“I graffiti nel castello di Issogne in Valle d’Aosta” e le vite graffiate sui muri.

Giulio Gasperini
ROMA – Non è così innovativa la mania pei graffiti, quella voglia che i writers hanno di colorare i muri delle città e narrare storie, lasciare tracce, far gemmare d’un segno il corso del tempo. Si è sempre scritto, si è sempre incisa la pietra. E paradossalmente il lavoro di Omar Borettaz, su “I graffiti nel castello di Issogne in Valle d’Aosta”, ci mostra come quel gesto, che oggi è maleducazione, sia un’importante fonte di informazioni su la vita che fu e le persone che, quella vita, popolarono. Il libro, edito da Priuli & Verlucca nel 1995, tratteggia un viaggio senza tempo attraverso le idee, le scritture, le espressioni di persone anonime che hanno cristallizzato un attimo della loro vita su una parete e che ci raccontano un passato appassionante.
Molti sono anonimi, i poeti di Issogne: in pochi hanno reso personale la propria materialità, proprio perché non era prerogativa del tempo pensare all’unicità della persona, o perché, magari, come ai giorni nostri, l’anonimato dava coraggio e una voce più potente. Il più antico è del 1489, quando Giorgio di Challant cominciò a trasformare l’antico maniero di famiglia in una residenza signorile, con il posizionamento della celebre fontana del melograno, in ferro battuto. Chiunque sia passato, viandante o soldato, ha approfittato dello spazio, conquistandosi il suo posto tra i graffiti. C’è tutta la vita possibile, sui muri di Issogne, che pare guidato da un estraneo progetto: c’è l’amore e la saggezza, c’è l’irrisione e l’ironia, c’è la morte e la risurrezione, c’è il coraggio e la paura, c’è il luogo e ogni altro altrove. Non si tratta comunque di affreschi deturpati ma di potente vita che affiora e si converte in arte; in quella di ogni giorno, per la quale tutti possiamo diventare poeti.
C’è chi parla del proprio viaggio, di quello che magari lo ha condotto a Issogne (adi 3 iunio arivai qua / più morto di vivo, un tale Barbero, nel 1568), o di quello che, a breve, lo allontanerà (Quando io penso al partir / io penso al morir). C’è chi usa antiche saggezze per dare forza e coraggio (Omnia vincit amor, di virgiliana memoria), e altri che usano il muro come unico modo per sfogare i loro dolori, per sapersi in un certo modo ascoltati e non traditi (1577 / Per non monstrar ill moi duolore / tal volta rido che crepe ill cuore / Thoma di Druenvaldtd / von Nuremberg). C’è anche chi non può rinunciare a battute e immagini scurrili e chi si diverte a importunare gli altri, chiunque siano (W Marqantoine et ces gros couillon). Ci sono anche iscrizioni moraleggianti, che tentano di educare chi, per caso o per destino, poserà gli occhi: Dum tempus habemus / operemus bonum; altre, invece, esortano all’opposto, prospettando valori ben diversi: Homo sine pecunia / est corpus sine anima. Qualcheduno si lamenta delle delusioni della sua vita (Maledictus homo qui confidit in homine), altri giocano e scherzano con le sillabe, lasciando trapelare tutta la loro triste esperienza, in una sentenza che pare non aver appelli: S’offrir faict souffrir 1607. E poi c’è anche chi si diverte a sbeffeggiare tutto il mondo, secondo modalità che sono ancora oggi concretamente utilizzate: Omne animal habet culum / tu qui legis pone nasum.