Libri in-dimenticabili: Cristo si è fermato a Eboli

Carlo Levi, esilio e letteratura

Giulia Siena
PARMA
– Saggio, romanzo, poema in prosa o libro di memorie? Attorno a Cristo si è fermato a Eboli, seconda opera di Carlo Levi dopo Paura della libertà, la critica si è spesso interrogata; in quale genere è possibile incasellare questo scritto? Ciò che rimane – a distanza di anni – è una certezza: Cristo si è fermato a Eboli è uno scritto talmente ricco di riferimenti sociologici, letterari, etnologici e memorialistici che rappresenta un unicum del Novecento italiano.

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Libri in-dimenticabili: Sessanta racconti

Dino Buzzati, viaggio nel surreale malinconico

Giulia Siena
PARMA
– Quando l’immaginazione incontra il talento compositivo nascono grandi narrazioni. Questo è il caso delle opere di Dino Buzzati. Nato il 16 ottobre 1906 nei pressi di Belluno, Dino Buzzati si laurea in Legge e manifesta subito un grande interesse per la poesia, la musica e il disegno che declinerà come romanziere, redattore, scenografo, pittore e librettista. Il suo primo romanzo, Bàrnabo delle montagne è del 1933 seguito, poi, da Il segreto del Bosco Vecchio (1935) e da Il deserto dei Tartari.

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Libri in-dimenticabili: Menzogna e sortilegio

Elsa Morante, scrittura lineare e grandi tematiche

Giulia Siena
PARMA
– Prima che scrittrice, Elsa Morante è una appassionata e attenta lettrice. Le storie avvolgono la fanciullezza di Elsa e i tutti i suoi anni a seguire. Nata nel 1912 a Roma, trascorre l’infanzia nel quartiere popolare di Testaccio, insieme ai genitori e ai tre fratelli. La figura paterna controversa e le radici ebraiche della madre, torneranno come tematiche in diversi suoi libri. Scrive, infatti, romanzi, poesie e favole. Nel 1941 sposa lo scrittore Alberto Moravia e insieme, a causa della guerra, trascorreranno alcuni anni in Ciociaria.

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Letture vintage: Napoli lontana dal mare

Il mare non bagna Napoli nei cinque racconti di Anna Maria Ortese

Giulia Siena
PARMA
Il mare non bagna Napoli. Una constatazione che ripudia la realtà; un ossimoro geografico-topografico. In questo libro di Anna Maria Ortese (1914-1998) pubblicato nel 1953 (Premio Viareggio), si guarda a Napoli con occhi disincantati e curiosi; per la prima volta, forse, non è il mare a fare da sfondo alla narrazione partenopea, ma tutto il resto. Napoli viene descritta osservando i suoi quartieri, le colline verdi del Vomero e di Capodimonte, la punta scura di Posillipo e, più giù, “le case e i vicoli grigi, i miseri vicoli infetti”.

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La lingua rigogliosa di Verdinois nei suoi profili intellettuali.

Giulio Gasperini
AOSTA – I Profili letterari e ricordi giornalistici di Federigo Verdinois, editi da Felice Le Monner Editore, nel 1949, sono una divertente e divertita galleria di ritratti di eccellenti personalità del mondo letterario e giornalistico dell’Italia del primo Novecento. Ci si possono ritrovare nomi illustri e famosi, presentati in una prospettiva più umana e diretta, rispetto alla mediazione delle loro opere. C’è la storia della cultura italiana, in questo testo così prezioso e particolare: una narrazione appassionante e nutriente. Potentissimi i ritratti di Antonio Ranieri, tutto condotto sul filo di una narrativa poetica, e quello di Matilde Serao, realizzato attraverso l’intelligente espediente del dialogo.

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India d’avventura che affascina e incanta

Amica GangaGiulio Gasperini
AOSTA – La collana “Dentro l’avventura” diretta da Ambrogio Fogar per Rizzoli Junior aveva una caratteristica, sottolineata anche in quarta di copertina: “Questa collana nasce esperta, perché esperti sono i suoi autori. Chi scrive un libro di ‘Dentro l’avventura’ ha una caratteristica comune con gli altri autori della collana: è stato protagonista, almeno in parte, di quanto racconta”. Paola Fallaci è stata veramente in India, in particolare nella città di Benares – oggi chiamata Varanasi – per cogliere veramente la magia di quel luogo, così tanto di moda negli anni Settanta del secolo scorso.
E ha cercato di raccontarla ai lettori più giovani in questa avventura intitolata Amica Ganga (1980), in cui un ragazzino italiano, Antonio, che segue la madre in India alla ricerca del fratello maggiore scomparso, si trova al centro di un’avventura inconsapevole, durante la quale, accompagnato passo passo da una splendida ragazza che si fa chiamare Ganga, incontrerà e scoprirà tanti luoghi e tante fascinazioni di questa città santa, costruita rivolta ad est, sulla linea divina del fiume Gange. Continua

