Economia: due saggi per spiegarne le evoluzioni

Daniela Distefano
CATANIA
– Per Friedrich A. von Hayek “i problemi economici nascono sempre e solo in conseguenza di cambiamenti”. Su tutt’altra sponda di pensiero, anche Antonio Gramsci prevedeva rivoluzioni per cambiamenti successivi. L’epoca in cui viviamo oggi ci presenta uno scenario di operazioni vitali nuove, imprevedibili, difficili da districare con i mezzi di normale previsione mentale. Rivoluzione o crisi economica che sia, davvero è impossibile non notare la parabola di mutamenti in atto, il tempismo di un Creatore che ha scompigliato le carte da gioco dell’umanità; e adesso siamo costretti a rivedere le nostre certezze terrene, con la mascherina sulla bocca, il debito pubblico schizzato, la crescita inesistente, la disoccupazione in costante ascesa, la politica agli sgoccioli. Cosa poteva capitare di peggio? Perché nessuno è stato capace di prevedere tutto questo? Ma soprattutto, ci si chiede: “come ne verremo fuori?”. Dal momento che non possediamo la sfera di cristallo, proviamo a scandagliare le concezioni di due e

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Rubbettino: “Exeunt. La Brexit e la fine dell’Europa” di Roberto Caporale. Introduzione di Paolo Savona

Daniela Distefano
CATANIA“Vi sono popoli e nazioni, Stati e continenti. Vi sono anche potenze e religioni, sovranità e autorità, regole e mercati. Costituzionalisti e politologi conoscono federazioni e confederazioni, imperi e organizzazioni. Ma cos’è oggi l’Unione europea? E, soprattutto, cosa vuol dire essere europeisti?”
Roberto Caporale è economista e manager, ha lavorato in istituzioni bancarie internazionali e ricoperto posizioni di vertice in diverse aziende pubbliche. Ha svolto attività di Consigliere per il Ministro dell’Economia e delle Finanze e per la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel suo saggio Exeunt (Rubbettino), si profonde in una meticolosa disamina su effetti e danni collaterali della Brexit e del suo spettro per l’Europa, l’Europa “a molte velocità”, “a geometria variabile”, “à la carte”, “confederale”… Continua

Nuova Dimensione: “Banche rotte. I giorni bui di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza” Dalla parte dei risparmiatori?

banche-rotte_nuovadimensione_chronicalibriDaniela Distefano
CATANIAMaurizio Crema è nato a Verona e vive a Venezia. Giornalista de Il Gazzettino, ha collaborato con D Donna Repubblica, con il Manifesto e con Diario. Ha pubblicato Sulle ali del leone (2007), da cui è stato tratto l’omonimo documentario presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Il suo libro d’inchiesta Banche rotte. I giorni bui di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza, edito da Nuova Dimensione, ricostruisce le vicende di due grandi banche del Nordest con filiali in tutt’Italia e anche all’estero: Veneto Banca e Popolare di Vicenza.
In questa specie di fitto giallo finanziario, dove il dramma è incastrato tra le lamiere di un danno umano irreparabile, viene raccontata anche la storia dei due banchieri che hanno ricoperto un ruolo di primo piano nelle turpi vicissitudini dello scandalo, Continua

“Il reddito di base” (Ediesse): un saggio su come districarsi tra reddito minimo, reddito di cittadinanza, imposta negativa e altre loro declinazioni

 

il reddito di base_ediesse_recensione ChronicalibriDaniela Distefano
CATANIAElena Granaglia è docente di Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre ed è, da sempre, studiosa del rapporto fra giustizia e disegno delle politiche sociali.
Magda Bolzoni, è una esperta di Sociologia e svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli studi di Torino. Bolzoni si occupa perlopiù di diseguaglianze sociali, migrazioni e trasformazioni urbane. Due donne, due scienziate che hanno convogliato il proprio sapere verso le lande remote di un problema attuale e stringente. Frutto di questa convergenza è il saggio Il reddito di base, pubblicato da Ediesse.  Continua

Quelle società primitive così distanti da noi.

