Sulla stessa strada di Steve McQueen

McQueen BoulevardGiulio Gasperini
AOSTA – Ognuno di noi ha un modello: una figura di riferimento che ci orienta e ci motiva nelle scelte, fatte anche per spirito di emulazione; per poter soltanto avvicinarsi a quella grandezza altrimenti inesistente e inconsistente. Steve McQueen è il mito di Paolo Amir Tabloni, che nel romanzo “McQueen Boulevard”, edito da Epika Edizioni, ha immaginato un ragazzo, un modello, che di Steve McQueen cerca di seguire le orme e il percorso.
È una storia di ribellione, quella che ci racconta Tabloni; una storie di fughe che non sono sconfitte ma semplicemente imperativi morali. Un modello, bellissimo, vive la vita che si presume un modello debba vivere: alcol, sesso, sfrenatezze, eccessi. Una vita che produce solo sofferenza e ribrezzo di sé, degli altri, di un mondo che dà privilegi ma soffoca le verità.
Inizia, allora, un’avventura on the road continua e incalzante, accelerata verso una libertà sperata e desiderata come una terra incontaminata, ancora tutta da battezzare. Inizia un’avventura raccontata con stile secco ma sobrio, incalzante come la trama, il succedersi degli eventi. La vita e la sua ferocia si squadernano potenti e trascinano il modello in una continua immedesimazione con Steve McQueen, iniziando a pensare e comportarsi come lui, senza remore né indecisioni.
Tutto è veloce, tutto goduto e consumato fino alle briciole, per non perdersi neanche una vibrazione a scorrere sottopelle. Tutto è intenso e avvolgente, come dovrebbe essere una vita ben vissuta, una scommessa se non vinta almeno lottata fino in fondo. La ribellione comincia dall’io, dal sé stessi e si ripercuote nelle utopiche ambizioni di ideali e lunghe prospettive. Sia che il modello possa salvarsi o meno, che possa cambiare il corso della sua vita e trovare nuovi significati ai suoi molteplici significanti, la ricerca è l’avventura più intensa, il successo più ricercato e meritato. Parafrasando Kavafis, l’importante più della meta è il viaggio.
Steve McQueen, di questo viaggio, è la guida fondante, l’ossessione che condiziona e che intrappola asfissiano: ma diventa anche la molla, la spinta a cercare altrove un’improbabile senso e un’utopica felicità.

“Guerra alla Cina”, l’inaudita invasione secondo Jack London.

Guerra alla CinaGiulio Gasperini
AOSTA – Nel 1904 Jack London seguirà la guerra russo-giapponese: sarà uno dei primi corrispondenti a sporcarsi di guerra, a pedinarla, a seguirla direttamente sui campi dove la guerra si svolgeva, dove lasciava morti e cadaveri. La Cina era balzata agli onori delle cronache e all’interesse del mondo in particolar modo con la Rivolta dei Boxer, la ribellione anticolonialista e xenofoba esplosa gli ultimi giorni del XIX secolo e i primi del XX e repressa nel sangue. Ma Jack London fu tra i primi a conoscerla empiricamente, a traghettare in occidente un’immagine particolare del grande “impero celeste”. “The Unparalleled Invasion” (edito in Italia dalla ObarraO Edizioni con il titolo di “Guerra alla Cina”) uscì nel 1910 e suscitò grande interesse nell’opinione pubblica. Alla fine dell’800 i tanti cinesi degli States erano stati assunti a capri espiatori della disoccupazione galoppante e della crisi che imperversava furiosa: si parlava niente meno che di Yellow Peril, di pericolo giallo.
Lo spettro della Cina, di questo immenso capitale umano, veniva agitato in molte sedi e in altrettante occasioni. “Il risveglio del dragone” preoccupava, angosciava principalmente perché nessuno conosceva i veri numeri, le potenzialità, la reale potenza di quello che era un immenso continente ignoto. Poco avevano a che fare col razzismo, tutte queste ansie. Il problema fondamentale non era tanto la provenienza etnica (né l’appartenenza religiosa) quanto lo spettro di un rivale che fosse ancora più potente, di uno scontro che avesse come destino finale quello della sopraffazione e della sconfitta del ricco Occidente. Angosce che comparvero anche nella letteratura, attraverso la quale si cercava finanche una qualche forma di sublimazione, di catarsi mentale, di antidoto.
London partorì questo breve scritto di difficile definizione: da pamphlet a brevissimo racconto fantapolitico, tutte le nomenclature stanno strette perché mettono in luce alcuni aspetti ma ne trascurano altri. La scrittura di London è giornalistica, coincisa e accattivante. Illude che si tratti di un reportage, di un’attenta e profonda analisi della situazioni, mentre invece è una sorta di accelerata spirale che approda, poi, a un inedito e inatteso epilogo. London analizza i processi che hanno portato l’avvicinamento del Giappone alla Cina e il risveglio delle coscienze cinesi, il suo orgoglio e la sua straordinaria volontà di riscatto. London immagina e ipotizza un universale conflitto, tra Cina e resto del mondo, il cui culmine coincide con il Bicentenario della Rivoluzione Americana. Immagina e ipotizza un conflitto, principalmente economico, che viene in breve tempo vinto dalla Cina e ipotizza un finale apocalittico, in cui con uno stratagemma da guerra omerica il resto del mondo pianifica una sorta di “soluzione finale”. Rimane da capire quanto sia finzione e quanto sia profezia.

