“Gli anagrammi di Varsavia” un romanzo dal ghetto

Marianna Abbate

ROMA – Un uomo torna nel ghetto per indagare sull’omicidio del nipote e sulla strana scomparsa di una ragazza. La storia si complica quando scopriamo che il detective amatoriale è un fantasma, tornato dall’aldilà per scoprire il colpevole della morte del giovane parente. Richard Zimler pubblicato da Piemme, ci racconta una storia insolita. Un tocco di magia, un po’ di misticismo per descrivere con attenzione ai dettagli l’orrore del ghetto, la quotidianità del dolore.

Il romanzo è ben articolato e la scrittura avvincente, ma frenerei un poco sul descrivere l’autore come l’Umberto Eco portoghese (come invece recita la fascetta rossa che rilega il libro). Il pregio del romanzo è quello di cercare di mettere in luce come nell’immenso mare di criminalità della guerra, esista una sottocriminalità più spicciola, diretta al singolo, quasi giustificata dal sistema. E’ questo l’elemento di grande attualità, applicabile anche ai conflitti dei giorni nostri. La trama principale diventa un pretesto per raccontare come rapimenti, uccisioni, furti, violenza gratuita diventano elementi costanti, quotidiani, che trasformano l’identità stessa dell’uomo. La fame, la miseria e il freddo portano a rubare l’ultimo pezzo di pane al moribondo, le scarpe a chi sta già gelando, in una frenesia di sopravvivenza che rende sempre meno umani.

E’ interessante l’analisi iniziale del protagonista che osserva la sua vecchia stanza del ghetto dove il pianoforte e tutti i libri sono stati bruciati meno che uno: una prima edizione che poteva avere qualche valore di scambio.

Perché quando c’è fame e freddo non c’è posto per il valore per la cultura.

Non posso che dare ragione alle parole di Quasimodo, che appende la cetra ai salici, seguendo il salmo. Non si può cantare “tra i morti abbandonati nelle piazze”.