Tutte persone, titolari di “Fogli di via”

Fogli di viaGiulio Gasperini
AOSTA – Il Vice Questore Gianpaolo Trevisi non è un uomo ‘buono’, né tantomeno un buonista. È un uomo di legge, e come tale la legge deve far rispettare. Ma senza dubbio Gianpaolo Trevisi è un uomo umano: abituato a lavorare sempre al limite, mai dimentico che dietro ogni foto del permesso di soggiorno ci sono un uomo, una donna, dei figli, dei genitori, delle vite intere messe ogni volta in gioco, con scadenza di permesso in permesso, Trevisi capisce che oltre alla legge civile, statale, ci sono anche leggi umane da far rispettare, che meritano la stessa attenzione e la stessa diligenza. I “racconti strani/eri” come lui stesso li definisce di “Fogli di via”, edito da EMI, sono delle vere esperienze, concrete, su cosa significhi avere il potere di firmare con la stessa facilità il rinnovo d’un permesso di soggiorno o il suo diniego. Le persone che affollano l’Ufficio Immigrazione della Questura, che riempiono di voci e rumori i corridoi, che trasportano e squadernano la loro varia umanità sono persone effettive, che hanno volti occhi capelli suoni. Non sono creazioni astruse né piacevoli invenzioni ma concretamente calpestano il suolo, praticamente respirano, oggettivamente pensano. Ma anche i poliziotti che si confrontano con questa tanta umanità sono concreti, reali; primo tra tutti, il capo, coi suoi “occhiali pieni di ditate” e il suo desiderio di riposo (“Lo ringraziai anche io delle belle parole, ma non so se più desideroso di un panino per il pranzo o di aiutarlo veramente”). Il capo è talmente concreto che nel primo racconto declina le sue generalità, senza esitazioni né paure: “Il sottoscritto Dr. Gianpaolo Trevisi, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, in servizio presso la Questura di Verona, in qualità di Dirigente dell’Ufficio Immigrazione…”. E il capo è anche il primo che non si santifica né si auto-assolve ma all’opposto riconosce i propri limiti, evidenzia le mancanze, si infuria per i suoi limiti.
Il registro narrativo dei racconti è vario: si passa dalla grottesca comicità, neanche troppo celata, di “Il volo sbagliato”, al dolore più profondo e feroce, quello di due genitori che vedono morire il figlio clandestino e sfruttato, in “Il cantiere in un sacco”. Si va dalla narrazione persino un po’ visionaria e simbolista de “L’Africa in un cassonetto” fino a “La mummia” ovvero l’incredula e umanamente dolorosissima vicenda di Mohamed, che voleva essere considerato come Otzi, conteso tra due stati. E poi ci sono i racconti di condanna, di accusa nei confronti di un sistema che, come tutti, ha lacune e problemi, grandi e piccoli da dover affrontare e risolvere, come nel racconto “Almeno quaranta…”.
Uno degli aspetti più sbalorditivi è che, a differenza di tante altre situazioni, Gianpaolo Trevisi la legge la conosce, si orienta nei termini e nelle procedure con sicurezza e lungimiranza. E capisce che la legge ha dei limiti proprio perché è scritta prescindendo dagli uomini e dalle donne e dalle storie che ognuno di loro si porta in sé, con sé. Perché tutti noi siamo narrazioni, siamo un inizio, uno svolgimento e una fine. E nessuna narrazione è un canto solitario, ma si nutre e si sviluppa con le tangenze, gli incontri, le casuali conoscenze. E per arrivare fino in fondo, fino all’ultima riga, serve tanto coraggio.

Il “Cantico dei Cantici”: il giorno che non valse l’universo intero

Giulio Gasperini
ROMA – Nei nostri appena archiviati anni Zero, in epoca di feisbuc-addicted e di nuove socialità sul web, in cui i messaggi durano il tempo di un errore e la fiducia è costantemente sotto pressione, nessuno avrebbe mai potuto rinvenire la giusta ispirazione per comporre il “Cantico dei Cantici”, il canto-per-eccellenza (unica forma di superlativo che la lingua ebraica conosca). Ad oggi, dopo millenni di poeti e di pennivendoli, codesto poema rimane il più alto e inarrivabile canto d’amore che l’umanità abbia partorito. O che abbia mai potuto godere, leggendo e rileggendolo senza mai stancarsi della perfezione del ritmo e dell’armonia delle sillabe.
Invocazioni ed esortazioni d’amore di uno sposo e una sposa che si scambiano perfette parole d’amore, plasmando immagini d’inaudita sensualità e sentimento che prende fiato e carne, che si appropria di un corpo e si costruisce un’anima per rimanere immortale come l’autore presunto di questo testo, il re Salomone. “Bàciami con i baci della tua bocca”, “Attirami a te, corriamo!”, “Corri, mio Diletto, / sii simile alla gazzella / o al cucciolo dei cervi, / sui monti dei balsami!”.
Nella nuova traduzione della Bibbia, edita nel 2008, le parole poetiche si son scrollate di dosso la polvere del tempo e dell’usura e son tornare a risplendere di tutta la loro potenza, di significante e di significato. Alcuni passi, addirittura, hanno così leggermente, ma consistentemente, modificato il loro significato da apparire quasi nuovi, come se il cantico fosse stato composto adesso, fresco di mente e di ispirazione. Il passo, ad esempio, che recita: “Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate l’amato mio / che cosa gli racconterete? / Che sono malata d’amore!” corregge l’antica traduzione “che sono morta d’amore!”, reintroducendo un rapporto più paritario tra sposa e sposo che giova alla perfezione del Cantico stesso.
Il Cantico dei Cantici è erotismo allo stato puro, scevro di ogni volgarità e bassezza umana, perché l’amore stesso è considerata la perfezione più pura di erotismo: sicché “eros” – “amor” per Origene – è sia l’amore mentale che il trasporto fisico, in una perfetta sovrapposizione di significati da non esser mai stata più così raggiunta, in nessun’altra opera umana. Il Cantico è un libro della Bibba, ma mai si nomina Dio. Per questa sua anomalia (e scomodità) fu sottoposto alle interpretazioni più ardite, nell’ansia di giustificarne l’esistenza; fu salvato dai Padri della Chiesa soltanto attraverso una violenta interpretazione allegorica. Ma il Cantico dei Cantici non conosce soltanto spiragli per un’ipotetica giustificazione religiosa. È un canto che condivide immagini e suoni con altre culture, che attinge a un medesimo sostrato antropologico e figurativo: l’amante arriva rapido come gazzella, in una potente e sconvolgente immagine che già compariva in alcune, rare, poesie d’amore egiziane.
Al di là di chi l’abbia scritto, con quali intenti, quale vero e reale significato scorra sotto le immagini e le parole e le potenzi tangibilmente, l’opera non conosce rivali, né potrà mai temere confronti. Come ebbe a dire un rabbino nel II secolo d.C.: “L’universo intero non vale il giorno in cui Israele ebbe il Cantico dei Cantici”.