“Fai bei sogni”, un attimo prima di chiudere gli occhi

Fai bei sogniDalila Sansone
AREZZO – Leggiamo di tutto e in quello che leggiamo riflettiamo ciò che siamo, o ci proviamo. Può darsi che ci si costruisca nella lettura o che invece sia lei a costruire qualcosa si noi. Io credo che al di là dell’identità più o meno forte della pila di libri sul comodino o dei volumi sparsi in un qualche angolo di casa, esistano libri per tutti, meglio libri di tutti. “Fai bei sogni” di Massimo Gramellini (Longanesi, 2012) è uno di quei libri di tutti, perché tutti siamo andati a letto almeno una volta, sempre o quasi, da bambini muovendo i passi dietro la frase ”sogni doro” o “dolci sogni”, accompagnati dal gesto di qualcuno che ci ha amati. O avremmo voluto farlo.
Gramellini mantiene il suo stile, asciutto, ironico soprattutto dove è il cuore che fa male più che la logica a fare difetto. La storia è la sua, personale e privata, la perdita della madre della cui assenza è stata intrisa tutta una esistenza di alibi e fughe da sé stesso, per compensare un vuoto incolmabile e non accettare mai la responsabilità delle proprie paure. Il racconto di una mezza verità che alla fine dei fatti è stato l’atto di amore più grande, che come nella migliore tradizione dell’amore, quello vero, non ha bisogno di farsi conoscere ed è lì, sostiene nell’ombra e sopporta di non essere riconosciuto: non è questo quello che conta!
È dolce, molto dolce, la voce del bambino che compare tra le righe scritte dall’adulto, che tra una manciata di frasi e un inciso, lascia sia quell’altro che era lui a dettare il ritmo…quello delle emozioni e del senso, che non c’era pur essendoci sempre stato.
A questo libro, che si legge d’un fiato e assorbe poche ore dello scorrere della vita di un lettore qualunque, va riconosciuto il merito di parlare a una qualche emozione propria, che può essere stata simile o diametralmente opposta eppure ricordarla, perché nella semplicità e nella profonda complessità di un’esistenza c’è, esiste e dirompe qualcosa di assolutamente universale. Qualcuno la definirà empatia, io preferisco non darle nomi e identificarla con quanto riesce a sciogliersi dentro, quando gli occhi si fermano su una frase, ci ritornano e la sua eco in qualche modo rimane. E se un autore ci riesce, in fondo, è come ci avesse regalato tutto il carico di promesse che si apre nel cuore a sentirsi dire: “fai bei sogni”, un attimo prima di chiudere gli occhi e ritornare a noi stessi. Indefinibile.

“Lampedusa”: un’iniziazione alla bellezza.

