Il mare non bagna Napoli nei cinque racconti di Anna Maria Ortese
Giulia Siena
PARMA – Il mare non bagna Napoli. Una constatazione che ripudia la realtà; un ossimoro geografico-topografico. In questo libro di Anna Maria Ortese (1914-1998) pubblicato nel 1953 (Premio Viareggio), si guarda a Napoli con occhi disincantati e curiosi; per la prima volta, forse, non è il mare a fare da sfondo alla narrazione partenopea, ma tutto il resto. Napoli viene descritta osservando i suoi quartieri, le colline verdi del Vomero e di Capodimonte, la punta scura di Posillipo e, più giù, “le case e i vicoli grigi, i miseri vicoli infetti”.
Napoli, nella sua “contemplazione e penitenza”, lontana dal suo elemento naturale più caratterizzante, è reale e sconfitta, maestosa e distrutta. È lacerata dalla povertà, orgogliosa e impotente.
Il mare, con la sua peculiarità salvifica, è lontano. Lontano dagli occhi offuscati di Eugenia, protagonista del primo racconto,”Un paio di occhiali”; lontano dalla frustrazione di Anastasia (“Interno familiare”) o dalla tragica povertà di “Oro a Forcella” o “La città involontaria”. La propensione – oltre che il contesto storico – della Ortese per il Neorealismo lascia spazio alla cronaca nell’ultima Parte del libro. Con “Il silenzio della ragione”, una serie di scritti attorno ad alcuni letterati dell’epoca, l’autrice si addentra nell’inchiesta che mescola ragione, sentimento e immaginazione.
Uno spaccato vivacissimo dell’Italia delle grandi differenze sociali.
“La paura, una paura più forte di qualsiasi sentimento, legava tutti, e impediva di proclamare alcune verità semplici, alcuni diritti dell’uomo e, anzi, di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo. Tollerato era l’uomo, in questi lesi, dall’incidente natura, e salvo solo a patto di riconoscersi, come la lava, le onde, parte di essa. Da Portici a Cuma, questa terra era sparsa di vulcani, questa città circondata di vulcani, le isole, esse stesse antichi vulcani; e questa limpida e dolce bellezza di colline e di cielo, solo in apparenza era idilliaca e soave. Tutto, qui, sapeva di morte e tutto era profondamente corrotto e morto, e la paura, solo la paura, passeggiava nella folla da Posillipo a Chiaia”.