Dino Buzzati, viaggio nel surreale malinconico
Giulia Siena
PARMA – Quando l’immaginazione incontra il talento compositivo nascono grandi narrazioni. Questo è il caso delle opere di Dino Buzzati. Nato il 16 ottobre 1906 nei pressi di Belluno, Dino Buzzati si laurea in Legge e manifesta subito un grande interesse per la poesia, la musica e il disegno che declinerà come romanziere, redattore, scenografo, pittore e librettista. Il suo primo romanzo, Bàrnabo delle montagne è del 1933 seguito, poi, da Il segreto del Bosco Vecchio (1935) e da Il deserto dei Tartari.
Quest’ultimo, pubblicato nel 1940, è ambientato in uno scenario militare fantastico in cui il protagonista, Giovanni Drogo, combatte ripetendosi continuamente che “l’importante è ancora da cominciare”. Drogo armeggia ai confini di un regno immaginario alimentando le proprie speranze – come fanno gli uomini che tendono ad ingannarsi – anelando a ciò che potrebbe non avverarsi mai. La vena visionaria e malinconica di Buzzati darà vita – oltre a importanti romanzi quali, tra gli altri, La famosa invasione degli orsi in Sicilia e Un amore – anche a tanti racconti fantastici e surreali nei quali tornano vividi i sentimenti dell’amore, della morte, del mistero.
Nel 1958 viene data alle stampe la raccolta Sessanta racconti che, nello stesso anno, si aggiudica il Premio Strega. In queste pagine, intensissime e sempre attuali, l’autore bellunese riversa un’ampia gamma dei propri motivi ispiratori: il senso di solitudine e tragedia (nei racconti Sette piani e Gli amici), una repulsione profonda per la città e gli automatismi della rinnovata società (ne Il crollo della Baliverna, Sciopero dei servizi, Il problema dei posteggi) e una vena romantica e quasi disfattista (in Inviti superflui). Sessanta racconti è una raccolta di composizioni brevi e intensissime che merita di essere riletta poiché offre una panoramica completa di questa lacerazione che Buzzati descrive benissimo in ogni riga di ogni suo scritto: una lacerazione che ha le sembianze dell’angoscia, della solitudine, dello stupore ma che è, invece, un modo sfumato per intendere una certezza che non c’è. La stessa certezza nella quale, invece, l’élite, la borghesia così “rifiutata” da Buzzati, si crogiola forte del rinnovamento, del benessere, del superfluo. Quello di Buzzati, però, è un senso perenne di dubbio dolce e consolatorio.
Dobbiamo ringraziare Dino Buzzati, il “Kafka italiano”, per la scrittura così pulita, evocativa, empatica; per l’invenzione di numerose creature fantastiche, per questi viaggi senza tempo in luoghi secretati dal mistero e per i voli pindarici nelle emozioni sempre nuove.
Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.