Marco Valerio Edizioni: la storia di quattro italiane e italiani

Giulio Gasperini
AOSTA – Un uomo e una donna greci, e un uomo e una donna italiani: quattro storie che si intrecciano nella contemporaneità, sfumando tra letteratura, arte e politica. Oriana Fallaci e Maria Callas, Pier Paolo Pasolini e Alekos Panagulis sono i protagonisti di Una storia italiana, racconto scritto da Alessia De Santis e edito da Marco Valerio Edizioni nella collana I Faggi. Quattro personalità di grandissimo spessore, al di là di quello che i loro comportamenti e le loro idee abbiano avuto sull’opinione pubblica. Le loro storie si sono intrecciate in maniera indelebile, mescolandosi e sovrapponendosi, allacciandosi e sciogliendosi come in una gara al consumarsi del destino.
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Una promessa.

Un uomoDalila Sansone
AREZZO – Come si scrive una storia d’amore? Si può veramente scrivere? Si può distinguere dentro l’amore e capirlo, interpretarlo, tradurlo in carta stampata? La verità è che fuori dagli stereotipi il tema sfugge, si espande, dilania, perde i connotati mielosi e diventa realtà. Ecco, “Un Uomo” (Rizzoli, 1979) può essere anche questo! Nell’essere una lettura maledettamente stratificata di sensi, può parlare soprattutto o anche di questo. Di sicuro non può prescindergli. Ma bisogna fare attenzione perché Oriana Fallaci consegna al mondo un pezzo della sua vita privata, i tre anni di legame con Alekos Panagulis, e non lo fa per una sorta di narcisismo letterario autobiografico. Lo fa per amore dell’amore di lui, amore per la libertà, per la coerenza. La coerenza delle estreme conseguenze che distrugge l’esistenza, la propria e spesso di quelli che scelgono di camminarti affianco. Lo scriverai quando sarò morto, PROMETTIMELO. “Un uomo” ha la stessa valenza degli anelli scambiati festosamente e privatamente un giorno qualunque e riscambiati, in un freddo obitorio, nel retroscena di una giornata campale, quanto ipocrita. Era il 5 Maggio del 1976, ad Atene il popolo si stringe intorno alla bara di vetro del suo eroe dimenticato, urlando “la grande menzogna”: zi, zi, zi (vive, vive, vive). E’ l’incipit, potente e tetro, secco come la pressione sul tasto d’avvio di una telecamera che riprende tutto dall’alto e ti proietta lì in mezzo, lì dentro, col bisogno di capire, di sapere. Poi il racconto, chi era quell’uomo, le ragioni di raccontarne la storia, la consapevolezza di essere stata lo strumento di quel destino, fino all’amaro presentimento che in qualche modo l’amore, il legame, non siano stati altro che il compiersi di un disegno per arrivare a quelle righe, per strappare all’oblio la storia di uno, perché rimanga traccia di quella dei tanti, di cui nessuno ha scritto. I testi della storiografia ufficiale non avranno mai lo stesso potere e l’autrice, dall’alto del suo mestiere, del suo essersi mescolata alle troppe sfaccettature della realtà, lo sapeva fin troppo bene.
Di questo libro non è solo il valore di testimonianza a decretarne il peso, quanto la percezione di come, seppur nell’eccezionalità delle circostanze e dei personaggi, i sentimenti privati rappresentino un collante di schegge impazzite di vita, con le quali è impossibile identificarsi ma che si nutrono di quello stesso substrato, comune invece. E’ difficile descrivere una personalità storica/politica come un’ entità in carne ed ossa, ideali e apparenti contraddizioni, e farla stare dentro l’appellativo di Uomo proprio per questo. La retorica è vizio facile a contrarre, soprattutto quando non si è neutrali. A renderlo possibile è l’aver imparato a leggere la natura umana e poi scoperto di aver amato, seppur inconsapevolmente, nell’unico modo possibile: senza condizioni! La più potente delle armi di cui si dispone per essere assolutamente coerenti con sé stessi, con le proprie idee, i propri sentimenti, la propria scelta di vita e che rende Uomini in mezzo a tanta disumanità o umanità diluita e inconsistente.
Questo libro, tra le definizioni possibili, più che “romanzo” d’amore appare un atto d’amore per un solo uomo e in maniera indissolubile da lui, per una certa idea di essere uomini. Che esiste, può esistere, perché è sempre esistita, nell’ombra e troppo spesso vilipesa.

