“Il reddito di base” (Ediesse): un saggio su come districarsi tra reddito minimo, reddito di cittadinanza, imposta negativa e altre loro declinazioni

 

il reddito di base_ediesse_recensione ChronicalibriDaniela Distefano
CATANIAElena Granaglia è docente di Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre ed è, da sempre, studiosa del rapporto fra giustizia e disegno delle politiche sociali.
Magda Bolzoni, è una esperta di Sociologia e svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli studi di Torino. Bolzoni si occupa perlopiù di diseguaglianze sociali, migrazioni e trasformazioni urbane. Due donne, due scienziate che hanno convogliato il proprio sapere verso le lande remote di un problema attuale e stringente. Frutto di questa convergenza è il saggio Il reddito di base, pubblicato da Ediesse.  Continua

“La prigione degli stranieri”: un passato da cui non si impara mai niente.

1789-4 La prigione degli stranieri_cop_2_14-21Giulio Gasperini
AOSTA – In passato, esistevano i campi di concentramento. Pagina dolorosissima dell’umanità, raccapricciante nella lucida sistematicità dello sterminio. In realtà, di campi ne sono sempre esistiti, in ogni piega di mondo. Quasi irrazionalmente, l’uomo si è sempre più sentito sicuro sapendo che altre persone – quelle che, in quel dato momento, venivano sentite come più minacciose – fossero rinchiuse in un altro luogo, in un altrove di separazione. Il testo di Caterina Mazza, edito da Ediesse (2013), ci accompagna con perizia e competenza alla conoscenza de “La prigione degli stranieri”, ovvero i CIE (Centri di identificazione ed espulsione) che costellano la penisola italiana.
La storia dei CIE, che hanno cambiato un’infinita di nomi piuttosto grotteschi, ha le sue origini nel Trattato di Schengen, ovvero proprio in quel documento che voleva garantire in tutta Europa, per renderla più “unita” e meno “vincolante”, la libera circolazione di uomini e merci. Ma, parafrasando Orwell, anche in tema di libertà, alcuni uomini sono più uguali di altri. Il diritto fu garantito a chi fosse europeo, un po’ meno a chi fosse in Europa per lavoro, per studio, per richiamo familiare, per qualsiasi altro motivo.
Il concetto di libertà non richiama soltanto l’idea di potersi muovere senza vincoli e senza restrizioni, ma implica anche il sapersi sempre al sicuro, esente da rischi e penalità. Situazione che non si verifica oggi, dal momento che fino a qualche giorno fa l’immigrazione clandestina, ovvero il trovarsi sul territorio nazionale sprovvisti di un documento (visto o permesso) regolare implicava il commettere un reato penale. Significava che la stessa esistenza di una persona, la sua vita, il suo essere hic et nunc, fosse una colpa paragonabile a un omicidio.
L’adozione dei CIE non è solamente una decisione di casa nostra, ma come in tutte le cose peggiori, anche l’Italia si è adattata agli altri paesi europei: dalla Spagna alla Grecia, in particolare nella Svizzera e nei paesi del Benelux, esiste una galassia, più o meno legale, di centri di detenzione, dove stazionano per un tempo parecchio oscillante tutti i migranti, non importa neanche se minorenni, malati, donne, transessuali, in attesa di ottenere un documento dalle rispettive ambasciate che permetta di rimpatriarli nei paesi di origine. Son territori, i CIE, dove quasi non esiste legge, dove i diritti son calpestati continuamente, dove la mancanza di libertà è dovuta semplicemente a un colpa che, se vogliamo proprio definirla tale, appartiene alla sfera amministrativa.
Le migrazioni hanno caratterizzato da sempre la storia dell’umanità. Fermare l’uomo è impossibile, persino assurdo. Pretendere che l’uomo reprima il desiderio di sfidare gli orizzonti e di cercare un futuro e una speranza migliore per sé e la sua famiglia è grottesco. Ostinare a considerare i migranti come banditi, negandogli persino il diritto costituzionale della presunzione di innocenza, è incredibilmente criminale.

