“Sali d’argento”, il romanzo e la vita di Tina Modotti.

Tina ModottiGiulio Gasperini
AOSTA – Tina Modotti fu personalità complessa e sfaccettata. Una vita, la sua, che in pochi 46 anni è satura di tutto: partita dalla remota provincia di Udine per finire nel Messico di Frida Kahlo e Diego Rivera, per continuare nella Russia comunista del Comintern e nella Spagna delle Brigate Internazionali e per concludersi con il sospetto (e il mistero) di una morte in taxi. Una vita, quella di Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, che spesso sconfina nella leggenda, come capita a tutte le persone che diventano ben più di un semplice essere umano, ma si caricano di valori e concetti altri (e alti). La recente mostra a Torino ha fatto conoscere a un pubblico ben più vasto la produzione fotografica di Tina Modotti, a cui si riferisce il titolo di questo romanzo di Luca De Antonis, edito nel 2014 da Rayuela Edizioni: i “Sali d’argento”, infatti, servivano per sviluppare le lastre fotografiche, grande apprendistato della giovane Tina.
Il racconto di Luca De Antonis è dettagliato e preciso, accompagna con precisione e puntualità nella complessa biografia di una donna che ebbe mille definizioni e compiti, ma che affascinò tutti comunque, senza distinzione né eccezione. La ricerca di De Antonis è dettagliata e puntuale, non lascia nulla al caso. La scrittura è scorrevole e leggera, così da accompagnare dolcemente il lettore anche nelle pieghe più profonde dell’intimità femminile. Terzo prodotto di un progetto interamente dedicato alle figure femminili, “Sali d’argento” è un degno compimento di questo intento. La storia scorre sulle pagine con scioltezza e semplicità, senza essere approssimativa né lacunosa. Ma la narrazione comprende anche la varia umanità – coralità diffusa – che tange e si incontra con la vita di Tina, che l’accompagna per un tratto, che la scorta e l’arricchisce di volti e caratteri. De Antonis racconta anche il dramma di un’Italia che perde i suoi cittadini, in fuga per un domani migliore, per un’opportunità insistente nel loro paese: eventualità, ahimè, che negli anni Dieci del Duemila è ancora drammaticamente evidente.
Tina Modotti, in questo senso, diventa paradigma di una vita che si realizza a partire da una nascita modesta, utilizzando soltanto i propri meriti e i talenti innati, senza lasciarli appassire né sfiorire in tempi morti o inutili. La Tina Modotti di De Antonis sarà pure forse un po’ idealizzata, idolatrata e osannata senza tener conto magari di alcune spigolosità caratteriali o umane, ma rimane indubbia l’evidenza che Tina Modotti sia una donna umanamente immensa, culturalmente fondante, artisticamente imprescindibile.
La testimone, ma anche la forgiatrice, di epoche lontane ma che hanno cambiato la storia dell’umanità. Pablo Neruda le scrisse un appassionato epitaffio; ma lei, alla fine, aveva una sola idea di sé stessa: “Mi considero una fotografa, e niente altro”.

“Sotto il cielo di Lampedusa” le parole di dolore.

sotto-il-cielo-di-lampedusaGiulio Gasperini
AOSTA – Fu nel 2011 che i poeti Michael Rothenberg e Terri Carrion lanciarono un appello mondiale: far tornare la poesia al suo antico – e oramai dismesso – ruolo sociale e civile. Utilizzare la parola poetica, cioè, per chiedere cambiamenti umani, civili, culturali, economici, ambientali. Nacque il movimento 100 Thousand Poets for Change, che giorno dopo giorno, poeta dopo poeta, si è esteso fino a comprendere 115 paesi del mondo. A Bologna esiste il gruppo più produttivo e attivo dell’Italia, che ha già organizzato manifestazioni ed eventi collettivi. All’indomani del tragico episodio del 3 ottobre, quando morirono 366 migranti per il naufragio della loro imbarcazione, è nato il progetto editoriale di “Sotto il cielo di Lampedusa”, edito da Rayuela Edizoni (2014).
Un progetto collettivo, in cui raccogliere poesie e autori che ponessero l’attenzione sul dramma del Mediterraneo, sull’inaccessibilità della “Fortezza Europa”, sugli “annegati da respingimento”. Tante le voci che hanno aderito al progetto, tante le accuse rivolte ai veri responsabili di queste tragedie marine, che potrebbero essere tutte evitabili, semplicemente, con una politica più attenta di visti e cordoni umanitari.
“Un confine per segnare la linea / in una retta si chiude perfetta / in una traccia / su un figlio senza abbracci / senza identità né case a cui ritornare”, scrive Meth Sambiase. I motivi per cui si parte sono tanti, troppi. E non dovrebbero essere sempre giustificati; perché si parte anche semplicemente per il desiderio di farlo, senza doversi sentire in colpa del danno e della noia che si recano agli altri. “Ma tornare indietro / è difiscile / stare qui / difiscile / il mio tempo te lo do / la schiena il corpo te lo do / in cambio di un cartoccio / ma la faccia l’espressione degli occhi / la bocca // se vuoi sparare spara in cielo / noi non siamo / uccelli” (Maria Luisa Vezzali). E di fronte a questa sconvolgente realtà, anche la poesia trema e si sente in un certo senso impotente, inutile: “Io resto nella mia cuccia a guardare che piove / mentre la morte si veste di ottobre e di vento / mi sento cadere di foglie e parole svendute / inutile, come un verso che non dice poesia” (Annamaria Giannini). Ma, come scrive Giacomo Sferlazzo del Collettivo Askavusa, “Il mare non ha colpe”, perché le colpe sono tutte degli uomini, delle loro leggi assurde, delle loro paure archetipe, del capro espiatorio che sempre, in ogni momento, deve essere creato per alleggerirsi le coscienze – come se dalla Storia non si potesse mai imparare nulla: “Il popolo italiano sempre innocente, sono loro, quelli che stanno / al Governo e in Parlamento, che hanno fatto le leggi / sui respingimenti, loro hanno firmato i trattati con Gheddafi, / e poi è evidente che tutta questa gente qua non ci può stare” (Francesco Sassetto).
E l’orrore, il disgusto delle 20.000 vite perse per sempre nel fondo del mare, durano poco, quasi solo il tempo di un errore. E poi si finisce, come sempre, nel silenzio dell’omertà, nella frenesia dell’informazione che fa notizia, crea lo scoop, e poi si rigira pigramente verso altri interessi più attraenti, come scrive Sassetto: “Noi dalle nostre rive sfogliamo stancamente il giornale / che già annuncia nuovi barconi in avvicinamento, assuefatti / alla compassione ad intermittenza, noi coristi del coro / che grida forte e freme, / e tace nuovamente il giorno dopo”.