Oroonoko, il nobile schiavo della letteratura inglese

OroonokoGiulio Gasperini
AOSTA – Aphra Behn è una scrittrice che in ben pochi, se non amanti e cultori della letteratura inglese, conosceranno. Assente dalle librerie dei più, anche perché i suoi libri difficilmente reperibili. Fino ad oggi, quando la coraggiosa casa editrice Rogas Edizioni, nata “come ‘sorella minore’ (ma solo per età…) della libreria Marcovaldo (come recita il sito stesso), ha deciso di ripubblicare, in un’edizione con testo a fronte (tradotto da Adalgisa Marrocco), il suo romanzo più significativo: Oroonoko, nobile schiavo, edito nella prima edizione nel 1688. La collana inaugurata è “Darcy”, dedicata a capolavori della letteratura inglese “(non) dimenticati, fino a ieri introvabili”.
Aphra Behn, definita da Virginia Woolf la prima scrittrice inglese professionista (perché visse con la sua attività di poeta, scrittrice e drammaturga), ha avuto una vita che potrebbe parere un vero e proprio romanzo, anche per via delle poche notizie certe che se ne hanno. Probabilmente nel 1663, quando lei aveva circa 23 anni, la famiglia si trasferì nella Guyana olandese, dove rimase per circa un anno. Questa esperienza fornì la base e il materiale per il romanzo che l’ha resa celebre ed è considerato il suo capolavoro, “Oroonoko”. Il romanzo, il cui sottotitolo originario recitava “A true history”, racconta la storia di un principe, nipote di un sovrano africano, e Imoinda, stupenda donna figlia di un valoroso condottiero. L’amore dei due giovani viene ostacolato dal nonno dell’impavido principe, che sposa con l’inganno la giovane. A questo punto, i due si ribellano, finendo schiavi e trovando, dopo una serie di sfortunate peripezie, una morte gloriosa.
Il romanzo, che si fonda sull’affermarsi un esotismo che in quegli anni cominciava a prendere forma e sostanza letteraria, pur se breve, è denso di elementi significati, anche legati alla società del tempo, non ultimo lo schiavismo e il significato che aveva per gli europei; atteggiamento legato anche alla religione e alla sua diffusione tra gli “indigeni”, che Aphra Behn descrive con occhio benevolo ma persino un po’ compatente. Sicuramente, splendida è la descrizione di questa terra lontana, il Suriname, di cui la Behn ne aveva saputo cogliere il potenziale, a differenza della Corona inglese, che la cedette all’Olanda. La scrittura della Behn è deliziosa, ben calibrata, essenziale nel dire, senza superfluo. I personaggi, in particolare Oroonoko, dai tratti eroici e fortemente tragici, sono quasi sculture antiche, perfette nella loro statuaria comportamentale e caratteriale, che parlano con un’eloquenza tipica dei grandi condottieri antichi, tutti calati in questo “nuovo mondo” che, in quella lontana fine di ‘600, faceva sognare e fantasticare senza limiti.

Il trentesimo anno e un albero da piantare.