I senza StatoGiulio Gasperini
AOSTA – È un saggio breve, quello che l’antropologo Andrea Staid ha appena pubblicato con Bébert Edizioni, ma è ugualmente illuminante dei rapporti tra potere, economia e debito nelle società primitive, in un indiretto confronto con le nostre attuali. “I senza Stato” è uno scritto chiaro e lineare, che attraverso queste qualità permette a tutti di entrare in contatto con una realtà altrimenti sconosciuta, ma altamente originale ed essenziale per stabilire dei paragoni con la società attuale e per valutarla al meglio.
La contemporaneità si trova in un evidente periodo di profonda crisi del suo spazio politico-istituzionale ed economico; conseguentemente, nascono movimenti dal basso, che contestano le scelte istituzionali, anche attraverso rivolte, e che vogliono porsi e definirsi come valida alternativa. La questione essenziale è quella del “potere” che, come Staid sottolinea, è “il nodo centrale nella gestione dello spazio politico” perché il potere “si definisce in termini relazionali” (e pertanto non sradicabile); in particolare, Staid si sofferma su due tipi di potere, completamente diversi: quello coercitivo (ovvero dominio, in termini di comando-obbedienza, spesso basato sulla violenza) e quello non coercitivo, con una distribuzione aperta a tutta la comunità. Con la definizione di “società primitiva” Staid si riferisce a società di potere diffuso, senza dominio; sono società, come quella Inuit, dove ad esempio esiste un diverso concetto di dono (e, conseguentemente, di debito): nelle nostre società il debito “è divenuto asservimento” (basti pensare alla questione del debito nelle politiche post coloniali), per gli Inuit (ma non solo) il dare significa che un domani avrò diritti di ricevere, in una sorta di civica “cultura del dono”: “Nella vita del primitivo è prassi regolare, ‘dare via’, e questo vale per ogni bene”.
Con una bibliografia estremamente ricca, puntuale e aggiornata, Staid fa entrare nel complesso meccanismo antropologico ma anche economico dell’indebitamento ma anche del lavoro; compito che noi viviamo come “obbligo”, come “fatica”, come produzione smodata ma che altre società, come i Tikopia o gli abitanti Kapauku, vivono come un “piacere”, basando la loro cultura sul “produrre il minimo necessario a soddisfare tutti i bisogni: tipologia, insomma, ostile alla formazione di surplus”, e pertanto mai destinata alla stagnazione economica.
Il testo, accompagnato dalle illustrazioni, essenziali ma dense di sensi, di Giulia Pellegrini, è uno strumento agile e immediato per avvicinarsi ai temi proposti, con uno stile essenziale e genuino. In particolare, è un percorso utile a comprendere determinati meccanismi nei quali la società è immersa e che paiono effettivamente naturali ma che, in realtà, non lo sono per nulla: “Il dominio è una specifica costruzione culturale e che la natura umana come concetto è un grosso sbaglio”.

Crisi, spread e welfare nel Vecchio Continente.

