Giulio Gasperini
AOSTA – La collana “Dentro l’avventura” diretta da Ambrogio Fogar per Rizzoli Junior aveva una caratteristica, sottolineata anche in quarta di copertina: “Questa collana nasce esperta, perché esperti sono i suoi autori. Chi scrive un libro di ‘Dentro l’avventura’ ha una caratteristica comune con gli altri autori della collana: è stato protagonista, almeno in parte, di quanto racconta”. Paola Fallaci è stata veramente in India, in particolare nella città di Benares – oggi chiamata Varanasi – per cogliere veramente la magia di quel luogo, così tanto di moda negli anni Settanta del secolo scorso.
E ha cercato di raccontarla ai lettori più giovani in questa avventura intitolata Amica Ganga (1980), in cui un ragazzino italiano, Antonio, che segue la madre in India alla ricerca del fratello maggiore scomparso, si trova al centro di un’avventura inconsapevole, durante la quale, accompagnato passo passo da una splendida ragazza che si fa chiamare Ganga, incontrerà e scoprirà tanti luoghi e tante fascinazioni di questa città santa, costruita rivolta ad est, sulla linea divina del fiume Gange. Continua
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“Donna di piacere”, nel dare e nell’avere.
Giulio Gasperini
AOSTA – Non c’è mai luogo migliore al mondo di quello al quale si sente di appartenere. E Chiara, dal nome che splende, scovò in un sogno al limite del mistico la casa nella quale rifugiarsi e compiersi. “Ella era stata una signora, divenne una puttana, incontrò un angelo”: ecco il percorso che Barbara Alberti, nel suo romanzo “Donna di piacere” (Mondadori, 1980), tratteggia per questa donna che si concede, ogni tanto, il peccato del misticismo.
Il bordello di Madame Goullon è un luogo di piaceri, dati e avuti. È un santuario dell’amore, dove gli uomini sanno che possono sempre trovare qualche soddisfazione ai loro desideri. Ma è anche un luogo dove le ragazze, dalla Nichilina a Elvira alla Damina, praticano il mestiere più antico del mondo non perché costrette, obbligate, ma solamente perché pure amanti. Non si tratta di un lavoro, per loro, ma di una missione, di una vocazione: rendere felici gli uomini, alleviare un po’ le loro sofferenze. Ovvio, qualcheduna sogna ancora il vero amore, il principe che finalmente un giorno giunga e le sposi, le conceda il diritto di far parte della società, di poter finalmente, anche loro, avere una parte di socialità. Ma il desiderio rimane quasi sempre vano; sicché il bordello è anche asilo, luogo di ricovero e di salvezza per ragazze che fuggono situazioni familiari insostenibili o che si muovo spinte da un bisogno irresistibile di altro. Così come fa Chiara.
Chiara era una signora, sposa di un uomo di nome Ottiero. La promessa tra loro era perfetta: “Staremo insieme, solo finché sarà perfetto”. Nessun altro obbligo, nessun’altra regola. Solo quella. Andò tutto bene, fino al giorno della rottura, quando la famiglia, “l’antico strumento di tortura”, cominciò a soffocare, a opacizzare l’orizzonte. Sant’Amara, di notte, le apparve e le disse di fuggire nella casa della sua visione: quel luogo era proprio il bordello di Madame Guillon, e lì Chiara si rifugiò, cominciando a fare la puttana per gioco, un po’ per passione, ma anche per curiosità. Ed è lì che incontrò un angelo, l’omosessuale Emilio, che lei aiutò ad affrancarsi dal morboso maschilismo del padre ma che non seppe trattenere a sé quando lui rischiò di correre incontro a morte certa. Ben presto Chiara si sentirà poco adatta al mestiere: non tutte riescono a essere delle brave puttane e c’è bisogno di passione, oltre che di perizia e bravura. Sa, però, con la stessa chiarezza di prospettive, che oramai non potrà mai lasciare quel luogo: il suo castello, il rifugio dei suoi giorni, la difesa contro le meschinità del mondo. E troverà un altro scopo nella sua vita…
È una favola, quella di Chiara, quella di tutte le ragazze di Madame Goullon. E Barbara Alberti la racconta con la sua solita grazia, con l’attenzione alle sfumature della natura femminile, con un’ironia garbata e mai volgare, con un sorriso sempre fiorito sulle labbra. Il genio dell’Alberti è incontenibile. La sua perizia nel saper essere leggera inarrivabile.
