Giulio Gasperini
AOSTA – Come può essere una fiaba senza stereotipi? Senza la principessa che ha sempre bisogno di essere salvata? Senza un drago, per forza cattivo, che deve essere ucciso? Senza un cavaliere o un cowboy che siano protagonisti? Senza una strega inevitabilmente brutta e malefica? Davide Calì e Anna Aparicio Català ci raccontano una favola così, Una storia senza cliché, edita da Edizioni Clichy e magnificamente illustrata.
La narrazione prosegue in un crescendo di obiezioni e di domande, di analisi e di ripensamenti, di dettagli e di immagini coloratissime e potenti che sprofondano i nostri occhi e la nostra mente nel mondo del fantastico. L’effetto è quello di un continuo straniamento, un’alienazione ininterrotta rispetto al nostro bagaglio di conoscenze sulle fiabe; che sono, indubbiamente, cosa seria, serissima, tanto da esser protagoniste di numerose analisi narrativo-antropologiche (immortale la “Morfologia della fiaba” di Vladimir Propp). Ma il dubbio che proviamo a ogni pagina del libro edito da Clichy è una rottura, una frattura con quello che davamo per scontato a priori, non discutibile e non negoziabile. Il crescendo di “Una storia senza cliché” culminerà con una sorpresa, anche questa estremamente impattante e che lascerà perplessi; ma questo è il bello delle storie: mettersi in discussione oltre la parola “fine”.
Non si tratta di rinnegare il patrimonio favolistico (anche se, spesso, conosciuto in forme edulcorate e rese più appetibili per la morale) ma la messa in discussione riguarda la capacità del lettore di valutare, discutere, porre nel dubbio tutto ciò che si vorrebbe esclusivo, immutabile e inalterabile.
La lingua, come la cultura, cambia, si miscela ad altro, e il prodotto che ne deriva, per quanto destabilizzante, è la ricchezza che permette di continuare a sognare nuove storie e nuove fiabe.