Dalila Sansone
GRAZ – Uno dei tratti distintivi delle crisi, crisi come definizione generale, è l’estrema confusione. Quella economica, quella finanziaria con tutto il loro corteggio di effetti-declinazioni non fanno eccezioni. Confusione perché l’effetto crisi è un po’ effetto valanga: travolge, ti travolge e quando stai nel mezzo non distingui più niente e se provi a mettere a fuoco un obiettivo tutto quello che sta nella mischia contribuisce a diluire la comprensione. “Non ci possiamo più permettere uno stato sociale. FALSO!” di Federico Rampini per Laterza è un bell’esempio di come in mezzo a tanta confusione si possa provare a fare chiarezza. Per punti, tesi e antitesi in maniera semplice. Rampini parla di stato sociale (welfare per chi lo preferisce), lo fa da corrispondente a New York e con un passato da residente in Cina, con un minimo di cognizione di causa del fatto che stato sociale non è ente astratto ma riflesso concreto sul quotidiano e l’effetto di quel riflesso cambia, e molto, a seconda di come lo si intenda o lo si neghi. Certo se si parla di stato sociale si parla anche di economia, di finanza, si parla delle presidenziali degli Stati Uniti in cui il modello europeo è stato messo sul piatto come esanime, concausa del fallimento. Ma appunto le approssimazioni e le generalizzazioni non sortiscono mai grandi risultati e prima di condannare a morte un imputato, meglio valutarne la presunzione di innocenza. Rampini in sei brevi e efficacissimi capitoli mette a confronto il modello americano e quello europeo, analizza le differenze interne allo stato sociale europeo lungi da potersi interpretare sintesi di un caleidoscopio di realtà profondamente diverse. Lo fa fuori dai tecnicismi e ci spiega perché il debito serve in maniera comprensibile a chi non mastica pane e economia, perché le politiche di austerità siano una contraddizione di termini e, proprio in Europa, chi se ne fa portavoce si fondi su uno stato sociale forte e consolidato. Cerca le radici culturali delle discrasie di un Europa che forse in qualcosa ha tradito ma che è stata anche tradita. Tradita da chi si è trovato tra le mani il risultato ancora in divenire di un progetto ambizioso voluto da gente, popoli e governanti, che usciva dal disastro del secondo conflitto mondiale e intendeva opporre la costruzione alla disgregazione dei particolarismi.
Tra una Germania che incarna il modello sociale europeo e si è dimostrata storicamente incapace di esportarlo e l’Italia, la grande malata dell’euro, si sta giocando un rapporto di forza il cui vero senso gli avvoltoi dello spread contribuiscono ad allontanare dalla percezione della gente comune, quella che poi ne paga le conseguenze. Ed è proprio la gente comune che necessita di chiarezza e consapevolezza e non di notizie sulle continue variazioni di differenziale, è una questione culturale, d’identità democratica, di riconoscimento dell’identità democratica dei popoli che si governano. D’altra parte crisi è etimologicamente scelta, questa crisi può essere opportunità di scelta: “La storia non è una gabbia. Il mondo è pieno di nazioni che hanno saputo ‘svoltare’, hanno reagito a decenni o perfino secoli di un declino che sembra irreversibile: dalla Cina all’india al Brasile, abbiamo formidabili esempi di popoli che hanno sconfitto la forze di inerzia, hanno saputo imprimere un corso diverso alla loro storia. A noi l’opzione, a noi decidere quale modello considerare il nostro. È molto più di una scelta politica, è una scelta di civiltà.”

Manager e parole: un libro per capire le “voci” dell’azienda

Stefano Billi
ROMA – “Nuove parole del manager. 113 voci per capire l’azienda“. Ecco il titolo di una recente opera edita da Guerini e Associati e siglata dalla penna di Francesco Varanini.

Ecco il titolo di un utile libro sull’importanza di quelle parole che oggi sono diventate imprescindibili non soltanto per chi esercita attività d’impresa, ma soprattutto per chi voglia comprendere davvero l’ambito aziendale.

Nelle sue dimensioni tascabili, il testo compie il gesto coraggioso di ricordare al lettore come le parole siano importanti, non soltanto per “chiamare le cose col proprio nome”, ma soprattutto per conoscere il vero significato di ogni termine e la creatività umana che l’ha originato. Per dirla alla maniera del Varanini: «porre attenzione alle parole significa tornare a porre l’attenzione al senso», cosicché si possa ancora «riflettere sul nostro modo di agire, sul perché, e sul come lavoriamo».

E certamente non si corre alcun rischio di derive nazionalistiche laddove si voglia evidenziare come molto spesso i ricorsi a forme linguistiche estere, pur se appropriati, potrebbero invece lasciar il passo alla riscoperta di italianissimi sinonimi che esistono, come dimostrato tra le 230 pagine (circa) dell’opera.