Oriana Fallaci intervista la storia.

Intervista con la storiaDalila Sansone
AREZZO – Lei, l’autrice Oriana Fallaci, lo definiva un testo al limite tra la storia e il giornalismo e nella prefazione (che vale la lettura) avvisa il lettore: non farsi sfuggire la realtà dei fatti, sottrarsi all’equivoco del conflitto ideologico tra potere e anti-potere. Lo scontro è tra uomini, che scelgono l’una o l’altra parte. Uomini, soltanto questo.
Quello che lei tace è quanto diversa possa essere l’accezione della parola UOMO, ne esclude la definizione e lascia che siano le parole degli intervistati a stratificarne il senso, tranne in chiusura quando a uno di loro lo domanda : Alekos, cosa significa essere un uomo?
Intervista con la storia (Rizzoli, 1974) è una raccolta di diciotto interviste a personaggi di potere (in prevalenza) e di ferma opposizione alle prevaricazioni, raccolte tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Interviste che sbalordiscono per efficacia, capacità di sintesi, spaziatura geografica e ideologico-culturale. La lettura dispiega il personaggio storico, privato, umano o inumano, condensandolo in una successione stringente di domande e risposte, mai superflue o retoriche le prime, maledettamente rivelatrici pur nella menzogna le seconde. La Fallaci fa precedere ogni intervista da un breve ritratto del personaggio, in cui descrive le circostanze dell’intervista, l’impatto della pubblicazione e in cui non rinuncia a fornire l’impressione sulla donna e non sulla giornalista. Nell’epoca di una comunicazione troppo immediata e poco filtrata, le pagine scorrono e gravano di un fardello etico e intellettuale, quasi sacro, il trittico intervistatrice – intervistato – lettore. Soprattutto il lettore. Egli non può esimersi dall’esercizio critico e dal formulare un proprio giudizio. Intervista con la storia, era un libro a cavallo tra storia e giornalismo, è invece adesso un testo la cui attualità sta nella testimonianza, intanto, di una “storia che si scrive nel suo divenire e di cui si è testimoni” e soprattutto di un’etica del giornalismo e della verità, finite sempre più diluite dagli slogan, dalle notizie ad effetto e dalle illusorie forme di accesso all’informazione. La chiave di volta nell’interpretare il destino degli uomini rimane, in qualunque circostanza, l’analisi chirurgica dei fatti e la loro lettura alla luce dell’indole umana, quella dei potenti e dei popoli, quella intrisa di rassegnazione o di riscatto. E’ necessario che per poterli leggere i fatti, qualcuno si assuma il compito di cercali e metterne insieme tutte le parti, evitando omissioni o facili soluzioni, ripudiando la retorica e odiose ipocrisie.
Per chi, come chi scrive, non era ancora nato quando Oriana Fallaci girava il mondo per ottenere qualche ora di tempo dai protagonisti delle sue interviste e finire sulle liste nere di molti , la lettura di questo libro è un riassunto di passaggi epocali della storia recente, restituiti con l’immediatezza di un’istantanea a due facce, quella di chi osserva e quella di chi determina.
Il continuum che procede dalla fredda figura di un Kissinger decisore delle sorti del mondo e dalla voce incapace di modificare la posizione dell’ago del magnetofono, alla passione libertaria e solitaria di Alekos Panagulis, è una successione di umanità che in comune ha solo una indeterminata complessità, un impasto di destino o occasione e di individualità, che si chiude con la citazione di una poesia. Con la definizione di UOMO sintetizzata in quella poesia. L’intero volume a questo punto è retrospettiva: alla scala di valori di ciascuno trovare la propria visione delle responsabilità dei singoli, individuali e collettive, giacché il confine è estremamente labile.

