Giulia Siena
PARMA – “Il tempo passa e mette un cappio alla discussione. C’è troppo da dire; c’è così tanto da dire che deve essere detto; c’è così tanto da dire che non sarà mai detto: lo diciamo nella solitudine appassionata della gioventù, o delle diecimila notti di assenza e poi di ritorno. Ma alla fine, la risposta a tutto è che tutto è tempo e silenzio, basta; dopo non rimane più nulla da dire”. Sette anni lontano da casa, e il ritorno. Thomas Wolfe (1900-1938) nacque in una piccola cittadina del North Carolina; la sua infanzia – e la sua breve vita – furono segnate da numerosi lutti. A tutto questo dolore Wolfe contrappose il silenzio e la letteratura. Le parole, infatti, recarono calma e nuovo carburante alla sua silente irrequietezza; si rifugiò nella scrittura e qui alimentò la propria introspezione. Mentre l’anima si formava e corrodeva, il corpo cresceva: Wolfe era un ragazzo possente, alto più di due metri e questa sua imponenza allontanava i coetanei. Questa sua razionalità silenziosa e perenne lo rese volubile alle parole altrui. Il ragazzo del North Carolina – a poco più di vent’anni, dopo l’ennesimo lutto e la laurea in letteratura – spiccò il volo verso l’Europa, incontrò il mondo, continuò a scrivere di getto come fosse difficile tenere a bada quelle parole che eruttavano dalla solitudine come testimonianza di un cuore in subbuglio. Cruciale fu l’incontro con il curatore editoriale Maxwell Perkins che – come il regista Michael Grandage ha ben reso nel film Genius, a Wolfe ispirato – diede forma e direzione ai suoi scritti. Perkins aveva esperienza, Wolfe aveva da raccontare. Eppure la critica del tempo dimenticò presto la capacità narrativa di Wolfe, la etichettò come prolissa e superflua, sdolcinata e debole, buia ed evitabile. Eppure Wolfe qualcosa seminò perché subito dopo venne la Beat Generation che riprese la malinconia di questo autore e la sua voglia di andare. Continua
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