con una brutalità feroce la guerra. Già quelle pagine vennero considerate “sovversive” dalle alte cariche, ma grazie all’intercessione dell’amico Gorky l’ordine fu ristabilito (ordine che durò ben poco). Nel 1930 venne a contatto con la crudeltà della collettivizzazione sovietica e con le sempre più incalzanti restrizioni del realismo sovietico staliniano,  decise così di ritirarsi dalla vita pubblica. Venne accusato di essere un ‘esteta poco produttivo’ e lui si difese asserendo di essere semplicemente il maestro di un nuovo movimento letterario, il genere del silenzio.

“Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza
di un punto messo al posto giusto”.

Il suo punto fu messo il 17 marzo 1941, in un campo di prigionia a Butyrka dove era stato  rinchiuso l’anno prima con l’accusa di spionaggio.
Autori nel Samizdat
Per Samizdat si  intendeva la letteratura “edita in proprio” che si sviluppò tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, sviluppatasi in Unione Sovietica e nei paesi soggetti al suo controllo, per diffondere scritti illegali censurati dal regime. Il meccanismo consisteva nell’utilizzo della vecchia carta carbone per copiare gli scritti e nella loro distribuzione tra gli amici che, a loro volta, si occupavano, in caso di gradimento, della divulgazione degli scritti tra i loro amici e così via. Una sorta di multilevel, una diffusione a macchia d’olio che presto fu riconosciuta come tremendamente pericolosa e bloccata con una repressione fortissima sfociata in processi, carceri, ma anche internazioni in ospedali psichiatrici, chiusure nei lager, espulsioni dal paese, uccisioni.
“ E non aspettavamo una vittoria, non ci poteva essere la minima speranza di vittoria. Ma ognuno voleva avere il diritto di dire ai propri figli: Io ho fatto tutto quello che ho potuto.”
(Vladimir Konstantinovič Bukovskij, Il vento va e poi ritorna)

 

OBERIU
“Chi siamo? E perché noi? Noi, oberiuti, siamo onesti lavoratori della nostra arte. Noi siamo i poeti di una nuova idea di mondo e di una nuova arte. Noi siamo i creatori non soltanto di una nuova lingua poetica, ma anche i fondatori di un nuovo modo di percepire la vita e i suoi oggetti. La nostra volontà di creare è universale: essa scavalca tutti i tipi di arte, irrompe nella vita, accerchiandola da ogni lato. E il mondo, sbavato dalle lingue di un gran numero di stupidi, invischiato nel fango delle “impressioni” e delle “emozioni”, ora rinasce in tutta la sua purezza delle sue concrete forme [artisitche]”.
(Oberiu, il manifesto)
Un collettivo anarchico, composto da artisti futuristi, soppresso con una velocità tale da non permettere agli scritti di emergere se non a trent’anni di distanza della sua nascita-morte e di avere un manifesto disponibile al mondo da pochi decenni e in italiano da pochissimi anni (disponibile in rete e di cui vi segnalo il link per visionare alcune pagine www.esamizdat.it/rivista/2007/1-2/pdf/temi_trad_manifesto_eS_2007_(V)_1-2.pdf)
Fondato nel 1928 da  Daniil Kharms e Alexander Vvedensky, divenne un movimento famoso  per le performance di forte impatto dei suoi artisti, in giro per i dormitori delle università e per le prigioni. Il suo declino, dopo il 1931 con le purghe staliniane, vide la fine dell’ultima avanguardia russa.
I suicidi
E infine loro, coloro che si tolsero la vita per non sottostare al realismo socialista.Troppo facile parlare di Vladimir Majakovskij, ancora. Allora lascerò rappresentare questa categoria a Marina Ivanovna Cvetaeva, che da Majakvskij imparò a fare poesia, ma da cui poi si distaccò per prendere la sua strada. Di lei, come di tutti gli artisti che si tolgono la vita, resta il mito di non aver accettato restrizioni e condizioni, quando costrizioni e restrizioni volevano dire rinunciare a sé, ai propri valori, alla propria identità alla propria arte. Di lei, come di tutte le persone che non hanno paura di morire per un ideale, rimangono delle memorie, più o meno conosciute, parole sbiadite, confronti con predecessori e successori, ma niente di più. Di lei, oggi, voglio farne una bandiera degli artisti sovietici morti per la patria. I fantasmi di un mondo che tra poche decine di anni sarà solo mito, eco lontana, suggestione. Di lei, le sue parole:

 

“Semplice e raffinata,
Un incanto sarai —
e straniera a tutti.

Un’ammaliante amazzone,
Un’impetuosa dama.
E porterai magari
Come un elmo i tuoi riccioli,
Regina del ballo —
E di tutti i giovani poemi.

Molti trafiggerà, regina,
Il tuo stocco beffardo,
E tutto ciò che io sogno
Tu l’avrai ai tuoi piedi.
Tutto ti obbedirà,
Davanti a te — tutti zitti.
Come me scriverai — questo è sicuro —
Versi anche più belli…
Ma chissà se dovrai
Stringer le tempie a morte,
Come in questo momentoLa tua giovane mamma.”


Che questo viaggio nei rintracciamenti di un passato recente, ma già sommerso, sia solo lo spunto per andare a grattare più a fondo. Per non dimenticare, per non disimparare, per non cancellare.
“Leggete, invidiate.
Io sono un cittadino dell’Unione Sovietica”Vladimir Majakovsij