Dalila Sansone
GRAZ – Uno dei tratti distintivi delle crisi, crisi come definizione generale, è l’estrema confusione. Quella economica, quella finanziaria con tutto il loro corteggio di effetti-declinazioni non fanno eccezioni. Confusione perché l’effetto crisi è un po’ effetto valanga: travolge, ti travolge e quando stai nel mezzo non distingui più niente e se provi a mettere a fuoco un obiettivo tutto quello che sta nella mischia contribuisce a diluire la comprensione. “Non ci possiamo più permettere uno stato sociale. FALSO!” di Federico Rampini per Laterza è un bell’esempio di come in mezzo a tanta confusione si possa provare a fare chiarezza. Per punti, tesi e antitesi in maniera semplice. Rampini parla di stato sociale (welfare per chi lo preferisce), lo fa da corrispondente a New York e con un passato da residente in Cina, con un minimo di cognizione di causa del fatto che stato sociale non è ente astratto ma riflesso concreto sul quotidiano e l’effetto di quel riflesso cambia, e molto, a seconda di come lo si intenda o lo si neghi. Certo se si parla di stato sociale si parla anche di economia, di finanza, si parla delle presidenziali degli Stati Uniti in cui il modello europeo è stato messo sul piatto come esanime, concausa del fallimento. Ma appunto le approssimazioni e le generalizzazioni non sortiscono mai grandi risultati e prima di condannare a morte un imputato, meglio valutarne la presunzione di innocenza. Rampini in sei brevi e efficacissimi capitoli mette a confronto il modello americano e quello europeo, analizza le differenze interne allo stato sociale europeo lungi da potersi interpretare sintesi di un caleidoscopio di realtà profondamente diverse. Lo fa fuori dai tecnicismi e ci spiega perché il debito serve in maniera comprensibile a chi non mastica pane e economia, perché le politiche di austerità siano una contraddizione di termini e, proprio in Europa, chi se ne fa portavoce si fondi su uno stato sociale forte e consolidato. Cerca le radici culturali delle discrasie di un Europa che forse in qualcosa ha tradito ma che è stata anche tradita. Tradita da chi si è trovato tra le mani il risultato ancora in divenire di un progetto ambizioso voluto da gente, popoli e governanti, che usciva dal disastro del secondo conflitto mondiale e intendeva opporre la costruzione alla disgregazione dei particolarismi.
Tra una Germania che incarna il modello sociale europeo e si è dimostrata storicamente incapace di esportarlo e l’Italia, la grande malata dell’euro, si sta giocando un rapporto di forza il cui vero senso gli avvoltoi dello spread contribuiscono ad allontanare dalla percezione della gente comune, quella che poi ne paga le conseguenze. Ed è proprio la gente comune che necessita di chiarezza e consapevolezza e non di notizie sulle continue variazioni di differenziale, è una questione culturale, d’identità democratica, di riconoscimento dell’identità democratica dei popoli che si governano. D’altra parte crisi è etimologicamente scelta, questa crisi può essere opportunità di scelta: “La storia non è una gabbia. Il mondo è pieno di nazioni che hanno saputo ‘svoltare’, hanno reagito a decenni o perfino secoli di un declino che sembra irreversibile: dalla Cina all’india al Brasile, abbiamo formidabili esempi di popoli che hanno sconfitto la forze di inerzia, hanno saputo imprimere un corso diverso alla loro storia. A noi l’opzione, a noi decidere quale modello considerare il nostro. È molto più di una scelta politica, è una scelta di civiltà.”
Crisi, spread e welfare nel Vecchio Continente.
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