Giulio Gasperini
AOSTA – La penna ferisce più della spada. È detto comune che mantiene un fondo di verità. Ma il libro curato dall’artista iraniano Reza Olia, “Figlie dell’Iran”, edito dalla maremmana Ouverture Edizioni (2013), dimostra come anche l’azione sia indispensabile per tentare, almeno, di cambiare un mondo che non funziona. Reza Olia arrivò in Italia nel 1959, per studiare Belle Arti: è un artista che non ha mai smesso di combattere per l’indipendenza e la libertà della sua nazione e del suo popolo, prima contro lo Scià e poi contro il cieco regime di Khomeini. Lo ha sempre fatto soprattutto attraverso le sue sculture e i suoi dipinti: ritrae e modella spesso donne dai volti fieri e coraggiosi, quelle donne che in silenzio, da sempre, subiscono le regole feroci e brutali dei regimi ma che, con la stessa dignità, cercano di minarli alle fondamenta e farli cadere.
L’idea di questo libro venne al maestro Olia in una capitale europea: durante la presentazione del suo libro “Il bronzo e l’esilio” fu avvicinato da una giovane ragazza, di nome Parvin, che cominciò a dispiegare il filo della sua memoria, inanellando una serie di orrori, di soprusi, di sevizie, perpetrate dal regime semplicemente perché era studentessa universitaria. La galleria umana delle “Figlie dell’Iran” continua con testimonianze dirette, donne che hanno accolto l’invito di Reza Olia nel voler condividere con il mondo le loro storie terribili in difesa della propria libertà personale e di quella dei loro connazionali, e anche col ricordo indiretto di altre donne, che hanno testimoniato con altri mezzi e altre espressioni artistiche e che adesso non ci sono più, già punite e condannate dal regime a una morte crudele: tra queste la fotografa iraniano-canadese Zahra Kazemi, o la vicenda tristemente nota di Sakineh Sangsar e della sua (sventata) lapidazione. Alcune di queste donne sono, appunto, diventate tristemente famose, balzate agli orrori della cronaca per le loro storie crudeli, per le loro vite devastate, per le interminabili violenze patite. Alcune, invece, non hanno né età, né nome, né volte, rimasto celato dietro veli e vesti della tradizione; alcune non hanno potuto gridare, né testimoniare le sofferenze patite, i gesti di quotidiano coraggio che permettono ancora di sperare in un mutamento: “Per molte donne che si avvicinarono alla politica in quegli anni difficili, ad esempio, vi erano obiettivi che andavano al di là delle battaglie per l’uguaglianza tra uomini e donne; soprattutto per il raggiungimento della libertà, della giustizia e per il socialismo” racconta Ziant Mir Hashemi. Sono donne, queste, spesso senza cultura, ma che edificano il sapere, diventando loro stesse cultura. E i regimi, tutti i regimi, di qualunque natura e impostazione siano, hanno paura della cultura: “L’obiettivo del regime era e rimane quello di annientare la libera comunità artistica iraniana”, sottolinea Marjan Tarjome.
Come ci insegnano Reza Olia e le “donne iraniane ancora rinchiuse nelle medievali carceri del regime e tutte coloro che sono cadute per la libertà”, l’azione e l’impegno civile sono indispensabili al cambiamento, mentre la penna è indispensabile per ricordare e non perderne la memoria. Perché è la testimonianza, in primis, che può edificare la coscienza civile e morale d’un intero popolo e d’un’intera nazione.
Tag: femminismo
Una donna “Nel paese dei briganti gentiluomini”.
Giulio Gasperini
AOSTA – Il suo è uno di quei nomi che riempiono la fantasia e che garba palleggiare in bocca, far esplodere in fondo alla gola: Alexandra David-Néel. Il suo è il nome di una donna che rappresenta l’avventura, prima ancora di un’emancipazione femminile che non conobbe forse esempio migliore. Alexandra fu golosa di strada; il richiamo del cammino, degli orizzonti sempre nuovi, delle terre da scoprire e battezzare fu un canto irresistibile, un imperativo improrogabile. Mai nascose i suoi bisogni dietro imposizioni altrui, né opinioni o pregiudizi: quando, nel 1911, partì per l’Oriente, lasciò il marito con una semplice lettera. Voland ha riproposto, recentemente, “Nel paese dei briganti gentiluomini”, che racconta il primo tentativo di Alexandra di raggiungere Lhasa e viaggiare attraverso il Tibet, dove ancora nel 1920 nessun occidentale aveva mai messo piede; tantomeno una donna.
La descrizione che Alexandra fa dei luoghi attraversati e la narrazione della sua avventura trasmettono prepotentemente tutta la sua passione per l’oriente, per codeste terre avvolte nel mistero, dove lo spirito d’adattamento deve primeggiare e nei quali l’arditezza e il coraggio non erano mai troppe. Puntuale in ogni dettaglio, attenta a spiegare ogni nuovo concetto e ogni parola mai pronunciata dagli occidentali, Alexandra si palesa anche come abile insegnante e come puntuale divulgatrice. Non c’è sguardo imparziale, nella sua visuale; c’è il punto di vista di una donna uguale a nessun’altra che sa, conosce e quel che ignora lo vuole presto imparare, così da non sentirsi mai impreparata di fronte a nulla che le possa accadere. Il cammino della pellegrina Alexandra attraverso le terre inesplorate e avverse è descritto e significato soprattutto attraverso gli incontri, le tangenze di persone, le frasi e le parole scambiate: la lungimiranza della sua visione umana e cosmopolita, in una sorta di pacifica globalizzazione culturale e sociale, sorprende e fors’anche un po’ spiazza. Ma la saggezza che si distilla da questo racconto è il tratto distintivo di una donna la cui vita stessa è un racconto appassionante di avventura. Dal 1914 al 1916, ad esempio, mentre il mondo sprofondava nel delirio e nella furia della prima guerra mondiale, Alexandra praticò esercizi spirituali in una caverna in Sikkim e nel 1921, all’età di cinquantatré anni, riuscì a entrare a Lhasa, travestita da pellegrino tibetano.
Desiderosa di vita vagabonda, Alexandra viaggiò, studiò, scrisse. Seppe come dar senso alla vita, come far gemmare una passione, come trasformare il viaggio in una forma sorprendete e superiore di cultura. E, per concludere l’epica, visse fino a cent’anni.