Il lavoro certosino del Varanini dimostra perciò un acume fuori dal comune nel rintracciare le origini di alcune parole, siano esse vecchie o nuove, nostrane o straniere (schiera, quest’ultima, che in larga parte annovera elementi anglosassoni).

Inoltre, il libro offre una fruizione particolare, precisamente quella dei dizionari, cosicché non soltanto si può leggere il testo procedendo all’analisi delle singole voci secondo un ordine alfabetico, ma si può inoltre sfruttare un ricco indice analitico che assurge a stella polare di queste pagine dense di storia delle parole.

Sebbene ormai sia chiaro ai più come sovente la forma, specie in ambito aziendale, divenga sostanza, «riscoprire il senso delle parole ci aiuta ad andare oltre le apparenze», tanto che verrebbe da annoverare questo libello a guisa di fendente capace di squarciare il velo di ignoranza che spesso ottunde la comunicazione moderna.

“Nuove parole del manager. 113 voci per capire l’azienda” è un’opera importante per capire davvero il mondo aziendale, pratica e pronta all’uso, come le migliori guide sanno essere.

“Il diritto alla pigrizia” nei nuovi anni Dieci.

Giulio Gasperini
ROMA – Potrebbe sembrare un affronto in questi tempi di crisi riproporre un saggio che esorta alla pigrizia; che condanna il lavoro e la sua feroce ricerca. Paul Lafargue fu scrittore e teorico d’economia sfrontato e coraggioso, senza remore né timori di brandire le sue estreme convinzioni e di farle bandiera di un presunto progresso. “Il diritto alla pigrizia”, che la toscana Piano B edizioni ci ha riproposto nel 2009, è un saggio acuto ma scomodo, che tira in ballo paure e inquietudini che finiscono per paralizzare e terrorizzare.
Paul Lafargue, nato a Cuba e formatosi in Francia, abbracciò fin da subito le idee socialiste di Proudhon e sposò Laura, la figlia di Karl Marx, insieme alla quale si suicidò, in una fredda compostezza borghese, annunciando l’ineluttabilità della sua decisione: “Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che l’impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza”. Inderogabile nelle sue decisione, Lafargue; implacabile e senza concedersi appelli. Come è il suo saggio, pubblicato sui giornali, articolo dopo articolo, a partire dal 1880. Già la frase di apertura, sulla quale si basa tutto lo svolgimento della sua ipotesi, è agghiacciante e spiazzante: “Una strana follia si è impossessata dei lavoratori delle nazioni in cui domina la cultura capitalistica. […] Questa follia è l’amore per il lavoro – è la moribonda passione per il lavoro – spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie”. Non c’è appello a questo: il lavoro è dannoso, perché allontana gli uomini dalla Natura, dalla condizione di Buon Selvaggio che, teorizzata da Rousseau, pareva essere la sua declinazione migliore, la più perfetta e compiuta. “Anche gli antichi greci non provavano che disprezzo per il lavoro”. L’ammonimento di Lafargue è apocalittico, catastrofico: “Introducete il lavoro di fabbrica, e addio gioia, salute, libertà: addio a tutto ciò che rende la vita bella e degna di essere vissuta”. Perché il lavoro produce merce, e la merce finisce per restare invenduta, producendo una stagnazione economica che si tramuta in povertà umana, perché l’uomo, inserito in un vortice senza possibilità di uscita, è costretto a dover produrre sempre più. La soluzione, per non fermare la vorace ansia dell’uomo lavoratore, sarebbe quella di “obbligarli a consumare le merci che producono”.
L’otium sarebbe la panacea, la più perfetta delle condizioni. Ma l’otium, nella contemporaneità, non ha più possibilità di affermarsi, di diventare una possibile condizione umana, come nell’antichità greco-romana. L’età contemporanea, ormai, è corrotta e contaminata. “Ogni miseria individuale e sociale proviene dalla sua passione per il lavoro”: più perentorio di così.