"Se si cerca la verità non esiste luogo peggiore della letteratura": ChronicaLibri intervista Remo Carulli

Giulio Gasperini
ROMA –
Ho conosciuto Remo Carulli qualche estate fa, sotto altri cieli, in terre lontane. Lui mi consigliò che mète andare a visitare nel mio vagabondaggio, io gli parlavo di libri e si discuteva di vita, in ogni declinazione. A quel tempo stava finendo di studiare: psicologia; e non sapeva ancora che strada prendere. Adesso è diventato psicologo sportivo. Sicché si capisce la profondità del romanzo che ha scritto, “Pensieri di un terzino sinistro”, che non potrebbe esser stato – per motivi chiari a chi l’ha letto o leggerà – scritto da un estraneo all’argomento. È stato un piacere ritrovare Remo in quest’occasione, dandogli la possibilità di argomentarsi, con le sue risposte; e di dare, a noi, qualcosa in più.

Remo, dal tuo romanzo si evince che il calcio “è cosa seria”. La prima domanda, ahimè, inevitabile, è come si possa armonizzare l’interiorità splendida del tuo terzino eroe con gli scandali che, da anni, pubblici o privati, stanno martoriando il mondo del calcio “made-in-italy”.In realtà non è necessaria alcuna armonizzazione. La differenza tra i calciatori che invadono le nostre cronache e il mio terzino non è rintracciabile nell’etica o nei valori che animano le rispettive condotte, bensì nel livello di consapevolezza di se stessi. Il protagonista del romanzo, come qualsiasi calciatore reale, è egoista, scorretto, meschino, e allo stesso tempo capace di slanci di generosità e compassione. Semplicemente, egli non nasconde la propria complessità dietro il paravento di ideali che non riuscirà mai a incarnare, e ha il coraggio di dichiarare le proprie contraddizioni, invece di rinnegarle e svilire se stesso. Forse la premessa alla tua domanda va rovesciata. Forse il problema è che il mondo del calcio si prende troppo sul serio…

Quando ti è venuto in mente che il calcio potesse essere considerato come grande metafora di Vita e, ancor più strabiliante, come campo stesso d’applicazione della complessità della retorica?Credo che chiunque ami il calcio abbia riscontrato come molte scelte che la vita di tutti i giorni propone siano rappresentabili dalle specifiche situazioni di una partita. Io ho provato, per gioco, a estendere il parallelismo anche all’insorgenza delle emozioni, alle relazioni che le persone stringono tra loro, e alle forze, istintuali e sociali, che dilaniano ogni uomo. Mi sono reso conto in fretta dei vantaggi che questa struttura mi avrebbe fornito: i limiti spaziali e temporali presupposti dal racconto di una singola partita sono rassicuranti per chi si affaccia per la prima volta alla narrativa, e diminuiscono il rischio di perdersi per strada; il ricorso alla retorica garantisce possibilità di analisi estremamente sofisticate; il rigore metodologico sopperisce alle proprie mancanze espressive. E così, da un giorno all’altro, ho intrapreso questa avventura.
Se noi non ci siamo ancora riusciti a concedere questo valore al calcio, questo significato di più ampia metafora, doppiamo imputare la colpa ai calciatori che affollano (e flagellano) i canali di comunicazione? O a cos’altro?Io credo vada imputata al fatto che la parola “calcio” evoca le sequenze che passano in tv, i dibattiti incivili, la consapevolezza delle cifre disumane che arricchiscono personaggi privi di cultura, l’invidia e lo sdegno che questo determina. Se invece l’abitudine portasse ad associare questa parola allo sport che si pratica nei campi di periferia, con passione e disinteresse, probabilmente le sue possibilità narrative sarebbero più facilmente riconosciute.


