"Libro di Ipazia": in un mondo che cambia chi sa distinguere il tramonto dall’alba?

Giulio Gasperini
ROMA –
La verità più profonda è quella che pronuncia Sinesio: ha il sapore (l’ombreggiatura) d’una profezia che, a distanza di secoli, si sta compiendo anche nei nostri miserrimi anni Zero: “Quando si è in alto mare la luce del tramonto e quella dell’aurora non sono molto dissimili. Non so bene distinguere”. Come a voler dire che, in epoca di transizioni, quella che pare la fine potrebbe essere l’epilogo ma potrebbe ben essere pure l’inizio di qualcosa d’altro. Ed è proprio questa indecisione, questo dubbio feroce, che Mario Luzi ha voluto indagare, in questa sua raffinata opera, “Libro di Ipazia”, edita da Mondadori nel 1978.


Ipazia è donna combattiva, che non depone l’unica arma a sua disposizione – la parola, ovviamente – per esortare e convincere i suoi concittadini a non lasciarsi travolgere da un cambiamento incombente e preoccupante, inquietante. Ipazia sfida le folle cieche di violenza e sprezzanti del ragionamento, impavida sa che l’ora è compiuta e che i sofismi non son più validi: adesso c’è solo da impugnare il proprio volere e conquistare il rispetto di sé.
Ipazia si immola, su un prevedibile altare: verrà assaltata dalla folla e smembrata al centro di una Chiesa, come fosse un novello Cristo pagano. Lei difendeva la cultura ellenistica, erede legittima della cultura classica, in una città, Alessandria, che rinnegava il suo passato vivace e stimolante per soccombere a ondate di invasioni, più o meno pacifiche (“Ah città morente, città crepata nelle fondamenta, come ti divincoli nell’agonia credendoti viva”): prima la religione cristiana, che si edifica su quella classica, e poi i barbari, che distruggono e poco ricostruiscono (“Dappertutto c’è divisione: tra ciò che si muove e ciò che sta, tra ciò che si disgrega e corre verso la gola spalancata e buia del futuro e ciò che si aggrappa alle macerie per resistere”).
Ogni epoca ha i suoi cambiamenti, e ogni cambiamento fa paura, scuote le coscienze, allunga le ombre dell’inquietudine e dell’apprensione (“Non ci sono leggi che impediscano e neppure leggi che proteggano. Non ci sono leggi affatto. C’è solo chi fa la legge”). Dove porterà la mutazione, dove sarà l’approdo per una nuova rotta che non conosce nocchiere né stella a orientare?
Mario Luzi è un cesellatore del ragionamento, è un attento collezionista della parola. Non c’è un solo termine che non sia giustificato, non c’è un solo ragionamento che abbia un cedimento. Non c’è un solo personaggio che dica più del necessario, più di quello che è consentito dalla storia, dalla geografia, dalla religione.
C’è poi chi, come Sinesio, vive la conflittualità d’una vita precedente rinnegata e d’una nuova abbracciata senza troppa convinzione: dove andare? Che fare? Quale deviazione prendere? (“Lo stato delle cose muta e mutano i nostri giudizi sinceramente talvolta, più spesso per necessità”). Domande antiche, remote; ma che, a ogni crisi, si ripropongono e, per questo, sono sempre fin troppo attuali.