Dalila Sansone
AREZZO – Come si scrive una storia d’amore? Si può veramente scrivere? Si può distinguere dentro l’amore e capirlo, interpretarlo, tradurlo in carta stampata? La verità è che fuori dagli stereotipi il tema sfugge, si espande, dilania, perde i connotati mielosi e diventa realtà. Ecco, “Un Uomo” (Rizzoli, 1979) può essere anche questo! Nell’essere una lettura maledettamente stratificata di sensi, può parlare soprattutto o anche di questo. Di sicuro non può prescindergli. Ma bisogna fare attenzione perché Oriana Fallaci consegna al mondo un pezzo della sua vita privata, i tre anni di legame con Alekos Panagulis, e non lo fa per una sorta di narcisismo letterario autobiografico. Lo fa per amore dell’amore di lui, amore per la libertà, per la coerenza. La coerenza delle estreme conseguenze che distrugge l’esistenza, la propria e spesso di quelli che scelgono di camminarti affianco. Lo scriverai quando sarò morto, PROMETTIMELO. “Un uomo” ha la stessa valenza degli anelli scambiati festosamente e privatamente un giorno qualunque e riscambiati, in un freddo obitorio, nel retroscena di una giornata campale, quanto ipocrita. Era il 5 Maggio del 1976, ad Atene il popolo si stringe intorno alla bara di vetro del suo eroe dimenticato, urlando “la grande menzogna”: zi, zi, zi (vive, vive, vive). E’ l’incipit, potente e tetro, secco come la pressione sul tasto d’avvio di una telecamera che riprende tutto dall’alto e ti proietta lì in mezzo, lì dentro, col bisogno di capire, di sapere. Poi il racconto, chi era quell’uomo, le ragioni di raccontarne la storia, la consapevolezza di essere stata lo strumento di quel destino, fino all’amaro presentimento che in qualche modo l’amore, il legame, non siano stati altro che il compiersi di un disegno per arrivare a quelle righe, per strappare all’oblio la storia di uno, perché rimanga traccia di quella dei tanti, di cui nessuno ha scritto. I testi della storiografia ufficiale non avranno mai lo stesso potere e l’autrice, dall’alto del suo mestiere, del suo essersi mescolata alle troppe sfaccettature della realtà, lo sapeva fin troppo bene.
Di questo libro non è solo il valore di testimonianza a decretarne il peso, quanto la percezione di come, seppur nell’eccezionalità delle circostanze e dei personaggi, i sentimenti privati rappresentino un collante di schegge impazzite di vita, con le quali è impossibile identificarsi ma che si nutrono di quello stesso substrato, comune invece. E’ difficile descrivere una personalità storica/politica come un’ entità in carne ed ossa, ideali e apparenti contraddizioni, e farla stare dentro l’appellativo di Uomo proprio per questo. La retorica è vizio facile a contrarre, soprattutto quando non si è neutrali. A renderlo possibile è l’aver imparato a leggere la natura umana e poi scoperto di aver amato, seppur inconsapevolmente, nell’unico modo possibile: senza condizioni! La più potente delle armi di cui si dispone per essere assolutamente coerenti con sé stessi, con le proprie idee, i propri sentimenti, la propria scelta di vita e che rende Uomini in mezzo a tanta disumanità o umanità diluita e inconsistente.
Questo libro, tra le definizioni possibili, più che “romanzo” d’amore appare un atto d’amore per un solo uomo e in maniera indissolubile da lui, per una certa idea di essere uomini. Che esiste, può esistere, perché è sempre esistita, nell’ombra e troppo spesso vilipesa.
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LSD e l’ultimo appunto di Huxley
Dalila Sansone
GRAZ – La lettura di Albert Hofmann è una breccia nell’idea delle prospettive, dei punti di vista. La catalogazione retro-copertina recita: “Scaffale: PSICHIATRIA – DROGHE E DIPENDENZE”. Ma “LSD, il mio bambino difficile”, pubblicato la prima volta nel 1979, può stare a suo agio tra i libri di storia della letteratura.