LampedusaGiulio Gasperini
AOSTA – Troppo spesso, negli ultimi anni, ricordata nelle cronache per essere il primo suolo d’Europa dove migranti approdano rischiando il mare e aggrappandosi al sogno di una libertà e di un benessere altrove negati. Il suo mare è spesso accostato a un cimitero, a una tomba impietosa che inganna e non restituisce. Ma Lampedusa è ben altro rispetto a questa immagine dei nostri Anni Dieci: Rafael Argullol, nel suo romanzo breve “Lampedusa. Una storia mediterranea”, edito in Italia nel 2012 da Lantana Editore, ci restituisce una visione ben diversa dell’isola, in un tempo più lontano ma non troppo remoto.
Argullol fu sull’isola nel 1975, quando non era che un “frammento di deserto in mezzo al mare”. Sulla nave che lo stava portando, conobbe Leonardo Carracci il quale donò allo scrittore una storia straordinaria, quella della sua vita e del suo legame con Lampedusa. Sicché il romanzo registra una virata decisiva: attraverso un cambio di narratore (e di punto di vista) è il Carracci stesso a farsi narratore, a svelarci i motivi per cui la sua storia è così indelebilmente allacciata con l’esistenza (e l’essenza) dell’isola. Il Carracci ci riporta indietro nel tempo, alla fine degli anni ’30, quando “l’indigenza degli abitanti dell’isola era totale. Non avevano elettricità e la pochissima acqua, sempre salmastra, doveva essere estratta con fatica da pozzi molto profondi”; ma quando lo spirito degli abitanti era forte e fiero, temprato da un rapporto diretto con la natura: il confronto poteva anche essere aspro e rischioso ma sempre rispettoso e corretto.
“Lampedusa” è un romanzo sulla bellezza allo stato primigenio, quasi “selvaggia”: su quello spirito, quel richiamo ancestrale e arcaico che ci appartiene e ci connota nell’intimo. Quel brivido che ci coglie ogni volta che assistiamo alle più diverse manifestazioni della bellezza: da uno scorcio naturale alla scoperta di una passione al superamento di un limite. È questa la bellezza che connota tutte le altre, anche quelle più posate e all’apparenza tranquille, che giacciono nei musei, che si impolverano alle pareti, che si consumano alla furia degli elementi. La bellezza è un mare scintillante, un vento potente, un tramonto infuocato: è il richiamo di una vita pura, cristallina, che in alcuni luoghi della terra riesce a distinguersi dal ritmo soffocante e alienante delle scadenze, dei compiti, degli appuntamenti.
Qua, a Lampedusa, nel romanzo di Argullol, la terra si calpesta con la pianta dei piedi nudi, il mare diventa non più una tomba ma una culla che mette alla prova ma che tanto anche regala, l’aria diventa balsamo rinfrescante, le rocce non sono deserto ma fondamenta sicure sulle quali contare, l’orizzonte non è una gabbia ma si converte in opportunità, si scontorna nell’attesa di qualche fatidico evento che arriva, ci prende e ci cambia per sempre la vita.

“Due zebre sulla Trentesima Strada” sorprendono il mondo.

