“Cinque cerchi e una stella”, dai lager alle Olimpiadi.

Giulio Gasperini
AOSTA – Lo scatto, per altro molto sfocato, del guerrigliero incappucciato sul terrazzino della palazzina numero 31 del villaggio olimpico è una delle fotografie più rappresentative dell’oramai remoto XX secolo. Erano le Olimpiadi di Monaco 1972, e in quella palazzina, che ospitava la squadra di Israele, dormiva e viveva anche Shaul Ladany, non più giovane atleta e brillante professore dell’Università di Tel Aviv. Shaul Ladany era un marciatore, un amante delle lunghe distanze, quelle che ti spezzano le gambe, ti fanno impazzire i muscoli e ti straziano il respiro. Lo sport che Andrea Schiavon racconta in “Cinque cerchi e una stella”, edito dalla torinese Add Editore nel 2012, è ben lontano dalle moderne pagine scandalistiche di doping e muscoli chimicamente pompati. È uno sport di passione, di amore, di sacrificio e incrollabile fede.
Perché Shaul Ladany riuscì a gareggiare prima di tutto vincendo i pregiudizi, i commenti avversi, l’ostilità della stessa federazione nazionale israeliana, che per anni lo fece gareggiare senza neppure una divisa: e lui, con una biro azzurra, prese a colorarsi il nome Israel su una maglia bianca, per poter dire di avere comunque una patria per la quale battersi e arrivare al traguardo finale.
Fu probabilmente una coincidenza che impedì a Shaul di trovarsi tra gli ostaggi dei fedayn di Settembre Nero, durante le Olimpiadi di Monaco: la storia testimonia una carneficina, all’aeroporto, con otto atleti morti, quattro fedayn, un poliziotto e un elicotterista. Ma Shaul è un uomo fortunato, dopotutto. Sopravvisse anche alla follia dei lager, alle camere a gas, alla metodica distruzione perpetrata a Bergen-Belsen. Si salvò spesso, Shaul. Altre volte parve persino sfidare la sua fortuna in maniera fin troppo sfacciata: come quando, nonostante il parere assolutamente contrario della sua federazione, che sotto la minaccia di rapimenti e attentati non faceva gareggiare all’estero i suoi atleti, Shaul decise di partecipare alla “Cento” di Lugano, sempre con la sua maglia dipinta a mano. Vinse, ma Israele fu severo, lo denunciò alla giustizia sportiva: sorte ingenerosa che spetta ai tanti che si ribellano alle decisione imposte e che hanno il coraggio di battersi per non lasciarsi definire – o soffocare – dai limiti.
La vita di Shaul prosegue in direzioni che parrebbero contrastanti, ma che lo gratificarono in egual modo: affiancato dalla moglie, sempre presente al suo fianco, e dividendosi non solo tra tante nazioni ma anche tra continenti, il sogno di Shaul è rincorso e sorpassato. La sua storia ha trovato compimento e dimostra, in maniera non banale né sentimentale, come la sofferenza possa anche esser sublimata e tramutata in altro.
Perché Shaul è una figura che commuove, un modello per la sua dedizione allo sport, per questa sua passione incrollabile e incontrollabile: ancora nel 2006, a settant’anni, Laudany corre, deciso e sicuro, per 21 ore, 45 minuti. E 34 secondi.