“Il diritto alla pigrizia” nei nuovi anni Dieci.

Giulio Gasperini
ROMA – Potrebbe sembrare un affronto in questi tempi di crisi riproporre un saggio che esorta alla pigrizia; che condanna il lavoro e la sua feroce ricerca. Paul Lafargue fu scrittore e teorico d’economia sfrontato e coraggioso, senza remore né timori di brandire le sue estreme convinzioni e di farle bandiera di un presunto progresso. “Il diritto alla pigrizia”, che la toscana Piano B edizioni ci ha riproposto nel 2009, è un saggio acuto ma scomodo, che tira in ballo paure e inquietudini che finiscono per paralizzare e terrorizzare.
Paul Lafargue, nato a Cuba e formatosi in Francia, abbracciò fin da subito le idee socialiste di Proudhon e sposò Laura, la figlia di Karl Marx, insieme alla quale si suicidò, in una fredda compostezza borghese, annunciando l’ineluttabilità della sua decisione: “Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che l’impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza”. Inderogabile nelle sue decisione, Lafargue; implacabile e senza concedersi appelli. Come è il suo saggio, pubblicato sui giornali, articolo dopo articolo, a partire dal 1880. Già la frase di apertura, sulla quale si basa tutto lo svolgimento della sua ipotesi, è agghiacciante e spiazzante: “Una strana follia si è impossessata dei lavoratori delle nazioni in cui domina la cultura capitalistica. […] Questa follia è l’amore per il lavoro – è la moribonda passione per il lavoro – spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie”. Non c’è appello a questo: il lavoro è dannoso, perché allontana gli uomini dalla Natura, dalla condizione di Buon Selvaggio che, teorizzata da Rousseau, pareva essere la sua declinazione migliore, la più perfetta e compiuta. “Anche gli antichi greci non provavano che disprezzo per il lavoro”. L’ammonimento di Lafargue è apocalittico, catastrofico: “Introducete il lavoro di fabbrica, e addio gioia, salute, libertà: addio a tutto ciò che rende la vita bella e degna di essere vissuta”. Perché il lavoro produce merce, e la merce finisce per restare invenduta, producendo una stagnazione economica che si tramuta in povertà umana, perché l’uomo, inserito in un vortice senza possibilità di uscita, è costretto a dover produrre sempre più. La soluzione, per non fermare la vorace ansia dell’uomo lavoratore, sarebbe quella di “obbligarli a consumare le merci che producono”.
L’otium sarebbe la panacea, la più perfetta delle condizioni. Ma l’otium, nella contemporaneità, non ha più possibilità di affermarsi, di diventare una possibile condizione umana, come nell’antichità greco-romana. L’età contemporanea, ormai, è corrotta e contaminata. “Ogni miseria individuale e sociale proviene dalla sua passione per il lavoro”: più perentorio di così.