Il tuo romanzo è denso di sentenze, dirette e ironiche, intense ma spesso spietate. Sentenze che contornano la figura del terzino e, parallelamente, quella degli altri giocatori e degli altri uomini. Sei veramente convinto che siano così inderogabilmente applicabili anche alla Vita, oppure rappresentano una sorta di artificio narrativo per meglio motivare e tarare la penetrazione intima del terzino?Certo, ne sono convintissimo! O meglio, sono applicabili alla vita nella misura in cui lo sono al calcio. È sulla liceità di entrambe le operazioni che si potrebbe discutere: Paul Valery asseriva che “categorizzare impedisce di conoscere”; Adorno affermava che “la comunicazione è il tradimento dell’oggetto della comunicazione”; Miguel de Unamuno provocatoriamente – ma non troppo – diceva che ogni riflessione che l’uomo fa su se stesso è in realtà un modo per alimentare l’illusione che esista qualcosa oltre il puro istinto. Dedicarsi alla scrittura significa dedicarsi all’artificio, all’arbitrarietà, indipendentemente dall’oggetto che si sceglie. Se si cerca la verità, qualunque essa sia, non esiste luogo peggiore della letteratura.


Remo, adesso una domanda che noi di ChronicaLibri rivolgiamo spesso agli scrittori: quali sono le tue tre parole preferite?Domanda difficilissima: beh, onomatopeico, perché da piccolo, prima di conoscerne davvero il significato (fu una delusione tremenda), rappresentava per me il mistero e la bellezza arcana della lingua; immondizia; e poi follia.

"Pensieri di un terzino sinistro", quando il calcio diventa una "cosa seria".

Giulio Gasperini

ROMA – Nei 90 minuti di una partita di calcio ciascuno di noi (o almeno il tifoso) assiste all’azione, si entusiasma per i gol, si dispera per un’azione soffocata, per un palo centrato, per un cartellino rosso sollevato. In quei 90 minuti contempliamo una competizione, una gara che, spesso, assume i contorni d’una lotta: le declinazione contemporanea della guerra. Ma cosa succede, in quei 90 minuti, a un giocatore? Cosa pensa? Come si equilibra tra vita e gioco, tra esistenza e azione? Remo Carulli, giovane psicologo sportivo, sgrana una partita, come ce ne potrebbero essere tante, minuto dopo minuto, dirigendo il riflettore su un giocatore in particolare. I “Pensieri di un terzino sinistro” (Zona, 2009) diventano, dunque, declinazione di una figura che, oggi, ha assunto i contorni mitici dell’eroe post-moderno, del condottiero che guida le proprie truppe all’assalto d’una fortezza. E se non la espugna sono guai.
Remo Carulli ha il grande merito (soprattutto agli occhi di coloro ai quali il calcio, più che uno sport, è soltanto una fastidiosa manifestazione di delirio collettivo) di sublimare lo sport nel senso più stretto del termine e di renderlo significativa metafora della vita, dei movimenti e dei fraintendimenti, delle casualità e degli autolesionismi che, intrecciati tutti insieme, creano la Vita, quella con la V maiuscola. Sicché capiamo tutte le altre sentenze che son pronunciate dai giocatori, che siano portieri o attaccanti; capiamo il processo di indagine e di scoperta personale che il terzino compie nei confronti di sé stesso, relazionandosi non soltanto coi compagni ma anche coi rivali, anch’essi personaggi mitici che, di volta in volta, assumono contorni e tinte sempre diverse. Capiamo anche l’ironia (anche quando declinata nella sua forma estrema, ovvero il sarcasmo) con la quale Carulli, in una divertita architettura, sostiene il racconto: la capiamo perché è la stessa che, per sopravvivere, dovremmo applicare al racconto della Vita, quella vera.
Remo Carulli ha il merito di aver tentato di motivare il calcio, di presentarcelo come se fosse una “cosa seria”. Da parte nostra, noi, abituati alla contemporaneità (e alla realtà delle prime pagine dei quotidiani), potremmo anche riuscire a farci cullare dall’illusione.
Non sveliamo il risultato della partita; ché in realtà, di importanza, non ne ha molta. Parafrasando Kavafis, non è tanto importante la mèta, quanto piuttosto la strada che siamo costretti a percorrere per raggiungerla.