Due zebre sulla Trentesima StradaGiulio Gasperini
AOSTA – Due zebre che in realtà non sono zebre, ma proprio per questo riescono nel loro compito meglio che se lo fossero. Parrebbe un assurdo se non fosse che la storia è di cronaca; quella vera. Per sopperire alla morte dei due animali africani, tra le tante vittime dell’embargo, il direttore dello zoo di Gaza nel 2009 dipinse due asini. A strisce, nere. Tutti, ovviamente, si resero conto della mistificazione, ma la magia prodotta da un tale gesto bastò per convincere tutti a non smascherare la verità e a continuare nella finzione. Lo zoo è per antonomasia il luogo del divertimento soprattutto per i più piccoli, che lì dentro possono sognare e divertirsi alle prese con i tanti e strani animali: nessuno si assunse il compito di spezzare questo magico incantesimo in una delle zone più martoriate della Terra, di venire meno a un tacito accordo di pacifica omertà. Da questo spunto di cronaca parte il romanzo di Marc Michel-Amadry, la sua prima fatica letteraria edita in Italia da Elliot edizioni nel 2012: “Due zebre sulla Trentesima Strada”.
È un fotoreporter molto famoso quello che, per caso, si imbatte in una zebra che zebra non pare. La sua vita è in una fase critica, delicata. In uno di quei momenti che spesso accadono quando niente dà più un senso e quando tutto pare inutile, senza ragione. Quella zebra gli cambia la vita: capisce quanto basti poco per migliorare la condizione degli altri, e persino di sé stessi. E decide di assumersi una missione: fare in modo che lo zoo di Gaza possa avere tutti gli animali che occorrono per il benessere e la felicità dei bambini e di tutti gli altri abitanti. A questa storia se ne lega un’altra: quella di una coppia, che vive un momento di separazione consensuale. Ma entrambi hanno il pensiero rivolto all’altro, nella convinzione che, prima o poi, torneranno a stare insieme. Ed è proprio sulla Trentesima Strada di New York che il miracolo, originato da quelle due zebre che zebre non sono, avviene e scocca la scintila.
La trama del romanzo è l’architettura robusta alla quale si aggrappano le figure e i personaggi che popolano i tanti setting: Berlino, New York, Gaza. Ed è proprio la trama l’aspetto più solido e consistente, perché il romanzo si incentra sulla casualità degli avvenimenti che non è casualità ma definito destino; racconta le sorprese che l’uomo si può meritare, della speranza di poter trovare un orizzonte felice anche se potrebbe sembrare che la violenza sia eccessiva e la morte inevitabile. Il tono da commedia rosa stanca e alla lunga sfinisce: lo stridore tra il destino martoriato della Striscia di Gaza e il futuro radioso che, quasi senza meriti, i protagonisti si sorprendono a meritare è persino irritante. Resta comunque un piccolo ricamo, effettivamente una pausa rilassante in un contesto dove gli orizzonti sono meno placidi.

Nei “Racconti di Odessa” la vita di Bàbel’.

Giulio Gasperini
AOSTA – Innegabile come la vita personale possa diventare materia di racconto. Per gli scrittori tutti codesta è la fonte prima di ispirazione: il lievito madre da cui plasmare storie, vicende da architettare e dipanare. Isaàk Èmmanuìlovič Bàbel’ rappresenta forse una delle massime applicazioni di tale concetto e uno degli esempi più palesi. Nato nel quartiere di Moldavanka, a Odessa, fu perseguitato aspramente e violentemente dal regime di Stalin; fucilato nel 1940, tutti i suoi manoscritti erano stati in precedenza sequestrati e distrutti. Ciò che resta di Babel’, come i “Racconti di Odessa”, pubblicati da Voland nel 2012 con la traduzione di Bruno Osimo, hanno piuttosto come argomento e tematiche gli anni della sua adolescenza, trascorsa nella più totale libertà del quartiere ebraico della Moldavanka, palcoscenico privilegiato di trame e vicende che, già di per sé stesse, costituivano dei copioni narrativi irresistibili per chi, come Bàbel’, possedeva la vocazione alla scrittura.
L’umanità che prende vita negli intensi racconti è quella dei bassifondi, dei trafficanti, dei contrabbandieri che tramano, fanno e disfano per la pura gioia dell’evasione, dell’effrazione della legge, della sua indipendenza. Tra tutte, si erge la figura del giovane Benja Krik, non a caso chiamato “Il Re” per la sua tracotanza e la sua intraprendenza di comando. Nei racconti di Babel’ tutto il quartiere partecipa all’azione, in un esempio di sociabilità che trascende qualsiasi modello di perfetto socialismo ideale e “sociale” (se il bisticcio non fosse troppo pretenzioso). La condivisione, prima di tutto. Ma non solo condivisione; anche co-azione e co-operazione. Non c’è mondo che esista, per Bàbel’, se non c’è l’unità delle sue parti: un’unità, ovviamente, che non può essere imposta né totalmente e inappellabilmente paritaria, ma un’unità che sia a livello di azioni; che situi, insomma, tutti i partecipanti in una coralità ricca ed esuberante.
E proprio l’esuberanza è la chiave, anche stilistica, di questi racconti. La scrittura di Bàbel’ non è cristallina, né limpida. È una continua ricerca di iperboli, di collegamenti che si espandono all’infinito, un incessante rincorrersi di sottrazioni da cui dedurre il risultato finale. La ricerca non è mai semplice, è sempre un continuo mettersi alla prova, sentendosi guidati e condotti da un burattinaio che ci deride col suo stile ricco di tranelli e preziosità difficili da masticare. Perché spesso è il paradosso l’unico elemento che riusciamo chiaramente a distinguere: e ogni paradosso nasconde persino un fondo di realtà che, nel contesto narrativo e stilistico di Bàbel’, pare quasi diventare l’elemento meno importante.