Il trentesimo annoGiulio Gasperini
AOSTA – I trent’anni possono essere un momento cruciale, nella vita. Un passaggio che forse può significare la necessità di tracciare i primi bilanci, di gettare uno sguardo sulla strada percorsa e valutarla. Ingeborg Bachmann, una delle più interessanti scrittrici della letteratura del Novecento, ha esplorato l’approdo al trentesimo anno in un racconto lungo di inaudita potenza e profondità. “Il trentesimo anno” (Das dreißigste Jahr) uscì nel 1961, in una raccolta di racconti a cui dette il titolo complessivo. Fortemente autobiografico, vinse tanti premi internazionali e consacrò la scrittrice austriaca.
Nel racconto, il punto di vista è quello di un uomo che si trova a fare i conti con l’arrivo di un’età anagrafica che lo spaventa e lo atterrisce. Si sveglia, alla luce del nuovo giorno, consapevole che qualcosa sta cambiando. Prima “s’immaginava di avere innumerevoli possibilità e credeva, per esempio, di poter diventare qualsiasi cosa”. Pensava che il tempo potesse non finire mai ma andare sempre avanti e avanti. Poi la trappola comincia a stringerglisi addosso, intorno, piano piano. “Non gli basta partire per un viaggio, deve proprio andarsene. In quell’anno deve sentirsi libero, lasciare tutto, cambiare luogo, abitazione e persone”. L’irrequietudine diventa un imperativo morale, un bisogno intenso e potente. Spostarsi, cambiare per cercare di acquietarsi, di scongiurare la crisi.
L’anno procede, le stagioni si alternano in una progressione incalzante e soffocante. E la sua percezione del mondo cambia: “Cercò un dovere da compiere, voleva rendersi utile. Piantare un albero. Generare un figlio”. Assieme a scrivere un libro, le tre cose che anche Garcia Lorca, secondo tradizione, indica come indispensabili per dare un senso alla vita. E proprio il senso della vita il protagonista trentenne ricerca, in questo racconto della Bachmann che è insieme analisi e valutazione, esame e verdetto, ricerca e soluzione. Un precipitare, con una lingua elegante e misurata, in un vortice del pensiero che trasforma l’irrequietudine del movimento in agitazione del pensiero. Però, “come tutti gli esseri umani non arriva a nessuna conclusione”. Destino comune di chiunque cerchi di arrabattarsi con pensieri, meccanismi, derive e approdi troppo complessi e complicati, per l’intelligenza di un singolo. Ma arriva l’incidente; l’imprevisto che crea una rottura nell’evolversi della situazione: un incidente automobilistico lo costringe a letto, ferito e spaccato, con tutte le ossa rotte. Ma proprio allora, tornando a vivere dopo la distratta morte, ha la rivelazione, contemplando un capello bianco che si ostenta nella specchio: “Finalmente si disse: ma io vivo e quel che desidero è vivere ancora a lungo. […] Ma io vivo! Presto sarà guarito. Presto compirà trent’anni. […] Ti dico: alzati e cammina! Non hai un solo osso rotto”. I trent’anni, alla fine, possono essere un momento di riflessione, di paura, di bilanci e di attese. Ma forse nemmeno.

Una partita a scacchi tra due solitudini.

schachnovelleGiulio Gasperini
AOSTA – Sono in molti a considerare come il capolavoro di Stefan Zweig questa “Novella degli scacchi”. Un romanzo breve (o racconto lungo) edito nel 1941, mentre era esule in Brasile, pochi mesi prima di suicidarsi. E forse tra le righe di questo piccolo gioiello si possono persino individuare le ragione di questo supremo gesto.
Anche chi non sia direttamente appassionato di scacchi non può che rimanere affascinato da questa “novella”, nella quale si incontrano due storie che paiono agli antipodi ma che raccontano entrambe di estremi dolori e di devastazione intime. La storia, ovvero, del campione mondiale di scacchi Czentovič, arrogante, venale, con un’infanzia tormentata e solitaria e quella del dottor B., elegante e colto, costretto a sviluppare un talento per resistere alla tortura di una stanza sempre vuota e sempre sola. Il lungo racconto del dottor B. ci vuole consegnare la memoria di una dolorosissima pagina della storia austriaca. Per un uomo amante della pace come fu Zweig fu una ferita feroce la perdita di indipendenza della sua nazione, la sottomissione senza resistenza sancita dall’anschluss dell’Austria a un’ideologia di intolleranza e di ferocia insensata.
Così, nella novella, il Dottor B. fu costretto a sviluppare la sua abilità nel gioco come antidoto alla pazzia, alla follia che lo assediava in quella camera d’albergo dove veniva tenuto prigioniero, sempre interrogato, mai con chiarezza. Ma il gioco era, per il Dottor B., tutto una teorizzazione, il tentativo immateriale di figurarsi una scacchiera. Fino a quando la sua mente non si scinde in due giocatori diversi, nel difficile tentativo di competere con sé stesso, cercando di evitare i disegni mentali, le tattiche, le pianificazioni delle partite: un tentativo, insomma, di cercarsi un compagno nell’assenza che potesse giocare con l’altro sé. Escamotage narrativo delizioso, per poter arrivare a parlare della scissione dell’io, della difficile convivenza e sinergia tra parti diverse che diversamente compongono l’individualità di ciascuno.
Poi, sulla nave, l’incontro con l’altra devastante solitudine, quella di Czentovič: un diverso, diversissimo modo di considerare l’individualità, granitica, ridotta all’essenziale, mai scissa né nevrotica. Evidentemente, per entrambi (ma soprattutto per il Dottor B.) la partita a scacchi diventa metafora di un riscatto contro la vita, di un’ultima idealmente rivincita contro chi ci costringe a decisione che non ci appartengono, a vivere eventi che non ci spetterebbero. Una pazzia, quella del Dottor B., sempre tenuta a freno, quasi sotto controllo, fino all’esplosione totale, alla deriva umana e sociale.
Stefan Zweig ci consegna un ultimo testamento, prima di uccidersi assieme alla giovanissima moglie, in un doppio suicidio d’amore: “Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai”. Un pessimismo di base, per Zweig, che aveva animato il suo carattere irrequieto ed errabondo, ma anche la sua particolare attenzione alla scrittura.