“Se la vita è un piatto di ciliegie, perché a me solo i noccioli?”
Giulio Gasperini
ROMA – La domanda chiunque di noi se la sarà fatta, almeno una volta nella vita. E la risposta non è mai troppo scontata. Nel caso di Erma Bombeck, però, diventa lo spunto per una divertente disamina della propria condizione esistenziale. Giornalista di costume e sensazionale osservatrice degli attimi, Erma Bombeck ha per anni divertito l’America e il mondo raccontando la saggezza mietuta nelle sue lunghe giornate di casalinghitudine, quando il lavoro è titanico ma mai riconosciuto. Erma approdò tardi alla parola scritta, dopo una vita dedicata alla famiglia e alla casa: “Abbassare il coperchio della tazza del cesso dieci volte al giorno non basta a realizzarmi”; divenne così una delle penne più ricercate e pagate del giornalismo americano, scrivendo centinaia – forse più di 4000 – di articoli di costume, nei quali la housewife divenne la protagonista assoluta, imponendo la sua presenza e decretando la sua importanza nella società statunitense, senza rinnegare la sua importanza e il suo lavoro di profonda devozione.
“Se la vita è un piatto di ciliegie, perché a me solo i noccioli?” (Longanesi & Co. 1980) è un’indagine sfiziosa e sagace della vita di una casalinga, la “Fata Turchina”, che diventa exemplum condiviso da milioni di altre casalinghe sparse per il mondo, nella quale tutte si ritrovano e possono, scherzando, crearsi comunità e condividere la sorte: “Ecco di cosa tratta questo libro. Della sopravvivenza”. Lo stile della Bombeck è accattivante, con improvvisi lampi e folgorazioni sagaci, intelligenti, mai volgari né banali; con coraggiosi cambi di prospettiva e di punti di vista, che accrescono l’ironia e mortificano il grottesco. Come nel caso dell’incontro/scontro tra uomini e donne, tra Venere e Marte: “Una donna può girare per il Louvre, a Parigi, e vedere cinquemila quadri da togliere il fiato appesi alle pareti. Un uomo può girare per il Louvre, a Parigi, e vedere cinquemila chiodi infissi in quelle stesse pareti. È questa la differenza fondamentale”.
La realtà è la sua materia, che poi plasma per approdare là dove pareva troppo scontato approdare, ma dove effettivamente si nascondono le verità più vere e profonde. Non c’è mai un racconto fuori posto, un’esperienza eccessiva e inutile, un affondo inopportuno. Non c’è mai una valutazione stridente, o un concetto che non possa dirsi condivisibile. Gli aneddoti e le esperienze sono deliziose, golose, nutrienti, sane nel senso più pieno e completo della parola. Ed è la stessa famiglia della Bombeck il campionario di infiniti teoremi e postulati, una sorgente naturale di inesauribile vita: i figli e il marito diventano quasi dei casi da studiare, da analizzare con uno sguardo tagliente come bisturi, ma mai freddo, asettico: “Nessuno sa che cosa aspettarsi della vita! Ma io ho il terrore di lasciare questo mondo senza che nessun altro membro della mia famiglia sappia sistemare un rotolo nuovo di carta igienica sull’apposito sostegno”. Perché al di là di tutto, l’amore e la dedizione della donna-moglie-casalinga tracima e perdona. Non dimentica, ma perdona, sublimando l’evento e creandolo vita sempre migliore; vita per migliorare: “Ma soprattutto ti ho amato abbastanza da continuare a dire ‘No’ anche sapendo che mi avresti odiato. È stata questa la decisione più difficile”.
Avrà, insomma, pur sempre parlato della tazza del cesso, Erma Bombeck; ma ne ha parlato sempre col massimo rispetto!