Il mito di Pia da Dante a Gianna Nannini e Pia Pera.

Pia come la canto ioGiulio Gasperini
AOSTA – Sono solamente sette i versi, gli ultimi del canto V del Purgatorio, con i quali Dante ci consegna una delle figure più enigmatiche e solitarie della sua cantata umanità. Una donna aggiunge, quasi timida, la sua voce a due imponenti figure maschili, e ci affida un suggerimento, niente più d’un sospetto della sua esistenza. La scenografia è l’Antipurgatorio, le anime sono quelle di morti di morte violenta. Di fronte ai resoconti sanguinari e sanguinosi di due uomini, la Pia, come un puro giglio, ci parla di sé e del suo destino con un pudore e una reticenza da lasciarci quasi increduli, tristi, impotenti. È lei stessa a proiettarci un’agghiacciante ombra sulla sua fine: “Siena mi fé, disfecemi Maremma: / Salsi colui che ‘nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma.”; Pia, dunque, sembra suggerirci che a ucciderla sia stato proprio il marito. E qui finisce la sua confessione. Con un’ulteriore richiesta, struggente nella sua umanità: che Dante la ricordi, una volta tornato sulla Terra dei vivi. Non vuole essere dimenticata, consegnata all’oblio, dopo che la sua vita è stata così precocemente strappata alla vita vissuta. Pia, anche da anima, compie il peccato più umano che possa esistere: richiede l’eternità, valicando lo spirito e il corpo, il pudore e il dolore: “Ricorditi di me, che son la Pia”. Dante rappresenta l’ultima sua sopravvivenza tra i vivi. E il poeta acconsente; la ricorda in maniera così fuggente e vaga da aver alimentato la leggenda.
E Gianna Nannini se n’è impossessata, a distanza di otto secoli, e ne ha fatto un’opera rock, uscita nel 2008, “Pia come la canto io”, dove si vive la sua leggenda. Pia de’ Tolomei, ricca nobildonna senese, era sposa di Nello de’ Pannocchieschi, ricco possidente della Maremma. Mentre egli è in guerra, il suo migliore amico, Ghino, tenta di corteggiare Pia, senza però ottenerne i favori; così Ghino, volendosi vendicare, racconta a Nello, tornato dalla guerra, che Pia, in sua assenza, lo tradiva. Nello allora, credendo all’amico, fa rinchiudere la moglie in un castello della Maremma: il Castel di Pietra, nel comune di Gavorrano. Pia qui si strugge per l’ingiustizia subita e contrae la malaria, morendo sola e abbandonata. Questa è la storia che, spogliata dei connotati più marcatamente storici, ci viene riproposta oggi da Gianna Nannini, dopo un lunghissimo lavoro durato sette anni, condotto insieme a Pia Pera, autrice di tutti i testi dell’opera: testi forti e dolci, aspri come la gelosia e terribili come la pandemia che incombe tra le anime della Maremma.
La forza musicale è quella tipica della rocker toscana, la leggenda le scorre nelle vene fin dall’infanzia, e deflagra, in queste musiche e melodie che scavano a fondo nell’anima, nel cuore, proponendoci un dramma, una sofferenza, un agitarsi di quei sentimenti e di quelle emozioni talmente umane da essere immutabili nonostante il trascorrere del tempo. Il sogno più grande dell’uomo è sempre concedersi l’eternità, Gianna ce ne racconta un frammento. Con quella solita poesia e genuinità che da sempre la contraddistinguono. I testi, invece, grazie al lavoro di Pia Pera, sono testi altamente poetici, che uniscono suggestioni antiche, medievali a valenze e sapori moderni, contemporanei. Un duro plurilinguismo, con accenni anche al triviale, che richiama la maniera di scriver dantesca, che mai, neanche nel Paradiso, fu timoroso nell’utilizzare parole piuttosto licenziose e furiose.

Avete mai notato “La bellezza dell’asino”?

Giulio Gasperini
ROMA – Shakespeare lo aveva fatto. Nella sua commedia forse più straordinaria, “Sogno di una notte di mezz’estate”, aveva addirittura costretto una fata, pur sotto incantesimo, a innamorarsi di una testa d’asino su un corpo di uomo. Pia Pera parte proprio da qui: da un amore che troppo spesso è onirico, perso tra i fumi della trasformazione, quando tutto il mondo si scontorna e, come vento, sposta le sabbie e modifica le dune. I racconti de “La bellezza dell’asino” (Marsilio, 1992) testimoniano proprio questo: quanto il mondo possa essere completamente diverso, persino capovolto, se osservato e analizzato da un’altra prospettiva, collaterale, finanche estraniante.
I sentimenti, gli amori, il sesso, le sensazioni possono pur essere sempre le medesime, ma si quantificano e significano diversamente, offrendoci magari un appiglio estraniato ed estraniante. Un gatto che parla della sua padrona modella come se lei fosse la sua amante, e facendoci credere di esserlo stato veramente, in carne e ossa. Una successione di lettere consequenziali ma pericolanti, in una sorta di “relazioni pericolose” degli anni Novanta. Una confessione dolorosa e lancinante, compromettente e invalidante dell’umanità intima e più profonda. Il mondo va così accelerato, così rutilante, da mozzare il fiato nei polmoni, da lasciarli sgonfi. E allora cosa c’è di meglio che riposarsi tra le parole, tra i pensieri che vengono modellati dalle sillabe, messe poi nero su bianco con la precisione chirurgica di un inchiostro che non si smarrisce e che compatta l’uomo, impedendogli di sciogliersi e perdersi. Tutti marionette siamo, tutti goffi fantocci che il destino (o, chi preferisce, il caso e la casualità) muove docilmente, plasma secondo le sue direttive, gestisce e smentisce. Ma non ci sono solo gli uomini ad avere importanza. Ci sono anche gli animali che pensano e si comportano come gli uomini, meglio di loro in qualche caso, dimostrando sia istinto che inarrestabile spirito di conservazione. I legami umani sono complessi e fragili, delicati nel loro equilibrio di parole non dette ma pensate, di voci compromesse e di destini riscattati.
Al centro di tutto, c’è comunque la bellezza; la bellezza che provoca indifferenza, sospetto nei confronti dell’altra umanità che respira e pulsa tutt’intorno; la bellezza contro la quale ci troviamo a combattere e vivere; la bellezza che non sempre incentiva, quasi mai si trova nei posti che ci aspetteremmo; la bellezza che comporta fatica, mette in gioco l’uomo, lo porta a scommettere persino contro sé stesso, attendendo la possibilità di un riscatto e di una riconversione sincera; la bellezza che lo motiva e lo sostanzia, lo giustifica e lo definisce, che lo compromette e, in qualche caso, lo divora e lo strazia. Qualcuna ha scritto che, forse, potrebbe pure salvarlo!
La bellezza c’è. Da qualche parte. E da qualche parte, ognuno di noi, la scova. Anche in un asino.