“Il signore è servito”: storia di un ménage-à-cinq.

Il signore è servitoGiulio Gasperini
AOSTA – È la storia di un ménage-à-cinq, questo “Il signore è servito” di Barbara Alberti, edito nel 1983 da Arnoldo Mondadori Editore. Un ménage-à-cinq, in realtà, più complesso di quanto la definizione non faccia intendere. Perché oltre alla sfera sessuale, piuttosto sublimata, presunta, comunque descritta in sottrazione, ci sono masochismo e sadismo, violenza e sottomissione, sublimazione e affascinazione, malia e magia.
A raccontare la vicenda è il “servitore”, alla maniera di un Leporello contemporaneo che tiene aggiornato il catalogo delle conquiste del suo padrone. Un servo fedele, che solo in vecchiaia decide di dedicarsi alla stesura dei suoi ricordi, per non farli finire nell’oblio e rassegnarli alla dimenticanza. Il servo, in realtà, è da sempre innamorato del padrone, del grande attore Ruggeri; ma non ottiene nulla da lui, se non la possibilità di rimanergli vicino occupandosi dei suoi affari. Assistenza che ben presto diventa morbosa curiosità, quella un po’ tipica di tutti i maggiordomi. Grazie alle sue capacità di voyeur, il servo riesce a non farsi scappare (quasi) nulla di quello che accade nella villa. E (quasi) nulla della complessa storia di amore-persecuzione che tra quelle mura si squaderna prepotente.
Il signore è omosessuale, con una predilezione per i giovani ragazzi. Che arrivano in grande quantità, nelle sue stanze. Ruolo di primo piano lo avrà il ragazzino Tom, che tiranneggia il signore e lo piega a tutti i suoi progetti. Ma poi entra in scena “la russa”, che ha un marito tiranno e geloso. Lei si innamora di Tom, ma Tom si diverte a non amarla, soltanto per tenerla in ostaggio con l’idea di un amore che sia solo tensione attrattiva ma mai compimento dell’atto. E, sullo sfondo, si muove Enrico, il nuovo “passatempo” del signore, che tutti considerano una nullità ma che sarà il più potente tra tutti. Perché amerà tutti, dell’amore più crudele, che è quello che si utilizza per usare gli altri. E poi c’è il servitore, sempre di sottofondo, che si concede le sue scappatelle, le sue imboscate d’amore, ma che segretamente è attratto da tutti, e ne fa pensieri impuri. Ma non c’è nulla di impuro, in questa storia. È un percorso di nobilitazione e sublimazione degli impulsi più primitivi e primordiali, che nella maggior parte dei casi gli uomini reprimono e finiscono per ammalarsene.
Barbara Alberti è scrittrice che ama raccontare l’amore nelle sue sfaccettature più recondite, anche più spaventose. Non la fenomenologia più diretta ma quella più abissale, più ripida, più oscura. Converte le atmosfere più prevedibili in mosaici non disordinati ma inusuali, creando nel lettore uno straniamento che infierisce, crudelmente, sul buonismo della pianificazione preconcettuale. Un gioco semplice, che lei riesce a portare avanti con estrema perizia e abilità, e con uno sguardo divertito, con un sorriso ironico sulle labbra, come a dire al lettore “guarda un po’ cosa ti combino adesso!”. Ed è questo, senza dubbio, il motivo che ce la fa amare.