“Oriana Fallaci e così sia. Uno scrittore postmoderno”.

Oriana Fallaci e così siaGiulio Gasperini
AOSTA – La diffidenza della critica nei confronti di Oriana Fallaci è evidente. Sempre contesa tra giornalismo e letteratura, sono soprattutto gli ultimi anni della scrittrice ad averle attratto lo scetticismo di critici vari. E la sua strabiliante e stra-ordinaria carriera le ha, da sempre, attratto invidie e risentimenti. Nessuno se n’è ancora occupato in maniera sistematica e concreta, quasi a non voler correre il rischio di riconoscere i suoi meriti. Franco Zangrilli nel suo “Oriana Fallaci e così sia. Uno scrittore postmoderno”, edito nel 2013 da Felici Editore, è uno dei primi critici che con sistematicità offre la sua chiave di lettura dell’opera fallaciana, soffermandosi soprattutto sui cinque prodotti che secondo lui possono rientrare nel genere del romanzo, in particolare postmoderno, da “Penelope alla guerra” a “Un cappello pieno di ciliege”.
L’assunto di partenza è chiaro: i prodotti narrativi della Fallaci sono un chiaro (e sorprendete) esempio del romanzo postmoderno, in particolare di quella non-fiction novel che affonda le sue radici nel mutamento del giornalismo avvenuto intorno alla metà del ‘900, quando si affermò (anche un po’ disordinatamente) la corrente del New Journalism (quello, per intendersi, di Capote, Wolf, Talese). Sicché la Fallaci narratrice, sin dalle sue prime esperienze (con “Penelope alla guerra”), non sarebbe da rapportare alle esperienze italiane del neorealismo né della neo-avanguardia, ma più sicuramente ai tentativi del postmodernismo statunitense, rendendola in tal senso una grande sperimentatrice. Il merito della Fallaci è stato quello di saper rappresentare “con raffinato stile letterario la notizia giornalistica”: un lavoro sempre al confine, pertanto. Giornalismo e narrazione diventano due diversi comportamenti che la scrittrice utilizza quasi interscambiandoli, rendendo il giornalismo narrazione e la narrazione giornalismo.
Pochi sono gli esempi testuali che Zangrilli cita a sostegno delle sue tesi, e forse in alcuni punti le sue critiche alla Fallaci potrebbero essere rimodulate e ricalibrate, senza sconfinare nell’esagerazione. I “mezzi iterativi”, “le forzature, stonature e digressioni, divagazioni e deviazioni, elucubrazioni fluviali”, che Zangrilli individua come punto debole, potrebbero al contrario essere riconosciuti come una sua cifra distintiva peculiare, come un costrutto valido e potente, sempre incentrato sulla musicalità e il ritmo della frase, che mai cede né si fa vuota o zoppicante. Molto interessanti sono, all’opposto, i riferimenti meta-letterari e meta-narrativi che Zangrilli offre come strumenti per la decifrazione della Fallaci scrittore, dal confronto con gli esempi più luminosi di giornalismo femminile italiano fino a rimandi intertestuali con i grandi capolavori della letteratura italiana (“I Promessi sposi” sopra tutti). Il saggio di Zangrilli diventa uno strumento interessante per cominciare a realizzare come l’importanza della Fallaci sia comunque indiscutibile nel panorama letterario, se non italiano, sicuramente internazionale, in una prospettiva che la vede tra i pochi scrittori nostrani ad aver saputo cogliere un afflato e una potenza dal chiaro respiro extra-mediterraneo.