Matteo Dottorini
ROMA – In un futuro non troppo lontano, in cui l’occidente è crollato sotto i colpi della crisi definitiva, una generazione perduta si autogestisce dopo essere scappata e aver ricreato una città in cui è sempre venerdì notte. Qui, alcool e sostanze sono l’unico fine, il coito compulsivo e disinteressato l’unico sesso praticabile e l’autodistruzione l’unica barriera protettiva contro l’ansia e lo smarrimento che non risparmia sia chi arriva e sia chi in città, da un po’, risiede. Questo è “L’uomo d’argento” di Claudio Morici pubblicato dalle edizioni e/o.
Con un linguaggio gergale ma non generazionale, divertente ma mai frivolo, l’autore dà prova di possedere quel che racconta, di parlare di qualcosa che conosce, senza retorica o banali moralismi. Nel futuro immaginato da Morici non è dovuto sapere, se non tramite brevi riferimenti fatti dai protagonisti, cosa avvenga nel mondo esterno all’ambientazione della storia.
Muoversi per non spostarsi di un centimetro, fuggire da un mondo deludente verso il suo clone mascherato da “diverso”, con gli stessi vizi e le stesse ineludibili distopie. Uno dei peggiori scenari possibili che potremmo ritrovare dietro l’angolo con personaggi, se possibile, peggiori dello scenario stesso, reali quanto quelli delle living room, dei rave party e dei club che conosciamo bene.
Qual è il miglior mondo possibile dopo questo? E ancora, una volta vista per davvero la realtà e immaginandone una alternativa, di fuga, saremmo capaci di pensarla diversa da quella che viviamo tutti i giorni? Morici sembra chiederci questo, indicando il nichilismo come unica soluzione possibile per opporsi a tutto ciò che oggi ci piega, ci costringe in ginocchio, ci toglie l’aria, l’acqua, il cibo. Solo l’uomo d’argento mantiene un ordine, astraendosi completamente da tutto quello che lo circonda, dalla morte che cammina, da una fine perpetuata ad libitum. Ma non è, forse, anche lui, in quanto ideale utopico, un fantasma?
Lo si inizia credendolo un romanzo di genere, futuristico o cyberpunk , ma si rivela, invece, una narrazione, sociologicamente accurata nei minimi dettagli, della crisi della nostra generazione, che da una parte lotta e dall’altra annaspa.
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