“Svanire è davvero possibile? O è solo un’illusione?”

Michael Dialley
AOSTA – “Svanire” non è solo il titolo della raccolta di Deborah Willis, edita da Del Vecchio editore, ma anche il primo racconto che apre la strada al lettore in un viaggio particolare, molto suggestivo che riguarda lo scomparire, lo svanire, il lasciare.
Sono 14 racconti i cui protagonisti sono i più diversi, sia per età che per cultura e stile di vita, ma tutti accomunati da un’esperienza di distacco: una moglie che scappa, qualcuno che muore, che viene rapito, ma anche chi è stato incapace di capire i figli, chi gli stava intorno, causando un allontanamento forzato.
Si viene incatenati subito alle pagine di questo libro, perché sono esperienze che tutti, chi più chi meno, hanno vissuto totalmente o solo in parte; sono racconti brevi, scritti con semplicità e chiarezza, ma soprattutto con un’intensità straordinaria.
Si impara a conoscere i vari protagonisti, con le loro emozioni, i loro sentimenti, le loro abitudini e si capisce come ci si senta dopo essere stati allontanati, dopo essere stati abbandonati o dopo essersi allontanati.
Sono tante le riflessioni che si possono fare dopo ciascun racconto: i genitori si chiederanno sicuramente se il rapporto con i figli è giusto, oppure si identifica con quello di alcuni racconti; un figlio si domanda se ha un atteggiamento giusto verso babbo e mamma, se ha affrontato un divorzio o, peggio ancora, un lutto, nella maniera corretta, con la giusta intensità; i ragazzi che si affacciano, appena ventenni, alla vita, al mondo, fuori dall’ala protettrice della famiglia, si interrogheranno su quali esperienze sono da fare per rendersi conto di come funzioni il mondo, su quali cose è necessario impegnarsi e quali situazioni vanno tralasciate e dimenticate.
Questo romanzo è una sorta di guida, non un saggio; è persino un cortometraggio con spezzoni di varie vite di varie persone. La domanda che viene rivolta a ogni lettore, alla fine, è: si può davvero dimenticare, essere dimenticati, svanire nel nulla, oppure una parte di noi rimane costantemente legata alle persone, ai luoghi, alle situazioni? La risposta sta in ogni uomo, non ci sono risposte giuste o sbagliate, ognuno pensa e agisce a modo suo, e non ci si può nemmeno chiedere perché qualcuno vicino a noi è svanito, o ha cercato di farlo.
Svanire nel nulla non è possibile né fattibile: dovunque andiamo, chiunque conosciamo, ci lascia un qualche cosa così come noi lasciamo tracce, parole, azioni, indelebili nel mondo.

Dove si sente cantare “il suono del suo nome”.

