Ediciclo Editore: “Let my people go surfing. La filosofia di un imprenditore ribelle” di Yvon Chouinard, fondatore di PATAGONIA

Daniela Distefano
CATANIA“Sono più di sessant’anni che faccio l’imprenditore. Faccio fatica a dirlo: è come ammettere di essere un alcolizzato o un avvocato. E’ una professione che non ho mai rispettato. Buona parte dell’imprenditoria è ostile alla natura, distrugge le culture autoctone, ruba ai poveri per dare ai ricchi e avvelena la terra con gli scarichi delle fabbriche. Ma l’imprenditoria può anche produrre cibo, curare malattie, controllare la crescita demografica, dare lavoro e in generale arricchire le nostre vite. E può farlo guadagnandoci e senza rinunciare alla propria anima”.

Recita un’antica maledizione cinese: “che tu possa vivere in tempi interessanti”. Ma la storia dell’azienda Patagonia (che ha sede a Ventura, CA). dalla crisi del 1991-92 a oggi, per fortuna, non è stata molto “interessante”. Tutto per merito del suo fondatore e proprietario, Yvon Chouinard. Alla fine degli anni ’50 egli entra nel mondo degli affari progettando, fabbricando e distribuendo attrezzatura da arrampicata su roccia. Nel 1964 produce il suo primo catalogo di vendita per corrispondenza, un foglio ciclostilato in cui si consiglia al cliente di non aspettarsi consegne rapide durante la stagione di arrampicata. Inizia fabbricando chiodi da roccia ma, essendosi reso conto dei danni che causavano alle montagne, ne interrompe la fabbricazione, cambia attrezzatura e si mette a produrre e vendere dadi che non danneggiano le rocce. Gli affari vanno a rilento fino al 1972, quando Chouinard include le magliette da rugby nel suo catalogo, facendo decollare la sua linea di abbigliamento. Alla fine degli anni ’80, Patagonia sta andando talmente bene che Chouinard decide di utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale. Patagonia istituisce una Earth Tax (tassa per la Terra), impegnandosi a investire l’1% delle vendite nella preservazione e nella salvaguardia dell’ambiente.
Da dove viene l’idea del nome simbolo dell’azienda? Ce lo spiega lo stesso Chouinard nel suo libro Let my people go surfing (Ediciclo Editore):
“Il nome Patagonia iniziò a saltare fuori nelle nostre discussioni. Per molti, soprattutto allora, era un nome come Timbuctu o Shangri-La: esotico, affascinante, un po’ fuori le mappe. Evocava, come scrivemmo in un catalogo, ‘immagini romantiche di ghiacciai che scendono a strapiombo nei fiordi, cime frastagliate e spazzate dal vento, gauchos e condor’. Volevamo creare vestiti per le dure condizioni di posti come il sud delle Ande o Capo Horn. Patagonia funzionava benissimo e poteva essere pronunciato in tutte le lingue”.
Il testo – che si avvale di un contributo di Naomi Klein – racconta la storia di un’azienda anomala che dell’impegno nel preservare l’ambiente e la natura ha fatto il marchio distintivo.
“Per anni, con l’organizzazione ambientalista Nature Conservancy e con Ovis 21, abbiamo cercato di rimediare a più di un secolo di sfruttamento eccessivo di 6 milioni di ettari di pascolo in Patagonia. Abbiamo anche lottato per eliminare le pratiche dolorose per gli animali come il foraggiamento a base di antibiotici o il mulesing contro la miasi, una tortura inutile in Patagonia”.

Un’azienda di successo, longeva e performante come Patagonia potrebbe essere paragonata a un ecosistema sano: entrambi funzionano solo se gli elementi che li compongono lavorano in armonia. Non è una trovata pubblicitaria, ma la filosofia di un’azienda futuristica che da molto tempo è già una realtà.

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