Albert Hofmann nel 1938 lavora nei laboratori Sandoz alle molecole estraibili dall’ergot, parassita della segale cornuta; sta cercando di isolarne i principi attivi con proprietà ecboliche e analettiche. Analizza, sintetizza, classifica. Cinque anni dopo riprende uno dei composti isolati, la dietilamide dell’acido lisergico, numero di catalogazione 25, LSD – 25. È un venerdì pomeriggio; torna a casa in bicicletta ed è ¬durante quel viaggio che nasce il suo bambino difficile. Ecco le prospettive: nel 1943 l’LSD è solo un composto indolico derivato dall’acido lisergico, una formula di struttura delle tante di cui si cerca di comprendere il potenziale terapeutico e che rivela proprietà psicoattive. Trent’anni dopo (1967) l’LSD diventa nemico della società per bene e il governo degli Stati Uniti lo mette addirittura al bando. Il racconto di Hofmann inizia dalla sintesi in laboratorio e spazia fino alle sue, personali, considerazioni finali, più o meno condivisibili con derive nel misticismo, e del ruolo delle droghe sacre nella storia dell’umanità, passando per l’incontro con gente più o meno comune, per la conoscenza di Timothy Leary, per il carteggio con Jünger e la morte di Huxley. Il suo racconto è un esempio della molteplicità di prospettive con cui si può decidere di osservare la realtà. Esiste la scienza, la materia che è oggettiva e non è di per sé suscettibile di giudizio; può esserlo cosa ne deriva, quello che chi la manipola decide di farne ma anche cosa scaturisce dall’uso della materia finisce con l’assumere una molteplicità di interpretazioni prospettiche. Emblematico che il filo del ragionamento si basi sulla storia di una sostanza che agisce direttamente sulla percezione, sull’alterazione del rapporto ricevente – trasmettitore, uomo – natura o, più complessivamente, con la realtà.
L’effetto psicoattivo dell’LSD non è una novità (eccetto per l’efficacia di dosaggi bassissimi), derivabile da tanti altri composti presenti in natura, forse già inconsapevolmente conosciuto nell’antichità classica nelle celebrazioni dei Misteri Eleusini. Quindi dove stanno le ragioni del suo “successo”? Qui Hofmann si interroga cercando radici profonde, domandandosi se l’evasione nella sinestesia della percezione (si, tutto sommato perché non considerare quello che banalmente viene chiamato trip da acido sinestesia della percezione?) non abbia un senso più ampio individuabile nell’esigenza del superamento del conflitto che vive l’uomo dominatore della natura verso la natura stessa e rispetto alla quale la condizione di dominio (avvertita effimera e infondo solo illusoria) lo rende partecipe ma estraneo. Nell’antichità e nelle culture definite primitive l’uso di erbe e sostanze psicoattive era appannaggio di pochi eletti, aveva valore sacro ed era considerato il tramite tra la divinità e chi tra gli uomini la divinità delegava. La divinità era quasi sempre rappresentazione delle forze naturali o ragione delle emozioni umane. Negli anni ’60 LSD, mescalina, psilocibina e psilocina diventano insieme ad altre categorie di sostanze simbolo di contestazione. Ma contestazione fino a che punto? Non si trattava piuttosto di un mancato riconoscimento in un sistema, dell’urgenza di frattura da qualcosa di cui si è parte ma di cui non ci si sente parte? Ma anche l’idea di una consapevolezza reale è un falso mito che si dissolve nella singolarità delle esperienze, spesso nell’assenza di coscienza che abdica al desiderio di appartenenza o semplicemente alla curiosità.
E poi cos’è quella soluzione di continuità tra la materia, lo spazio fisico in cui essa agisce e la percezione, l’azione mentale? I dubbi di un padre sugli effetti dell’azione di un figlio con tante ombre sulla psiche. È possibile che la materia agisca sulla mente? Se è possibile deve esistere un meccanismo indagabile e quella linea d’ombra ha la potenza indiscussa della fascinazione ma anche dell’orrore. Così scopriamo i primi passi dell’Lsd in psicoterapia (le teorie terapeutiche della psicolisi e della psichedelia), uno Jünger affascinato dall’alterazione delle forme e dei colori, dal simbolismo e la visione estetica dell’alterazione psichica sotto effetto di LSD e un Huxley attento alle implicazioni individuali e collettive ma anche uomo che, consumato dalla malattia, sceglie queste come ultime parole da scrivere: “LSD – provalo intramuscolare 100mg”.