Giulio Gasperini
AOSTA – La luce, il tempo, la pietra: sono queste le dimensioni privilegiate per le quali Cees Nooteboom parte alla scoperta del mondo islamico, durante vari anni. “Il suono del suo nome”, edito da Ponte alle Grazie nel 2012, è un collage di racconti e incantevoli poesie che sorprendono e cristallizzano istanti, attimi, momenti sorpresi in ogni istante del giorno e della notte. Mai realmente turista, Nooteboom ha saputo trasformare l’esplorazione e il viaggio in una vera e propria arte, in una declinazione di pura narratività. E sicché accade che i nomi – Marrakech, Atlante, Tangeri, Isfahan – scontornino i loro bordi, i limiti della loro realtà e concretezza, e si profumino di spezie, si squadernino di spazi indefiniti, si allunghino di dolci ombre: i nomi perdono la loro importanza geografica, si estraniano da una carta, e si giustifichino non in virtù del loro aspetto ma per la società che li popola e che, in loro, costruisce un confronto e un’unione.
Le piccole, intense incursioni di Nooteboom nel mondo islamico diventano squarci di anima, indagini affilate e potenti delle tante sfaccettature dell’intimo. La ricerca diventa ancora più efficace, in tale contesto, perché “è un paesaggio senza distrazioni, senza decorazioni”; un paesaggio essenziale, dove “il cielo è freddo e brilla di stelle”. La consapevolezza dell’essere umano trova molte strade, nelle descrizioni di Nooteboom; la realtà tangibile, l’abilità degli artigiani, la perizia dei loro mestieri, la sacralità delle tradizioni si filtrano attraverso la coscienza di un uomo che non è semplicemente viaggiatore ma peregrino in ogni terra, dalla Spagna all’India, alla ricerca del significato più vero, quello più genuino, quello che si smarchi dai luoghi comuni e dai pregiudizi dilaganti. E il percorso, senza la pretesa di giungere a una verità suprema, a una descrizione che sia anche racconto metafisico e univoco, comincia a svelare le bellezze e il rischio di fraintenderle. Si scopre, così, che l’aridità della pietra è necessaria per comprendere la bellezza, la sua unicità se nasce in un luogo dove nessuno l’attenderebbe e dove accoglierla è un atto di ribellione; e si scopre che la bellezza inevitabilmente consente di accettare la durezza, la ruvidezza, l’aridità, ovvero una parte innegabile dell’esistenza umana: “Dopo la pietra capisci la rosa, dopo la rosa sopporti la pietra”. È proprio il deserto la dimensione che più riduce l’uomo e lo ridimensiona nei suoi fragili e ridotti confini, che lo lascia esterrefatto al cospetto della sua nullità, della leggerezza del suo respiro, della permeabilità della sua ombra: “E quando ci giriamo, vediamo quello stesso vento cancellare subito i nostri passi insignificanti. Non siamo mai stati qui”.
L’avventura di Nooteboom, però, intenzionalmente non mira ad arrivare a una soluzione, non aspira consapevolmente a descrivere oggettivamente quello che si vede, quello che si tocca, si sente, si odora: “Io preferisco la sensazione del mistero alla certezza della soluzione”.

È un “dolce sollievo la scomparsa”, per Sarah Braunstein.

Michael Dialley
AOSTA – Le vite sono delle storie da raccontare, e non fanno eccezione quelle di Paul, Judith, Sam, Hank, Bea, Byron, ma soprattutto quella di Leonora, la bambina che accompagna il lettore in tutto il romanzo di Sarah Braunstein, “Il dolce sollievo della scomparsa” edito da 66thand2nd nel 2012.
Sono storie che non risultano mai banali, tutte hanno un qualcosa di nascosto che cattura il lettore, sono particolari, difficili spesso. Vite di amore, rinunce, passioni sfrenate, sincerità, ma anche menzogne; e i protagonisti sono soprattutto bambini, con la loro innocenza ma anche con il loro non sapersi sottrarre alle pulsioni, alle passioni e con la voglia di libertà. I personaggi si raccontano, sono apparentemente estranei e lontani, ma poi nella narrazione alcuni si incrociano e, in età adulta, si troveranno a ricordare, rivivere momenti dell’infanzia, e a volte arriveranno a riscattare ciò che in passato non hanno potuto vivere, offrendoci spunti di riflessione e importanti lezioni di vita.
Leonora è il centro, ma al contempo periferia, di tutto il romanzo e ci fa imparare una cosa molto importante: le persone non sempre sono come sembrano e nelle situazioni estreme emergono forza, capacità, determinazione e, soprattutto, forza di volontà. È questo un insegnamento che lei ha ricevuto, a sua volta, dal babbo, e che si troverà a mettere in pratica negli ultimi istanti della sua vita: soffre, Leonora, nella stanza dove la tengono segregata, con il gattino che farà la sua stessa fine, ma a un certo punto ricorda le parole del padre – “Tieni duro!” – e poi riconosce un grande albero che ha visto ogni giorno per molto tempo: tutto questo le darà la forza di affrontare il suo destino; e lo farà totalmente sollevata.
I bambini sono innocenti, ma proprio per questa loro spensieratezza sono costantemente attratti dal male; il maligno è una calamita che attrae facendo leva sulla voglia di libertà e sull’elemento ribelle che c’è in ogni uomo. Scappare diventa una liberazione, così come lo è l’essere lontano da ogni legame; essere in un mondo di sconosciuti, essere totalmente svincolati da tutto e tutti dà, effettivamente, un dolce sollievo. Quante volte vorremmo scappare da tutto e tutti e stare con noi stessi? Spesso.
I bambini e i futuri adulti di questa storia hanno potuto provare questo distacco: chi volontariamente, chi involontariamente. Ma per tutti è stata, senza dubbio, un’esperienza fondante.

