Dalila Sansone
AREZZO – Lei, l’autrice Oriana Fallaci, lo definiva un testo al limite tra la storia e il giornalismo e nella prefazione (che vale la lettura) avvisa il lettore: non farsi sfuggire la realtà dei fatti, sottrarsi all’equivoco del conflitto ideologico tra potere e anti-potere. Lo scontro è tra uomini, che scelgono l’una o l’altra parte. Uomini, soltanto questo.
Quello che lei tace è quanto diversa possa essere l’accezione della parola UOMO, ne esclude la definizione e lascia che siano le parole degli intervistati a stratificarne il senso, tranne in chiusura quando a uno di loro lo domanda : Alekos, cosa significa essere un uomo?
Intervista con la storia (Rizzoli, 1974) è una raccolta di diciotto interviste a personaggi di potere (in prevalenza) e di ferma opposizione alle prevaricazioni, raccolte tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Interviste che sbalordiscono per efficacia, capacità di sintesi, spaziatura geografica e ideologico-culturale. La lettura dispiega il personaggio storico, privato, umano o inumano, condensandolo in una successione stringente di domande e risposte, mai superflue o retoriche le prime, maledettamente rivelatrici pur nella menzogna le seconde. La Fallaci fa precedere ogni intervista da un breve ritratto del personaggio, in cui descrive le circostanze dell’intervista, l’impatto della pubblicazione e in cui non rinuncia a fornire l’impressione sulla donna e non sulla giornalista. Nell’epoca di una comunicazione troppo immediata e poco filtrata, le pagine scorrono e gravano di un fardello etico e intellettuale, quasi sacro, il trittico intervistatrice – intervistato – lettore. Soprattutto il lettore. Egli non può esimersi dall’esercizio critico e dal formulare un proprio giudizio. Intervista con la storia, era un libro a cavallo tra storia e giornalismo, è invece adesso un testo la cui attualità sta nella testimonianza, intanto, di una “storia che si scrive nel suo divenire e di cui si è testimoni” e soprattutto di un’etica del giornalismo e della verità, finite sempre più diluite dagli slogan, dalle notizie ad effetto e dalle illusorie forme di accesso all’informazione. La chiave di volta nell’interpretare il destino degli uomini rimane, in qualunque circostanza, l’analisi chirurgica dei fatti e la loro lettura alla luce dell’indole umana, quella dei potenti e dei popoli, quella intrisa di rassegnazione o di riscatto. E’ necessario che per poterli leggere i fatti, qualcuno si assuma il compito di cercali e metterne insieme tutte le parti, evitando omissioni o facili soluzioni, ripudiando la retorica e odiose ipocrisie.
Per chi, come chi scrive, non era ancora nato quando Oriana Fallaci girava il mondo per ottenere qualche ora di tempo dai protagonisti delle sue interviste e finire sulle liste nere di molti , la lettura di questo libro è un riassunto di passaggi epocali della storia recente, restituiti con l’immediatezza di un’istantanea a due facce, quella di chi osserva e quella di chi determina.
Il continuum che procede dalla fredda figura di un Kissinger decisore delle sorti del mondo e dalla voce incapace di modificare la posizione dell’ago del magnetofono, alla passione libertaria e solitaria di Alekos Panagulis, è una successione di umanità che in comune ha solo una indeterminata complessità, un impasto di destino o occasione e di individualità, che si chiude con la citazione di una poesia. Con la definizione di UOMO sintetizzata in quella poesia. L’intero volume a questo punto è retrospettiva: alla scala di valori di ciascuno trovare la propria visione delle responsabilità dei singoli, individuali e collettive, giacché il confine è estremamente labile.
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“Tre racconti”: l’acqua fresca che si legge.
Giulio Gasperini
ROMA – In afose serate d’estate come quelle che stiamo vivendo non ci potrebbe essere lettura più adatta. Lo stile di Piero Chiara è esplosivo, divertito e divertente, quasi una risata tramutata in sillabe che si rincorrono e si legano. I “Tre racconti”, editi da Mondadori nel 1974, sono un trittico sorprendente di “disponibilità narrativa”: si spazi, infatti, da un racconto di astrusa indagine storica, a uno di analisi caratteriale a uno di pittoresco dipinto di costume e società. E nessuno dei tre fallisce, ma ognuno di loro ha il tocco decisivo e fondante dell’esperimento riuscito; e difficilmente migliorabile.
Sono tre racconti affilati di sottile ironia e additanti una grottesca valutazione del reale, perché non rinunciano – ma, anzi, proprio lì insistono – scherzare sugli elementi più assurdi e contraddittori delle vicende, quelli più ironici, quelli che sollevano la punta delle labbra ma non fanno esplodere in risate isteriche. Il sentimento, insomma, che anche per Pirandello era il più difficile da suscitare, ma parimenti il più utile. Sono tre racconti, tre favole limpide e fresche, come acqua di nevaio. Sono tre esperienze di narratività che meravigliano e stupiscono, che incitano a girare pagina e continuare a leggere, e a scoprire le parole.