“Il bambino con le braccia larghe”

Giulia Siena
ROMA “Quando hai un fratello matto riconosci qualche spicchio della tua follia nei suoi comportamenti, così come lui cerca disperatamente la sua normalità nei tuoi. L’unica cosa di realmente, profondamente diverso tra lui e me è sempre stato il volume della sua sofferenza, che forse è l’unico aspetto davvero riconoscibile della tua follia.” La storia è vera ed è quella di un bambino che è stato “normale” sino alle soglie dell’adolescenza; poi i suoi comportamenti sono diventati “strani” e i suoi movimenti si sono fatti articolati tanto da camminare tenendo le braccia larghe, staccate dal corpo. Questo ragazzo era Paolo raccontato con straziante e lucido affetto da suo fratello, Carlo Gnetti nel libro “Il bambino con le braccia larghe” pubblicato nella collana Carta bianca della casa editrice Ediesse. Una storia lunga più di quarant’anni viene raccontata ripercorrendone le difficili tappe segnate dal disagio di Paolo. La malattia, le cause, i possibili rimedi e i continui traslochi della famiglia Gnetti fino ad approdare a Roma. Nella capitale, in un periodo cruciale per il trattamento delle malattie mentali, il ragazzo affetto da schizofrenia divenne uomo e provò sulla propria pelle le conseguenze della legge Basaglia.

Le difficoltà provate e le sfide quotidiane da portare avanti contro l’indifferenza sociale sono espresse con una determinazione silenziosa. L’autore riesce a parlare dei continui scontri con le strutture di riabilitazione senza esporsi: la sua figura è celata. La sua scrittura molto democratica crea il giusto equilibrio tra un argomento forte di cui nessuno vuol sentir parlare e il bisogno di far emergere vite dimenticate nell’impossibilità di essere curate.

“Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione”: stereotipi culturali e copioni mediatici del nostro tempo

Alessia Sità
ROMA
«Nel Paese arriva la guerra, arrivano a valanga le bugie» diceva un vecchio proverbio tedesco, citato nel libro “Riflessioni di uno storico sulle false notizie sulla guerra” di March Bloch. Potremmo fare verosimilmente la stessa affermazione alla ciclica notizia dell’arrivo di profughi e migranti?

Questa è solo l’inizio della lunga riflessione del giornalista Giulio Di Luzio in “Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione”, pubblicato dalla casa editrice Ediesse nella collana Saggi. Con grande rigore scientifico, l’Autore indaga sul ruolo rivestito dai media nella diffusione dell’immagine stereotipata e negativa dell’immigrato, ormai chiamato esclusivamente clandestino.
“Nel villaggio globale l’informazione – è superfluo ribadirlo – assume un ruolo centrale e invasivo delle coscienze”. Lo scrittore definisce un vero “killeraggio mediatico” quello fatto contro l’immigrato; ogni giorno siamo bombardati da sondaggi, diagrammi e percentuali che non perdono l’occasione di mettere in evidenza il crescente numero di dati allarmanti che sottintendono una vera e propria ideologia xenofoba.
Con grande passione civile, Giulio Di Luzi analizza le diverse forme di intolleranza, soffermandosi anche sul linguaggio e sulle “mille forme dispregiative di connotazione”: extracomunitario, clandestino, immigrato, irregolare, profugo, disperato, rifugiato.
Il clima di sospetto nei confronti dei nuovi arrivati, riporta alla memoria l’analogo trattamento riservato in passato ai migranti meridionali, sbattuti in prima pagina dalla stampa italiana come “calabresi, siciliani o pugliesi”.
Con “Brutti, sporchi e cattivi”, l’Autore tenta di ripristinare la “verità storica”, distaccandosi totalmente dall’immagine mediatica, arricchita dai soliti cliché narrativi, che col tempo ha contribuito ad alimentare la visione dell’extracomunitario – clandestino – criminale.  In conclusione, Di Luzi si sofferma anche sul panorama fotogiornalistico italiano, definito come riduttivo e superficiale, dal momento che “l’immagine viene meno al compito di rappresentare i mutamenti in corso, presentandosi a simbolizzare vecchi copioni”.