Negli “African graffiti” l’unicità d’un continente.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non si può raccontare l’Africa se si prescinde dalle persone. Forse nessun altro continente, come l’Africa, affida ancora la sua storia a quelle singole degli individui: lì non esiste, almeno fin adesso, l’idea del destino comune, della meccanizzazione dei destini, dell’inviolabilità del futuro. Forse perché in Africa il futuro ha ben poca importanza in confronto all’adesso, a quello che sta accadendo nell’attimo in cui si parla. E anche perché le incognite, le variabili, non sono preventivate: l’uomo non può immaginarsi ogni casualità, ogni possibile futuro; perché allora doversene preoccupare?
“African graffiti”, la raccolta di storie di Marco Aime, edita da Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri (2012), è tutto questo: una galleria di volti, di persone, di nomi precisi, di gesti identificabili. Marco Aime, nei suoi lunghi anni di studio come antropologo delle terre africane, sa che non si può parlare di futuro, per l’Africa, in termini universali, generici. È troppo grande, l’Africa; è troppo composita, varia, multiforme. L’unico modo per capire l’Africa è cercare di capirne i singoli frammenti, i tanti tasselli che la formano. L’Africa ancora non è collettività anonima, industriale, riconducibile a calcoli matematici ed economici. L’Africa è ancora un intreccio e un collegamento di comunità, di nuclei umani. Sicché l’umanità è qualcosa da cui non si può prescindere per descriverla e per capirla.
A cominciare dall’unicità dei cartelloni pubblicitari e delle insegne commerciali: “Sono dipinte a mano, ognuna con un suo stile, colori suoi. Al contrario delle nostre insegne standardizzate, che rimandano a marchi industriali, queste sono dei veri non-loghi, perché sono estremamente personalizzate. Non ce ne sono due uguali”. L’Africa è così, proprio come le sue insegna: è la terra per eccellenza del no-logo, della personalizzazione, dell’esclusività. È una terra dove ancora alcuni valori riescono a sopravvivere, dove ancora si ascolta e dove ancora l’uomo non è soggiogato al tempo incalzante e prepotente.
E la galleria di ritratti che Marco Aime ha messo diligentemente insieme ci conferma tale sensazione. Lui stesso è consapevole di quanto il suo lavoro possa apparire inutile e sterile, di quanto corrompa il pensiero e di quanto si rischi, insistendo, di perdere la meraviglia dagli occhi e dalla mente, non lasciandosi più sorprendere da nulla e attendendosi già tutto. Ma è anche consapevole, Marco Aime, che l’Africa sa sempre come riprendersi la rivincita e come offrire sempre un nuovo motivo, un nuovo gesto, un nuovo sguardo, per far sorprendere, per rimanere ancora una volta senza fiato, e chiedersi qual è quel potere che incatena l’uomo. Che fa stancare dell’Africa il secondo giorno che vi si sbarca ma che la fa mancare, perdutamente, già al secondo giorno del rientro in Italia.