Nel primo racconto, “Sotto la sua mano”, si parte da un’indagine epigrafica, che nasce dalla consultazione di polverosi volumi in altrettanto polverose biblioteche: cosa ha fatto di così straordinario il Procurator Augusti Tito Cornasidio? Nulla, tranne uno splendido ritrovamento: una parte del mitico e leggendario Colosso di Rodi, la statua considerata una delle Sette Meraviglie del mondo antico. Ma la parte rinvenuta è particolare, imbarazzante: è il gigantesco membro della statua, che Tito Cornasidio considererà sempre come la fonte della sua fortuna. Ma lui muore, e la statua scompare, dimenticata dall’umanità, fino al giorno in cui non sarà di nuovo scoperta e, nell’esigenza di avere ombra per costruire una imponente statua di San Carlo Borromeo, sarà fusa e utilizzata per completare le parti mancanti del santo. Ed è ovviamente divertente pensare come un membro possa diventare costituente della santità.
La storia di una banca – che tanto ha da insegnare anche nei nostri appena iniziati anni Dieci – è la trama del secondo racconto: la storia de “La Banca di Monate”, infatti, diventa paradigmatica della società italiano degli anni appena precedenti l’affermarsi del Fascismo nella pacifica cornice del Lago d’Orta, luogo periferico ma polmone pulsante di iniziativa privata e industriale. L’ultimo racconto, invece, è un’analisi di un carattere, quello de “Il giocatore Coduri”, che muove i suoi passi nel turbine della storia e finisce per esser sempre ammantato di mistero, fino al giorno in cui muore e, anche senza di lui, non cambia nulla per nessuno.
“La carriera di Pimlico” applaudita dagli uomini.
Giulio Gasperini
ROMA – Non è molto dissimile da quella degli uomini la carriera dei cavalli da corsa. Manlio Cancogni ce ne racconta una, in particolare. Quella di Pimlico, un cavallo nato per dover essere educato a correre. “La carriera di Pimlico”, edito da Rizzoli nel 1974, fu un divertente tentativo di nascondere l’uomo dietro la narrazione della vita di un cavallo, provocando una sovrapposizione di coscienze e di destini che pare correre parallelo ma che si intreccia solido e potente. “Gli animali hanno sempre delle risorse”: non c’è verità più vera per un caporazza, per un uomo che, di mestiere, si occupa di loro e cerca di renderli il più vincenti possibile. Come se gli animali esistessero soltanto per la solidità delle loro gambe, per la potenza della loro cassa toracica, per l’attenzione che paiono trasmettere i loro occhi enormi.
Si comincia a raccontare il parto, la prima magia di un cavallo. Si prosegue con la descrizione di ogni successivo momento, dalla prima volta che il piccolo animale si solleva su quattro zampe, per proseguire con le prime controllate uscite dal box, il primo tentativo comandato di farlo innamorare. E poi si arriva alle prime gare, alle prime stagioni durante le quali si testa l’animale e si cerca di capire quanto, su di lui, si possa puntare per il futuro. E se ne raccontano poi le frustrazioni, le sconfitte, le delusioni patite sulle piste, sulle erbe dei circuiti, le corse spezzate seguite con apprensione e trasporto dagli spalti degli ippodromi, stagione dopo stagione, sperando sempre che la puntata non sia persa ma possa fruttare qualche lira, qualche soldo in più.
La narrazione prosegue con un’attenzione chirurgica ai termini, con un ricco vocabolario, acuto e calzante, in cui poche sono le parole e nessuna di queste è fuori posto. Un ricco vocabolario specialistico che non rende per nulla il racconto più distaccato ma che, anzi, lo potenzia di significato, e lo carica di valori e positività maggiori. Per tutto il racconto rimaniamo convinti che l’uomo domini il cavallo, che lo costringa a punizioni e a percorsi di crescita fors’anche estremi, assurdi. Per tutto il racconto pare evidente come l’uomo spinga e sfianchi, porti all’estremo e sopraffaccia ogni animale, per divertimento e senso si onnipotenza.
“Ma l’istinto, quando avverte il pericolo, vale più di un ragionamento”. La sapienza migliore, che l’uomo dovrebbe imparare, è pur sempre quella del cavallo, educato a correre, a sentire il pericolo incombere, a dover spingersi sempre oltre il proprio limite discreto. E alla fine si diventa consapevoli che anche i cavalli – forse – capiscono più di quanto all’uomo non sia sospetto. Oltre a tutto, al di là di tutto, l’uomo sospetta che la vita può essere chiara, manifesta, nota nel più profondo non soltanto a sé stesso ma anche agli animali. Perché il tempo non passa invano, niente può rimanere impunito; per nessuno: “Ma che la vita sia cambiata, forse lo sente più intensamente di me che sto a guardarlo dietro la staccionata”.